C’era una volta, tanti anni fa, un attore chiamato Robert De Niro che con la sua presenza garantiva la qualita’ delle pellicole che interpretava. Poi alle esigenze artistiche sono probabilmente subentrate le ragioni elementari e dalla fine degli anni novanta e’ cominciata una serie di titoli, perlopiu’ anonimi, che hanno finito per intaccare la credibilita’ del mito. “Godsend” rientra pienamente nella fase calante della star, forse uno dei punti piu’ bassi. L’approccio al racconto ha la stessa profondita’ di un qualsiasi giallo del sabato sera di RaiDue, e tutti i possibili spunti di interesse vengono sprecati nella solita storia dello spiritello malvagio che torna a seminare brividi di cartapesta. Si racconta infatti di una giovane coppia che perde l’amato figlio di otto anni in un incidente. Della conseguente disperazione approfitta un medico con un segreto che propone un esperimento di clonazione. Il miracolo si compie e nasce un figlio uguale al defunto. Passano altri otto anni (ma nessuno se ne accorge, tranne il coiffeur della Romijn-Stamos che le toglie il parruccone da crucca) e, quando il bambino fotocopia supera l’eta’ dell’originale, cominciano i guai. Quello che sembra il resoconto del plot e’ purtroppo solo l’antefatto, perche’ il film e’ incentrato sulle possibili inquietudini degli sviluppi. Ecco quindi le ennesime visioni dalle pretese terrifiche, i buh! motivati solo dagli stacchi musicali, due genitori che potrebbero ricevere il premio “allocchi dell’anno”, un cadavere innocente per dare un contentino al “genere”, l’uso sconsiderato della scienza a fini personali, le macerie di una scuola bruciata da anni che nascondono ancora pezzi di carta risolutivi, una vecchia nera che spiffera al primo arrivato segreti inenarrabili, la resa dei conti a suon di candelabro in testa e il finale ambiguo. Tutto piattissimo, affiancato con noiosa prevedibilita’ e, cosa piu’ grave, senza il fondamento di alcuna sostanza. Non sarebbe male il soggetto, ma viene narrato a suon di luoghi comuni, attraverso personaggi stereotipati, senza la capacita’ di creare la minima tensione e con evidente svogliatezza: dalle scelte di regia di Nick Hamm, gia’ autore del vacuo “The Hole” (le solite visioni popolate dai grugni di bambini urlanti e sghembe come un videoclip – accostamenti gratuiti, tipo il mixaggio tra De Niro che cincischia con le biglie di ferro e il primo e unico delitto), all’impegno degli attori, che paiono di passaggio (a parte Cameron Bright che ritroveremo con Nicole Kidman in “Birth”). Nemmeno il rigore dell’inverno canadese trova un punto di vista che sia tale nella visione di Hamm. Con i titoli di coda scivola anche la fiducia nei confronti di un cinema di genere che svende in saldo i possibili brividi e continua a deludere in modo preoccupante.
Luca Baroncini (da www.spietati.it)