Recensione n.1
Gianni incontra per la prima volta suo figlio Paolo su un treno diretto a Berlino, dopo aver rifiutato di vederlo per 15 anni, in quanto per un parto difficoltoso( che provocò la morte della madre) rimase menomato nel fisico. Il viaggio verso l’ospedale per la terapia di riabilitazione porterà ad un riavvicinamento?
L’ultimo film di Amelio, atteso da parecchio tempo e presentato all’ultima mostra di Venezia, si confronta con un tema molto difficile e a rischio film verità.Rischio che naturalmente Amelio riesce ad evitare accuratamente.
Il film ha subito una lavorazione molto travagliata. La prima stesura era molto fedele al romanzo di Pontiggia Nati due volte, ma con il passare del tempo e d’accordo con l’autore
Amelio ha deciso di cambiare radicalmente l’impianto del film, tenendo solo l’idea di base.
Le chiavi di casa non è un film sull’handicap che cerca di toccare i cuori bendisposti di un pubblico alla ricerca della lacrimuccia facile, ma è un film sulla difficoltà di essere figli e padri, sulla difficoltà di comunicazione fra un uomo giovane e uno maturo, su due persone che sono padre e figlio ma potrebbero benissimo essere fratelli, come in Così ridevano.
Due fratelli che intraprendono un viaggio che li porta in un paese ostile, totalmente altro dove i fantasmi del passato non sono ancora scomparsi. Difatti la difficoltà maggiore sta nel farsi comprendere dagli abitanti di Berlino, dai medici, dai taxisti,dai passeggeri della metropolitana. Una città fredda , questa Berlino, una città perfetta, razionale, dove tutto è al suo posto con un ospedale che sembra la quintessenza della perfezione.
Ma dietro apparecchiature sofisticate, camere linde e pulite Amelio sembra dirci che l’umanità manca totalmente. L’inflessibile dottoressa sottopone il povero Paolo a qualcosa che assomiglia più ad una tortura da lager che a una terapia, con i comandi dati sempre più velocemente, che portano il ragazzo allo svenimento. L’infermiere finge di non parlare italiano e scaccia il padre. I fantasmi del passato riemergono anche nella foto dei bombardamenti che è appesa nel corridoio. Gianni e Paolo sono dispersi, lontani dal resto delle persone, sradicati. A simboleggiare tutto questo è la continua presenza di autobus, treni, metropolitane,che invece di essere mezzi di comunicazione diventano causa di divisione. Personaggi apolidi, che continuano a nominare numeri di telefono, indirizzi, che continuano a parlare di case, di lavori che devono fare a casa propria.
Padre e figlio persi in un paese straniero che tentano di recuperare il passato,che tentano di comunicare dove è il più giovane a dare lezioni di vita al più vecchio, come capita sempre nei film del regista. Padri che si vergognano di essere tali e che ricevono lezioni di vita da signore incontrate per caso, con frasi terribili sussurrate in una metropolitana, fra un vagone e l’altro.
La freddezza di Amelio nel trattare tutti questi temi è esemplare, è il pudore del non detto, del sussurrato che fa grande questo film.
Lo stile è quello documentaristico, con una fotografia sgranata e una presa diretta che fa comprendere tutta la fatica di parlare di Paolo. Uno sguardo duro e spietato che cancella di un sol colpo tutti i vari miasmi buonistici che infettano il cinema italiano e non solo.
Un film non riconciliato e non riconciliante, con un finale di una durezza estrema, che sembra riecheggiare in negativo quella del Ladro di bambini, senza il calore della Sicilia a scaldare ma il freddo di un fiordo norvegese dal quale forse può rinascere un rapporto tra un padre-figlio e un figlio –padre.
