Recensione n.1

“Nei Film il regista è Dio, nei Documentari, Dio è il regista”

Avere un approccio documentaristico, soprattutto per l’Italia, è assai difficile e più complicato del previsto. Quanti documentari all’anno escono esattamente nelle nostre sale con una distribuzione appropriata? Uno? Zero? Ma ancora più difficile è la domanda: Un documentario è effettivamente creazione cinematografica? Teoricamente un film bene o male crea, crea (o adatta) una storia, ricostruisce pezzo per pezzo questo storia/soggetto attraverso alcuni mezzi filmici come la fotografia, la scenografia, la recitazione, le parole che usciranno dalla bocca dei protagonisti.
Nel documentario invece, il regista deve “solamente” raccogliere il materiale, montare, smontare, rimontare,
rismontare a proprio piacimento, ed infine ecco il prodotto pronto. Tenuto conto di questo, andiamo ora al polemico Michael Moore e il suo documentario anti-Bush Fahrenheit 9/11, già celebre in tutto il mondo ancora prima di uscire per le ritirate all’ultimo secondo della Icon e della Walt Disney, che rifiutarono di distribuire la pellicola, prima che passasse alla Miramax di Harvey Weinstein. Va innanzitutto apprezzato il coraggio di questo regista, che non ha esitazioni nell’attaccare l’uomo più potente del mondo, ovvero il presidente degli Stati Uniti D’America George W. Bush. Il tutto, più che sugli avvenimento del 11 Settembre, ruota attorno alla attuale Guerra in Iraq, spiegandone causa ed effetto. Durante il primo tempo Moore ci espone le sue tesi riguardante il broglio durante le scorse elezioni americane, che doveva vedere la vincita di un Gore piuttosto che di un Bush, poi indaga riguardo le relazioni tra la famiglia Bush e la famiglia Bin Laden, passando tra altre tematiche scottanti come le vacanzine fuori luogo del Presidente e la negazione di voto a molti afro-americani in Florida. Se il primo tempo indaga sulle probabili cause (e false cause) della guerra in Iraq, il secondo tempo si concentra invece sugli effetti di tale guerra, raccontando il dolore dei famigliari delle vittime (sia iracheni che americani), il reclutamento sporco dei giovani e poveri futuri soldati e il menefreghismo o presunto tale della CasaBianca.
La parte pre-Iraq è esposta da Moore in chiave ironica, commenta con la propria voce le immagini che passano prendendo per il culo Bush ed i suoi alleati, lo ridicolizza davanti agli spettatori, tanto che a Cannes molti giornalisti hanno detto che Bush doveva vincere come Miglior Attore Comico. Ma quando il regista scende sul campo della guerra, il film cambia registro e diventa drammaticità di prim’ ordine, diventa commovente, toccante, incredibilmente potente, anche e soprattutto perché sei consapevole che quello che hai davanti non è finzione, ma realtà, che la donna che si sta disperando non è un’attrice, ma una madre vera, una madre che ha perso suo figlio nella guerra in Iraq. La pellicola di Moore ti riempie di domande: Perché diavolo in Florida molti afro-americani sono stati privati del loro diritto di voto durante la battaglia elettorale Gore/Bush? Perché diavolo lo Stato ha lasciato partire dagli Stati Uniti tutta la famiglia Bin Laden che risiedeva in America il giorno dopo la tragedia delle Twin Towers? Perché diavolo Bush ha decurtato del 40% i fondi per la sicurezza nazionale con l’allarme terrorismo in giro? Sono domande che non solo ci costringe a riflettere, ma anche ad arrabbiarci, a prendere una posizione, a non rimanere nell’ignoranza. E al contrario di quanto hanno fatto molti critici americani, non staremo qua a sostenere se Moore ha mostrato cose false, parzialmente vere, o totalmente vere, noi ci attingiamo alle argomentazioni di questo regista del Michigan, che riescono a far riflettere più di quanto molti film messi insieme riescano a fare, stabilendo un punto d’incontro tra Opera Documentaristica e Opera Filmica. Lo definiamo un grande Documentario d’Autore.

