Produzione: Apocalypse, Pulp Video.
Regia: Sergio Stivaletti.
Soggetto e sceneggiatura: Antonio Tentori e Sergio Stivaletti
Cinematografia: Fabrizio Bracci.
Musica: Maurizio Abeni.
Effetti speciali: Apocalypse.
Interpreti: John Phillip Law, Riccardo Serventi Longhi, Elisabetta Rocchetti, Ambre Even, Andrea Bruschi, Roberta Terregna, Emiliano Reggente, Simone Taddei, Shanti Firenze, con l’amichevole partecipazione di Lamberto Bava e di Claudio Simonetti.
Sergio Stivaletti, il maestro italiano degli effetti speciali, dopo MDC-Maschera di cera prodotto da Dario Argento, è il regista del film I tre volti del terrore, un horror che rende omaggio ai film di Mario Bava, in particolare I tre volti della paura, e a pellicole quali Le cinque chiavi del terrore di Freddie Francis. Si tratta di un horror gotico di ambientazione moderna, in cui Stivaletti rivisita classici mostri del cinema del terrore come l’uomo lupo, il mad doctor e la creatura del lago, avvalendosi di nuovi e sorprendenti effetti speciali.
La storia, la cui struttura narrativa è evidentemente ispirata a Le cinque chiavi del terrore, è ambientata a bordo di un treno sul quale viaggiano i tre giovani protagonisti, due ragazzi (Riccardo Serventi Longhi ed Emiliano Reggente) e una ragazza (Ambre Even). Il loro sonno è improvvisamente interrotto dall’arrivo di un quarto passeggero, l’anziano ed enigmatico professor Peter Price (John Phillip Law). L’uomo è un ipnotista e, mediante una sfera di metallo di sua invenzione, ha la possibilità di risvegliare nella psiche dei tre viaggiatori ricordi nascosti del loro passato. E’ quello che comincia ad accadere ai tre protagonisti che, dalla comparsa di Price nel loro scompartimento, vivono una fantastica e terribile esperienza.
…E il viaggio si immerge in una dimensione ignota.
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A otto anni dall’esordio come regista (“M.D.C. – Maschera di cera”), Sergio Stivaletti, mago degli effetti speciali “made in Italy”, torna dietro la macchina da presa e prova a rinvigorire il genere horror rispolverandone le radici più genuine. Il suo, infatti, e’ un vero e proprio omaggio al cinema ruspante e sperimentale che per oltre un ventennio (dagli anni Sessanta ai primi anni Ottanta) ha dominato nella produzione nostrana incontrando le preferenze del pubblico. Le intenzioni del regista sono esplicite fin dal titolo, che combina due classici come “I tre volti della paura” di Mario Bava e “Le cinque chiavi del terrore” di Freddie Francis e trovano consistenza nella struttura a episodi e nella scelta del simpatico John Phillip Law (un volto familiare per i frequentatori del “genere”) come protagonista e collante delle singole micro-storie. La prima, “L’anello della luna”, sceglie un tema piu’ che classico, la profanazione di un sepolcro in grado di risvegliare le sonnecchianti forze del male, e pur affidandosi a meccanismi elementari di suspence, si lascia guardare con divertimento; efficace, pur nella sua prevedibilita’, la progressione del racconto e riuscita la trasformazione a vista del protagonista in licantropo, anche se il confronto con “Un lupo mannaro americano a Londra” di John Landis e’ impari, soprattutto considerando i venti anni e piu’ di distanza. La seconda tappa nei meandri dell’orrore casareccio, “Dr. Lifting”, si basa sui segreti “professionali” di un medico specializzato in interventi di chirurgia estetica ed e’ sicuramente l’episodio piu’ riuscito, per la vena caustica che lo anima e perche’ con pochi azzeccati dettagli riesce a creare i presupposti dell’azione. Il terzo, “Il guardiano del lago”, e’ invece il peggiore. Il perno narrativo e’ ancora la sacrilega profanazione, questa volta pero’ non di una tomba ma di un lago, con tre giovani non propriamente vispi che si trovano a fronteggiare l’orrendo guardiano degli abissi. La storiella e’ appena abbozzata e insufficiente a giustificare gli sviluppi, e gli effetti speciali (il mostro della laguna) cercano consolazione nel passo-uno di Ray Harryhausen ma finiscono per ricordare il trash dei lucertoloni in gomma di certa fiction giapponese (“Megalomen” in primis). A dare coesione al tutto, uno stile visivo che si affida al supporto digitale (sporco e bruttarello nonostante i miracoli del direttore della fotografia), una regia che riesce a non soccombere alla scarsita’ del budget, una recitazione tutto sommato dignitosa (contravvenendo, in questo caso, alle regole del “genere”), una colonna sonora un po’ trita ma capace di trovare il necessario “sense of wonder”, e un’atmosfera divertente e divertita di gioco con il cinema e i suoi cliche’. Se i fan di Bava, Fulci, Freda & Co. troveranno di che gioire, cogliendo citazioni e desiderio di imprimere nuova vita a un “genere” ormai desueto, apprezzando anche l’artigianato e il senso di precarieta’ che trasudano dai fotogrammi, gli altri si fermeranno con tutta probabilita’ al perimetro del film, evidenziandone i palesi limiti, sia estetici che di sceneggiatura. Il giudizio critico si colloca nel mezzo, una parte sta al gioco e se la passa con moderata partecipazione, ma l’altra vorrebbe che oltre al languore per il bel tempo che fu (la sopravvalutazione e’ nell’aria), si riuscisse anche a dare vita a qualche cosa di personale che traesse vigore dalla forza di un’idea. Possibilmente, ma questo e’ chiedere troppo, non sempre la stessa.
Luca Baroncini (da www.spietati.it)