Forse…
Mauro Madini
Recensione n.2
Dato fin da prima dell’inizio del Festival di Venezia come favorito alla vittoria, il nuovo film di Gianni Amelio e’ invece rimasto a bocca asciutta, lasciando RaiCinema nello sconforto (quest’anno, per fortuna, nessuna imbarazzante dichiarazione da parte dell’amministratore delegato). A giochi ormai fatti, e facendo i complimenti alla giuria per la capacita’ di non lasciarsi condizionare da chi pensa al cinema come potere e non come arte, un interrogativo sorge spontaneo: doveva vincere? Beh, inutile nascondere che “Le chiavi di casa” delude parecchio le aspettative. Sia tecnicamente, perché non è ammissibile che si debba ricorrere ai sottotitoli in inglese per riuscire a capire i dialoghi dei personaggi, ma anche per il taglio impresso da Amelio al racconto. Possibile che al cinema il disabile sia sempre simpatico, gioioso, tenace, vitale e abbia tante cose da insegnare? Attenzione, perché non significa che sia vero il contrario, ma solo che una visione edificante e a senso unico rischia di togliere dignità all’handicap, mostrando una realtà edulcorata a puri fini cinematografici. Il film di Amelio gode per fortuna di interessanti sfumature, ma il rapporto tra il quindicenne Paolo e il padre che non ha mai conosciuto, pecca di qualche schematismo di troppo e non convince fino in fondo. A essere poco credibile non e’ tanto il giovane Andrea Rossi, quanto il personaggio del padre, per tutto il film troppo positivo e accomodante (non certo plausibile l’idea di buttare a mare la stampella, cosi’ come il semplicismo della telefonata finale alla moglie). Kim Rossi Stuart lo interpreta con sensibilita’, a parte l’occhio fisso e lo sguardo attonito con cui reagisce alla fuga del figlio dalla palestra. La madre di una disabile, interpretata da Charlotte Rampling, pare invece avere la didascalia del riempitivo. Irritante la sequenza in cui legge e consiglia il libro “Nati due volte” di Giuseppe Pontiggia, fonte di ispirazione della pellicola. La sceneggiatura e’ molto attenta a evitare qualsiasi spettacolarizzazione del dolore, anche se per forza di cose risulta un po’ ricattatoria (le cure mediche, le estenuanti camminate imposte dalla durissima dottoressa). Solo verso la fine, quando la disperata presa di coscienza del padre prende consistenza, il film sembra poter cominciare a dire qualche cosa che esca dal luogo comune. Inutile dire che e’ troppo tardi e l’embrione di un’emozione arriva dopo i titoli di coda.
Luca Baroncini (da www.spietati.it)
Recensione n.3
Le chiavi di casa
Le chiavi di casa era plurifavorito per il Leone d’oro. Rimasto invece a bocca asciutta. Un padre riabbraccia dopo anni il figlio handicappato. Il film di Amelio è certamente toccante e ben girato, ma gli fanno difetto alcuni buchi di sceneggiatura (il libro letto dalla signora sulla panchina…) e alcuni eccessi di buonismo quasi surreale (il lancio della stampella in acqua).
VC
Recensione n.4
Si parla di maniera sottile, di ritorno alle atmosfere opprimenti a aeree de Il ladro di bambini. Non si può fare altro che attingere al macrocosmo desolato, vigile, scorticato e vivo delle espressioni già note nell’opera di Gianni Amelio. Regista dalla sensibilità peculiare, che sposa il documentarismo di paesaggi e primi piani sgranati con la stessa intensità indagatrice al dramma. Questa volta abbiamo a che fare con un dramma palpabile, appena stemperato dalle sfaccettature comiche dei dialoghi. E’ un’ironia sagace e crudele quella di Paolo, un ragazzo con disturbi psicomotori evidenti, che si scontra con il fare tentennante e contraddittorio del padre Gianni, che lo ritrova dopo 15 anni. Il rapporto di complicità straziato e l’estraneità resa dagli sfondi ghiacciati di Berlino si intersecano. Si allude sottilmente al senso di colpa e all’abbandono, con un’accurata e forse eccessiva scarnificazione dei momenti, abilmente scollegati. A tratti si sfiora quell’eccesso di pathos avvertito come un rischio, soprattutto negli sguardi costernati e nelle inflessioni che Kim Rossi Stuart dona al personaggio di Gianni, ma questo viene aggirato, cancellato con la forza degli stacchi tra le inquadrature: manca quella sensazione generale di rischio, di stimolo psicofisico acutizzato e diffuso nell’andamento della pellicola. Ma quello stesso stimolo sembra esserci restituito da rari (ma non troppo) fotogrammi vibranti e consapevoli: Paolo che cammina trascinandosi, di spalle; la Norvegia ghiacciata e immobile come preludio alla sospensione finale, al dubbio profondo e vincolante del padre diviso tra la gioia e il terrore nell’accogliere definitivamente una creatura straordinaria e terribile, capace di svelare crudamente le meschinità e le fragilità dei suoi interlocutori. Il paesaggio sembra aprirsi con straordinaria efficacia di fronte a questo crepaccio umano, riscattando in parte quell’irrisolutezza inquietante che domina il film.
Chiara F
Gianni Amelio, infanzie
In attesa dell’uscita del prossimo film di Amelio, Le chiavi di casa tratto dal bel romanzo di Pontiggia Nati due volte, mi sembra interessante ripercorrere brevemente due film realizzati dallo stesso regista per la televisione tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli 80, Il piccolo Archimede e I Velieri.
Si tratta di due lavori realizzati per la Rai, tratti da due racconti. Il primo , il Piccolo Archimede da un bel racconto di Huxley, il secondo da un omonimo racconto di Anna Banti. Come vedremo ci sono molti elementi in comune sia nella struttura, sia nella definizione dei personaggi, che popoleranno le figure dei film degli anni 90.
