Dopo gli ammiccanti titoli di testa, che mescolano alla rinfusa secoli di storia nel vano tentativo di creare un’atmosfera, veniamo trasportati all’interno di una grande azienda di cosmetici: c’e’ il capo cattivissimo, la moglie, bellissima testimonial spodestata dalla modella giovanissima, l’impiegata, bravissima ma imbranatissima. La serie infinita di superlativi fa sorgere spontanea una considerazione: “mamma mia, che personaggi da fumetto!”. Immediatamente arriva la contro-considerazione: “Ma siamo in un fumetto! O, perlomeno, dovremmo esserci!”. E’ questo il problema fondamentale del film. Nonostante l’ingente sforzo produttivo, i sofisticati ed efficaci effetti in computer grafica, la determinazione della protagonista, la perizia scenografica, la cura per tutto cio’ che riempie il perimetro dello schermo, sembra sempre di essere sul set di un videoclip delle Spice Girls e mai e poi mai in un mondo di fantasia, con radici nel quotidiano, dove tutto e’ possibile. Non e’ un caso che una delle sequenze piu’ riuscite sia la sfida a basket tra i due protagonisti, che con i fumetti non c’azzecca per niente, mentre non sfigurerebbe come spot per pubblicizzare una bibita iper-vitaminica. La colpa maggiore e’ della disastrosa sceneggiatura, che abbozza una storiella esile esile piena stipata di buchi logici, personaggi, anche di contorno, che definire stereotipati sarebbe lusinghiero (su tutti l’amica cicciona mangiauomini e il collega gay, giuro!), un “girl power” virato in “black” di disarmante superficialita’ (la donna e’ gattina e birichina) e battute sdrammatizzanti di insopportabile banalita’. Ma anche la regia di Pitof, nato come supervisore agli effetti speciali (e si vede) e alla sua seconda prova dopo “Vidocq”, appare incerta sul taglio da dare al racconto: l’ambientazione vorrebbe essere realistica ma appare minata dai luoghi comuni e dalla spada di Damocle dell’aggettivo “cool”, e le iperboli fumettistiche godono di qualche bella coreografia nei combattimenti e di una innegabile competenza tecnica, ma soffrono della totale assenza di magia. Con il risultato che lo spettatore finisce per trovarsi spaesato senza provare il benche’ minimo interesse per i personaggi, mai davvero problematici: il conflitto dell’eroina tra il proprio essere animale e le regole civili in cui e’ immersa e’ piu’ volte accennato, ma senza alcun successivo approfondimento; l’inevitabile colpo di fulmine tra i due belli non trova ostacoli (il pepe di ogni storia) che non siano risolvibili nel giro di cinque minuti. Tutto, insomma, avviene meccanicamente e senza un reale perche’. Quanto agli interpreti, Halle Berry sembra crederci molto, piu’ a suo agio in latex nero (anche se la sensualita’ e’ altrove) che non nei panni tapini e gesticolanti della disegnatrice Patience; sempre, comunque, poco simpatica. Sharon Stone, in versione Crudelia De Mon del nuovo millennio, cerca un rilancio in grande stile ma continua a sbagliare film e il belloccio Benjamin Bratt prova soprattutto a scrollarsi di dosso il titolo di ex di Julia Roberts. Non facile, in ogni caso, dare spessore a personaggi che non ne hanno. E cosi’ tra riprese grandangolari, impossibili punti di vista e il piu’ che trito motore narrativo della vendetta, le immagini patinate si succedono senza mordente, con il “terribile” sospetto che anche il teen-ager, come al solito primo destinatario, trovi pochi appigli, oltre ai pop-corn, per divertirsi. E infatti il film arriva in Europa alla ricerca di un riscatto dopo i deludenti incassi d’oltreoceano, capaci a malapena di coprire le spese promozionali e l’ingaggio della Berry.

Luca Baroncini (da www.spietati.it)