NON APRITE QUELLA PORTA (DEL CINEMA)
Dentro, infatti, c’e’ il solito pacchetto “all inclusive” che accompagna gli horror d’oltreoceano (ma non solo) da un po’ di tempo a questa parte: giovani bellocci e un po’ scemotti, cattivi deformi e cannibali in formato famiglia (Tobe Hooper dovrebbe cominciare a far pagare diritti d’autore piu’ salati), la fuga dei buoni, la caccia dei malvagi, qualche dettaglio “gore”, le vittime sacrificali (la zavorra narrativa), fino a “ne restera’ soltanto uno” (pardon, due), lasciando aperta, ovviamente, la porticina per un eventuale seguito, casomai gli incassi lo richiedessero. Il tutto rifritto senza un briciolo di inventiva e puntando quasi esclusivamente sul ritmo (che non manca) e sull’azione. Non e’ la tensione il punto dolente del lungometraggio (il quartetto nella casa dei maniaci, la fuga nella torretta, qualche brivido, infatti, lo regalano), ma il progressivo infittirsi di trovate improbabili che finiscono per rendere gli sviluppi grossolani. Come di frequente accade al cinema, infatti, personaggi dall’apparenza comune acquistano, di colpo, le forze ultraterrene di Superman e Wonder Woman e fronteggiano in scioltezza, o quasi, qualunque ostacolo. A languere e’ quindi soprattutto la sceneggiatura, che cerca l’elementarita’ ma non trova l’efficacia e abbozza tipologie umane stereotipate e percio’ prive di interesse: i giovani cannati, disinibiti e antipatici con il fumetto del giudizio morale (guarda caso i primi a soccombere), la coppia sdrammatizzante (il duo “mela & tequila”, impegnato in siparietti che non sfigurerebbero a “Buona Domenica”) e i “survivors”, tosti, solidi ed eroici (una liason, ovviamente, e’ nell’aria). I cattivi, invece, non vengono minimamente approfonditi. Un montaggio iniziale, clipparolo e ridondante, ce ne riassume sbrigativamente la natura malsana e sanguinaria, ma dietro ai mascheroni soffocati dal trucco (piu’ che riconoscibile il tocco di Stan Winston alla produzione) e a qualche sonorita’ sibilante, il racconto non dissemina appigli di reale inquietudine. La regia riesce a cogliere il pathos di alcune situazioni, ma si perde nel caos delle sequenze di azione, in cui lo spettatore diventa testimone di esiti tutt’altro che plausibili senza capirne le effettive dinamiche. Gli interpreti, pur senza brillare, stanno al gioco e non sfigurano. Inesistente, invece, il sottotesto sociale, con la provincia, ennesimo teatro di nefandezze, e la natura, dedalo inestricabile e impossibile rifugio dai mali del mondo. Ma questo, John Boorman docet, lo sapevamo gia’.

Luca Baroncini (da www.spietati.it)