Sono storie di infanzie violate, di bambini non capiti , diventati adulti troppo presto fratelli minori dei protagonisti dei film successivi del regista che possiamo considerare come la lo loro proiezione nel mondo adulto.
Partiamo seguendo l’ordine cronologico da Il piccolo Archimede.
Ognuno distrugge ciò che ama
Toscana. Anni 20. Alfred, un inglese studioso di storia dell’arte passa l’estate in una meravigliosa villa nei dintorni di Firenze. È sposato ed ha un figlio. Un giorno Robin, il figlio di Alfred incontra un ragazzo del luogo figlio di poveri contadini e si mette a giocare con lui. Alfred scopre che il ragazzo ha un talento innato per la musica e per la matematica, pur essendo analfabeta. Comincia ad educarlo all’ascolto e alla comprensione della musica, riuscendo ad insegnarli a suonare il pianoforte. Con grande meraviglia scopre che i ragazzo riesce a dimostrare semplicemente il teorema di Pitagora. Nasce fra di loro un rapporto padre-figlio che trova ostacolo nella figura della signora Bondi, ricca aristocratica padrona della villa. Attrice fallita e rimasta senza figli, trova in Guido la compensazione della maternità negata. Vorrebbe adottarlo e il padre di Guido non avrebbe nulla in contrario essendo molto povero e vedendo aprirsi un futuro diverso per il figlio. Fra la Bondi e Alfred nasce una specie di rivalità per conquistare la possibilità di allevare Guido. Un giorno Alfred si trova costretto a lasciare Firenze per la svizzera ,dove deve portare il figlio per cure. Ma una lettere di implorazione d’aiuto arriva da guido. Alfred si precipita a Firenze, ma è troppo tardi. Guido si è suicidato buttandosi dalla finestra di casa Bondi, distrutto dalla perfidia della signora. Ad Alfred non rimane che pentirsi della sua presunzione. Rimane a guardare Firenze. Forse può comprendere solo l’arte. Non certo i bisogni di un bambino.
Con Il piccolo Archimede Amelio comincia a delineare quello che sarà, cercando di sintetizzare al massimo il suo tema portante; il rapporto adulto-bambino. Non nel senso edificante e zuccheroso di molti film, ma in modo tragico e problematico. Adulti che rimangono bambini e bambini divenuti adulti troppo presto, costretti a fare da padri ai propri padri assenti.
Nel Piccolo Archimede, chi un certo senso viene educato è Alfred stesso. Non ancora uscito da una fase estetizzante della propria vita vede incarnato in Guido quell’ideale di perfezione artistica tanto presnte nel paesaggio e nell’arte toscana. Cerca di costruire un piccolo Leonardo da Vinci, con tutti i crismi e i luoghi comuni del caso. Guido deve essere prima che bambino, musicista, matematico, pittore. Una figura idealizzata, non reale. Lo scontro tra questi due elementi antitetici porta alla tragedia.
Figura oppositiva, ma in un certo senso speculare è la signora Bondi. Attrice fallita, quindi anche lei legata al mondo dell’arte, rivela dietro le pose dannunziane la tragedia di un matrimonio fallito e di una maternità mancata. Ella vive un profondo senso di frustrazione che riversa su Guido, sostituendosi alla madre mancante. Rappresenta l’elemento che viene a disturbare l’idillio fra Guido ed Alfred.
In una scena indimenticabile mentre Guido ed Alfred stanno ascoltando Egmont, appare dietro le spalle del bambino incedendo a passo di musica, come una parca del destino. La sua figura si staglia oscura e minacciosa, segnando la presenza di qualcosa di malato e terribile allo stesso tempo. Interpretata da una straordinaria Laura Betti, non si scorda facilmente.
Alfred come padre e la Bondi come madre collaborano seppur in antitesi alla distruzione di Guido. Sostituendosi ai veri genitori, non fanno altro che spingerlo ai suicidio. Non hanno mai voluto comprenderlo. Solo giocare come bambini
Alfred non è mai cresciuto tra i suoi sogni artistici e anche la signora Bondi non ha fatto altro che sognare un piccolo Mozart, altra versione di un gioco di bambole infantile, un pupazzo ad uso e consumo suoi.
Bambini non cresciuti che ricevono una lezione (purtroppo inutile)da un bambino adulto, che come in una favola crudele vola da una finestra per prendere un uccellino.
Ciascuno uccide ciò che ama , diceva, non a caso Oscar Wilde. Bambini prigionieri di adulti da cui è pura utopia fuggire. Come nel caso di Jean, protagonista de I Velieri.
Dolci sogni, tornate ancora.
