Recensione n.1
L’ultimo film di Jacques Rivette, nome di punta della “Nouvelle Vague”, sembra purtroppo lo stereotipo del film francese intellettualoide: personaggi che si rincorrono senza un perche’, un “amour” che non puo’ che essere noiosamente “fou”, dialoghi monosillabici in cui le frasi piu’ ricorrenti sono “Non so!”, “Puo’ essere!”, domande a cui i personaggi rispondono con altre domande, bruttissime sequenze di sesso di forzata falsita’ e su tutto una patina di gelo a contenere il piu’ possibile l’emotivita’ (non sia mai abbandonarsi alle vili emozioni!). Si racconta del legame affettivo tra Julien, orologiaio dai loschi traffici, e Marie, misteriosa donna dall’indefinito passato. I due si prendono e si lasciano in un rapporto passionale ma irto di difficolta’, in cui si inserisce l’altrettanto misteriosa Madame X. L’aspetto piu’ interessante e’ la soggettivita’ con cui il tempo viene rappresentato: immobile all’interno della grande casa del protagonista, che ripara orologi ma non ne ha uno funzionante, e totalmente slegato da una scansione razionale nei continui andirivieni a cui si abbandonano i personaggi. I due protagonisti godono di una forte presenza scenica: il polacco Jerzy Radziwilowicz (gia’ “Uomo di Marmo” e poi “di Ferro” per Wajda) ha grande carisma; la bellissima Emmanuelle Beart (perche’ quelle labbra rifatte a ridicolizzare l’armonia di un viso perfetto?) si butta con slancio nel non facile personaggio di Marie, ma esagera nell’enfasi con cui sembra voler trasformare ogni sequenza in scena madre. Estremizzando i confronti, il film puo’ essere considerato una risposta d’Oltralpe a “Il sesto senso”. “Vedo la gente morta” diceva il piccolo Haley Joel Osment e la stessa cosa potrebbe essere ripetuta dal cast del film mal interpretando, dallo schermo, gli occhi a mezz’asta del pubblico.
Luca Baroncini (da www.spietati.it)
Recensione n.2
Cosa lega Julien,un tranqullo orologiaio, Madame X, una misteriosa e affascinante venditrice di sete cine si e Marie, una ragazza sempre con le valigie in mano?
E’ a questo interrogativo che l’ultimo film di Rivette, Storia di Marie e Julien, cerca di dare risposta. Si tratta di un progetto che il regista francese aveva concepito più di trentina di anni fa, parte di un trittico che il regista aveva abbandonato. Il fortunoso ritrovamento della sceneggiatura ha spinto Rivette a recuperare l’idea e a girare il film.
Come sempre la grandezza di Rivette non è stata compresa, se il film non è passato per i maggiori festival e se è uscito solo ora, peraltro con una distribuzione molto limitata.
L’ambiente del teatro cosi caro al regista , viene abbandonato per fare spazio ad una vicenda che si può definire senza eufemismi di amore e morte. La vita tranquilla dell’orologiaio Julien viene interrotta dalla presenza di una donna troppo bella per essere vera, una ragazza che vive alla giornata, peregrinando di albergo in pensione. Una donna che è apparsa in sogno e che incontra per caso, mentre va a riscuotere il denaro dalla misteriosa signora che sta ricattando. Una squallida storia di ricatti, di amori consumati nei motel diventa per mano del regista una riflessione sul rapporto tra morti e vivi, su quanto rimane a noi di chi ci ha lasciato per sempre.
Lo fa con uno stile limpido e puro che sembra ricondurci alla leggerezza di un Rohmer, all’incanto di un racconto morale del Settecento., il secolo in cui come dice Julien ad occuparsi degli orologi erano soprattutto i re.
Ma la leggerezza e la grazia lasciano presto spazio alla pesantezza di un destino crudele, ad un clima cupo e carico di morte.
Marivaux lascia quindi spazio a Poe e alle sue storie di morti-non morti, di ombre che camminano, di solai bui dove i gatti vanno a nascondersi.
Come il gatto Nevermore, che guarda sempre il soffitto e che conduce impercettibilmente le fila dei destini dei protagonisti.
Il tempo sembra bloccato nella casa di Julien, in un eterno presente che non ha mai passato ne futuro, dove una stanza viene arredata e preparata per liberarsi dalla condanna di una vita-non vita.
Non basta bruciare una lettera come fa Madame X , le persone care non ci lasciano. Forse Rivette vuole dirci che bisogna occuparsi di loro come fa il protagonista di un bellissimo racconto di James da cui Truffaut ha tratto La camera verde.
Così un po’ di sangue rosso potrà ancora scorrere nelle nostre e nelle loro vene.
Rivette dunque ci regala un’opera su cui riflettere, un avvertimento contro l’oblio di chi non esiste più. Ma ci regala anche una storia d’amore che non sarebbe spiaciuta a Cocteau e a tanti amici della Nouvelle Vague.
In questo è coadiuvato da un terzetto di attori splendidi su cui svetta superba la Beart, sublime quarantenne con il volto da ragazzina sperduta, che non ha perso nulla della luminosità de La bella scontrosa.
Mauro Madini