Recensione n.1

Approfondire l’intimità e l’essenza di una donna può condurre duramente un uomo a materializzare e idealizzare i segni fisici della sessualità. Il film della Breillat, tratto da un romanzo da lei scritto. è spesso fastidioso, forte nelle immagini e nella lenta ed essenziale sceneggiatura e descrive le sensazioni di un omosessuale che ama gli uomini, dai quali è attratto, e rifugge le donne che lo ripugnano fino al piacere di essere pagato per guardare. Di fronte a lui una donna dalle mille domande su se stessa, insoddisfatta dagli uomini fino all’incomprensione, che vorrebbe prendere
atto del suo essere, della sua sostanza, oggettivata agli occhi di chi presumibilmente non la desidera.
L’uomo, interpretato dal “performer” Rocco Siffredi che continua ad avere velleità d’attore, trascorre quattro notti a osservare la donna, che si spoglia, lo guarda, dorme e lo provoca. Lui, impassibile seduto su una poltrona vicino al letto, in giacca, sorseggia un Whisky (per superare lo stress a cui è sottoposto?) e distilla poche parole in risposta alle domande di lei. Il tempo passa e il legame si stringe, sebbene il tatto, uno dei sensi dell’amore, è ancora lontano. La vista, l’olfatto, il gusto, sono stimolati dalle scoperte del corpo e dai suoi lati nascosti. Solo se si prova un’esperienza se ne possono cogliere i lati più nascosti e profondi.
Le interpretazioni, distaccate e volutamente monocorde, hanno lo scopo di lasciare lo spazio ai dettagli fisici dei personaggi (senza stare a descrivere quali…), che acquisiscono il loro ruolo, funzionale allo scorrere della trama.
Lento, cerebrale, e in alcune sequenze un pugno allo stomaco, il film della Breillat è un continuo scambio di liquidi corporei, mezzi che veicolano i messaggi e le sensazioni per comprendere le diversità. Come se la semplicità nascosta dai “tabù” della nostra cultura fossero le chiavi di lettura uniche dell’unione fra un uomo e una donna.
Il titolo originale francese, “Anatomie de l’enfer”, vi avverte. Non andatelo a vedere se avete paura a trascorrere un’ora e un quarto nei meandri dei vostri genitali.

Mattia Nicoletti

Recensione n.2

L’unico pregio dell’ultima provocazione di Catherine Breillat sta nella scelta di temi spinosi e problematici (l’eterno conflitto tra i sessi e l’esplicitazione del concetto di oscenita’) e nel trattamento poco incline al compromesso. Non basta pero’ mostrare cio’ che il cinema in genere nega, oscurando insieme alla morale imperante una buona fetta di vita, per far funzionare il film. La regista, infatti, si erge a depositaria dell’Unica Verita’ e imbastisce una vicenda che ha esclusivamente l’obiettivo di suffragare le sue tesi femministe (tutti sono in fondo perdenti, la donna nel buco nero della sua potenza intellettiva, l’uomo nei suoi 20 e passa centimetri di orgoglio ferito). I due unici protagonisti diventano cosi’ manichini privi di qualsiasi soffio vitale, con il solo scopo di farsi portatori di elucubrazioni all’insegna della grevita’. Ecco quindi tutta una serie di botta e risposta ad effetto ma privi di spontaneita’ che, decontestualizzati, potrebbero anche ispirare qualche riflessione non banale, mentre nella messa in scena adottata perdono ogni possibile implicazione e, anzi, finiscono per ammantarsi di ridicolo. Non e’ percio’ tutta colpa di Rocco Siffredi (un po’ si’, pero’), e della sua staticita’ spacciata per corrucciamento, se in piu’ di un’occasione l’imbarazzo travalica lo schermo e raggiunge lo spettatore. Chiunque, infatti, alle prese con battute tipo “La fragilita’ delle carni femminili impone il disgusto della brutalita’?” oppure “Il sesso femminile ha unapelle infetta come quella della rana che però almeno ha il buon gusto di essere verde” avrebbe non poche difficolta’ nella resa espressiva. Piu’ sciolta la bella Amira Casar, perlopiu’impegnata in pose plastiche di evidente ispirazione pittorica. Maldestro il montaggio, con qualche raccordo grossolano, curata la fotografia, piu’ che didascalica la voce fuori campo (della stessa autrice nella versione francese) e pessimo il doppiaggio. Non mancano i momenti forti (penetrazioni con rastrelli, infusi al mestruo, vagine truccate con il rossetto, dettagli ginecologici di bambine), ma sembrano piu’ che altro stratagemmi gratuiti per rendere il film vendibile ed impedire al pubblico di addormentarsi. Irritante, anche perche’ buttato la’ senza alcun approfondimento, il pretenziosissimo taglio da parabola educativa con ambizioni cristologiche (il ricorrere dei crocifissi, il sudario insanguinato). Grande assente, e se ne patisce non poco la mancanza, l’ironia. Il titolo italiano, dal romanzo omonimo della stessa regista, e’ un termine utilizzato dai greci per indicare l’influenza negativa delle donne in politica. L’originale, “Anatomie de l’enfer”, indica invece che “se l’inferno ha un’anatomia, e’ quella di una donna”.

Luca Baroncini (da spietati.it)