Jean, un ragazzino di circa 13 anni vive in completo isolamento con la madre in un castello nei dintorni di Roma. Segue le lezioni impartite da insegnanti privati e non si allontana se non accompagnato dalla casa. I suoi sogni sono ossessionati dal ricordo del profilo di un veliero. Un giorno scopre un ritaglio di giornale dove si parla del suo rilascio da parte dei rapitori. Difatti era stato rapito quando era molto piccolo e di quel fatto ricordava la passione di uno dei rapitori per i modelli dei velieri. Deciso a conoscere la verità fino in fondo, fugge di casa e si reca al faro dove era stato segregato. Qui incontra un anziano pescatore che gli racconta che fu rilasciato solo grazie alla pietà dei sequestratori e non certo per il riscatto che il padre si rifiutava di pagare. Con questa terribile scoperta, viene riportato a casa dai carabinieri .
Come per Il piccolo Archimede ci troviamo di fronte ad un film per la televisione realizzato da Amelio per un ciclo di film tratti da racconti. L’autrice dell’omonimo racconto è Anna Banti. Amelio compie una trasformazione abbastanza consistente dei personaggi. Per esempio punta l’attenzione sulla nevrosi della madre, che molto probabilmente non ha ancora superato il trauma del rapimento del figlio. Le uniche figure di adulti che Jean incontra sono appunto quelle della madre e di una governante tedesca che continua a rimproverarlo. Un mondo chiuso claustrofobico , ossessivo che si scontra con la vivacità di un ragazzino dell’età di Jean. Un mondo fatto di mobili oppressivi, di stanze sempre chiuse dove la luce filtra poco, in una casa immersa in una paesaggio scabro. Una vera prigione.
Solo figure femminili, pochi amici che arrivano ogni tanto e l’assenza ( come vedremo significativa) del padre, sempre in giro per affari. La solitudine di Jean lo porta ad un desiderio di fuga e di evasione che viene simboleggiato dai velieri, legati al pensiero del mare e quindi della libertà.
La tentata fuga diventa quindi per Jean sia un momento di evasione, sia un modo di potersi dare delle risposte sul proprio passato. Il sogno di potere fuggire dal carcere in cui è rinchiuso. Ma l’incontro con il passato rappresentato dal vecchio marinaio, lo porta ad un ulteriore delusione. La figura paterna, già poco amata viene distrutta dalle rivelazioni del vecchio marinaio, che con molta franchezza dice al bambino di non credere alle favole raccontate dai genitori. Essi si sono disinteressati a lui nel momento del rapimento, pensando solo ai propri interessi. Si porrebbe parlare a questo punto di una specie di favola al contrario, che porta solo al finale la perdita e non il ritrovamento del strada su cui poter camminare. Favole crudeli, come sono sempre quelle di Amelio.
E’ importante come nel caso del Piccolo Archimede sottolineare la importanza della musica e della fotografia. Nel caso del film precedente la fotografia era molto luminosa e faceva risaltare la bellezza del paesaggio toscano. Ne i Velieri invece la fotografia fa risaltare il paesaggio autunnale specialmente nel finale con il mare in tempesta e la pioggia insistente.
Anche la colonna sonora riveste molta importanza; ad accompagnare la tragedia di Jean è Il lieder di Schubert Nact und traume, il cui testo sembra commentare la vicenda: Torna ancora dolce notte, dolci sogni tornate ancora.
La musica di Schubert porta lo spettatore in un’atmosfera ovattata, da sogno che la fotografia appunto collabora ad accrescere. Ma non si tratta certo di un bel sogno. Si tratta di un freddo incubo. La parte finale accentua ulteriormente il senso di freddezza, che arriva al suo massimo grado nel fermo immagine che chiude il film dove Jean pensa disperato al suo ritorno a casa, in “famiglia”.
Come nel caso del piccolo Archimede, la vera famiglia si trova dunque al di fuori di quella reale, magari in un amico che ti insegna a suonare il pianoforte o in un vecchio marinaio che fabbrica velieri in miniatura.
La fuga si rivela solo utopica, e la liberazione è l’illusione di un momento
Da più parti i Velieri è stato accusato di freddo accademismo. Amelio invece utilizza il registro esatto; come diceva Bresson , solo dalla freddezza può nascere il calore.
Dunque sia Jean che Guido rappresentano i prototipi dei personaggi ameliani che animeranno i film successivi del regista. La difficoltà di comunicazione tra padri e figli rimarrà sempre al centro dell’attenzione.
Dunque avremo figli che rifiutano padri troppo legati alla politica ( Colpire al cuore), che ricercano padri nei propri docenti ( I ragazzi di via Panisperna), carabinieri costretti a diventare padri ( Il ladro di bambini), fratelli-padri ( Così ridevano)
Mai padri veri e figli veri. Solo infanzie, nel significato originale, derivato dal latino, della parola; in-fans, chi non può parlare.
Mauro Madini