Pierre Hombrebueno

Recensione n.2

E’ evidente che certi film non sono giudicabili facendo leva su valutazioni di ordine puramente estetico. Sarebbe ridicolo. Ci sono opere che vanno ben al di là dell’estetica, e che proprio per questo, ogni tanto, sono necessarie. E non stiamo parlando di The Passion of Christ. Oggi, in particolar modo, e da vari decenni a questa parte, un film come Fahrenheit 9/11, così puntuale, così gridato, con tutto il suo carico di eccesso e faziosità, è oggi incredibilmente raro. Unico. E fosse anche solo per questo, il documentario d’assalto di Michael Moore non può che essere salutato con sollievo e speranza.
Parliamoci chiaro: dietro la realizzazione di un film del genere c’è uno scopo ben preciso, assai più drastico del semplice fare soldi o propaganda. E’ uno scopo politico, ma che non riguarda solo gli Stati Uniti. Si tratta di impedire che Bush venga rieletto, adoperando tutte le armi possibili. Tutto qui. Che cosa terribile, vero? Eh sì, menomale però che le armi di Moore al limite fanno incazzare, ma non ammazzano. Qualcuno forse dirà che Moore non è un cineasta ma solo un politicante. Ad avercene. Perché finalmente assistiamo all’irresistibile ascesa di una voce fortemente polemica e controcorrente che nessuno pare riesca a fermare, che non è capace solo di gridare facili slogan ma di affrontare faccia a faccia i personaggi che prende di mira, di compiere ricerche accurate, servendosi di documenti esistenti, anche se censurati, e di adoperare nel modo più persuasivo e possibile, la sua intelligenza e la sua vis ironica. Questo è scorretto? Non è curioso che in quest’epoca chi è animato di forti convinzioni venga automaticamente tacciato di essere un manipolatore, un buffone, un pazzo? Siamo davvero così abituati all’opinionismo nell’ombra, all’assenza di dibattito, alla latitanza delle idee? Sarà per questo, allora, che molti giornalisti e critici si sono indignati per quella che giudicano un’operazione di manipolazione ideologica, di bieca propaganda anti-elettorale.
Noi no. Noi siamo contenti. Noi speriamo che il film incassi milioni di dollari a palate, come del resto sta già facendo, e che sia visto ovunque, possibilmente anche nelle scuole. E che il risultato sia non un tacito accordo pro-Moore, o che Moore diventi il nuovo Messia di quella sinistra che non sa più a quale santo votarsi; ma semplicemente che il cervello delle persone si rimetta in moto, che ognuno sia spinto a porsi domande, a fare i dovuti distinguo, ad informarsi là dove non si è mai curato d’informarsi prima. Fosse anche solo per restare poi della propria opinione. Ecco cosa speriamo.
Perdonateci se non abbiamo parlato della fotografia del film o dei movimenti di macchina. Quello che possiamo senz’altro dire, parlando di recitazione, è che George Bush è davvero un grande attore. Ma nemmeno tanto, a guardarlo da vicino.
Voto: N.C.

Vittorio Renzi

Recensione n.3

Il montaggio connotativo, che produce senso attraverso la giustapposizione di fotogrammi di matrice significante diversa, è una tecnica cinematografica teorizzata fin dagli albori della settima arte, su cui diverse correnti artistico-formali hanno basato la propria poetica. Tra i registi in attività, Moore è probabilmente il più radicale nel proporre un cinema di montaggio, un flusso di immagini che trovano intima correlazione e significato tra loro, facendosi veicolo di un messaggio più vasto e coevo. Più ancora del precedente, e francamente più riuscito, Bowling a Colombine, questo Fahrenheit 9/11 estremizza questa concezione del cinema documentaristico, basando proprio sul furioso parossismo del montaggio la spettacolarizzazione delle proprie non sempre lucide tesi e il conseguente raggiungimento del target di riferimento.
La macchina da presa del cineasta americano questa volta si ferma, quasi riflessiva, e diventa camera fissa nelle interviste per lasciare il posto ad un bombardamento di immagini di repertorio montate a senso tra loro. Il risultato è uno strano prototipo di documentario-cinegiornale postmoderno, che unisce materiali audiovisivi di disparate provenienze con l’ironia sardonica e arguta del regista, e si tramuta in un vibrante colpo assestato ad un establishment che avrebbe un disperato bisogno di aprire gli occhi. Per questo motivo la prima parte del film di Moore, quella relativa agli “intrighi di palazzo” della Casa Bianca, ai rapporti tra la famiglia Bush e quella dei Bin Laden, ai loschi traffici con l’Arabia Saudita, alla stupefacente pochezza morale e intellettuale di “tutti gli uomini del presidente”, è, sebbene semplicistica laddove mostra il presidente statunitense come un babbeo, davvero travolgente, perché, pur nel continuo riciclo e nel suo attingere al “già fatto”, ha un implacabile ritmo cinematografico, con pochi fronzoli e molta abilità retorica.
L’onnipresente voce off quasi mai infastidisce e alcune intuizioni sono assolutamente fulminanti: lo stacco di Cocaine a commento del certificato di renitenza alla leva di Bush ne è un esempio di rara intelligenza e abilità registica. Il ritmo incalzante e felice dell’opera si arresta di colpo, però, nella seconda parte, quando la narrazione della guerra in Iraq si incaglia in qualche eccesso moralistico e in troppe concessioni al patetico. Il dolore della madre del soldato americano appare un po’ strumentalizzato, la figura retorica creata dal raccordo in dissolvenza tra il bambino iracheno che gioca sullo scivolo e le bombe americane che esplodono una caduta di stile poco giustificabile. L’impressione, inoltre, è che nella descrizione del folle conflitto iracheno, il regista americano forzi un po’ la mano e metta troppa carne al fuoco, perdendo un po’ l’organicità del discorso e l’impatto emotivo.
Il quesito che complessivamente si pone è se, nella sua virulenta imperfezione, Fahrenheit 9/11 sia un’opera necessaria, importante, utile a gettare in faccia ai cittadini americani dettagli forse più noti in Europa che nel loro paese. Il rischio è che alcune argomentazioni, quelle più forzate e strumentalizzanti, funzionino per contrasto come una sorta di boomerang.
Un’ultima considerazione merita la Palma d’Oro di cui il film è stato insignito a Cannes, dal presidente di giuria Quentin Tarantino; la Francia è sempre stata paese tradizionalmente intransigente sul piano del rigore morale del cinema e dell’arte, ma la croisette ha perdonato questi eccessi retorici a Moore, e non solo perché il “documentario postmoderno” è piaciuto a Mastro Tarantino (e alla Miramax, vicinissima tanto a Pulp Quentin che a Moore…piccola insinuazione…); ma i venti minuti di applausi che Fahrenheit 9/11 ha ricevuto a Cannes sono evidentemente il segno del profondo malessere del Vecchio Continente, cui il cineasta americano è riuscito a dare sfogo.

Simone Spoladori