Regia: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino
Fotografia: Luca Bigazzi
Musiche: Pasquale Catalano
Montaggio: Giogiò Franchini
Cast: Toni Servillo, Olivia Magnani, Raffaele Pisu,
Adriano Giannini, Angela Goodwin

Recensione n.1

“Progetti per il futuro: non sottovalutare le conseguenze dell’amore”, annota Titta di Girolamo a caratteri cubitali sul proprio taccuino di appunti, sprofondato nella poltrona della hall dell’albergo svizzero in cui conduce una vita monotona e solitaria da ben otto anni. Uniche compagnie: l’immancabile sigaretta e l’innocente divertissement di osservare i passanti e gli altri ospiti dell’hotel, pur non riuscendo a fantasticare sulle loro esistenze a causa di una cronica mancanza di immaginazione. Qualche partita serale ad asso piglia tutto con un’anziana coppia, che si conclude immancabilmente con una ennesima sconfitta, interrompe temporaneamente la routine quotidiana. La riservatezza maniacale di Titta attira la curiosità non solo del direttore dell’albergo ma anche della dolce cameriera del bar che non riesce neppure, dopo due anni di tentativi andati a vuoto, a strappargli un saluto alla fine del turno giornaliero.
Ogni uomo ha un segreto, e Titta ne ha più d’uno: lavora per Cosa nostra, intrattiene i contatti con le banche svizzere in cui l’associazione mafiosa ricicla il denaro sporco, si buca una volta alla settimana (il mercoledì mattina alle ore 10.00 per la precisione) da ventiquattro anni senza considerarsi per questo un tossicomane, ha una moglie e tre figli a cui telefona regolarmente ma che gli parlano a fatica, ha un migliore amico che non incontra però da vent’anni. Titta è un uomo solo, incapsulato in un dolore sordo e cupo: la certezza di non essere mai stato amato da nessuno. Ed è questo il tema del film, sorretto da una solida sceneggiatura che non manca di colpi di scena e che tiene lo spettatore incollato allo schermo dall’inizio alla fine, grazie a una tensione nervosa frutto di un abile lavoro di sottrazione. Sottrazione di dettagli illuminanti ma soprattutto di emozioni.
L’algida fotografia sottolinea con puntualità l’estraneità del protagonista al mondo che lo circonda, raggelando lo sguardo su una Svizzera che si trasforma in un asettico ospedale. Il commento musicale accentua con efficacia la drammaticità di alcune scene anche se il film poggia tutto sulle larghe spalle del protagonista maschile, Toni Servillo, che esprime con uno sguardo il proprio mondo interiore, un mondo fatto di splendidi cristalli che non vedranno mai più la luce.

Mariella Minna

Recensione n.2

C’e’ una cosa che colpisce subito nell’opera seconda di Paolo Sorrentino (ma che era gia’ evidente nel felice debutto “L’uomo in piu'”) ed e’ il modo sinuoso attraverso cui il giovane regista muove la macchina da presa. E’ proprio l’eleganza, la precisione, l’efficacia, in una parola il dinamismo dei movimenti, che rende il lungometraggio un’esperienza coinvolgente e abbastanza atipica nel panorama italiano. All’ampio respiro della pellicola contribuiscono anche il montaggio fluido e mai scontato di Giogio’ Franchini e le felici scelte musicali, un insieme di fattori che immerge il film in un’atmosfera pregnante in cui gli interrogativi si moltiplicano, l’occhio gode e la tensione verso i personaggi e il loro destino cresce. Come spesso accade, pero’, la inevitabile resa dei conti interrompe la magia e finisce per banalizzare le premesse. La prima parte ha un impatto molto forte: si entra nella quotidianita’ di un uomo che sembra sprecare le sue giornate in una grigia routine di ore sempre uguali e sempre vuote. Non succede nulla, eppure ci arriva tutta la sua frustrazione, il dolore per una vita che ha il peso di una presenza e la rabbia per un errore che non ha vie d’uscita se non la rassegnazione. Sorrentino riesce a filmare l’assenza e a dare spessore agli sguardi e ai silenzi dei personaggi. Poi, quando si obbligano dialoghi e fatti a dare corpo alla suggestione, il film ha un cedimento, soprattutto a causa della sceneggiatura, che non riesce a mantenere credibilita’ e coerenza. Non mancano dettagli didascalici (la coppia di anziani, gli appunti sul bloc-notes) e qualche luogo comune nella descrizione del mondo mafioso, sempre un po’ folcloristico. Imperdonabile, poi, affidare per l’ennesima volta a un incidente la determinante svolta narrativa: un auto corre su un rettilineo, un innaffiatoio automatico bagna i campi e scansiona con il suo ticchettare ritmato la tensione della scena, fino all’inspiegabile uscita di strada. Ecco, anche a livello visivo, e non solo di discutibile stratagemma risolutivo, la sequenza ha l’appeal e la forza di uno spot pubblicitario. Ambiguita’ narrative a parte, il film ha un impatto potente, grazie anche allo spessore degli interpreti. Toni Servillo ha grande carisma e dispiace vederlo in un ruolo dove deve per forza contenere la sua contagiosa vitalita’; ma anche nella sottrazione, pur con l’enfasi di certi passaggi, non perde in espressivita’. Olivia Magnani, occhi che bucano lo schermo e presenza di rilievo, regge il confronto nonostante qualche rigidita’. Ma forse e’ il suo personaggio ad essere troppo letterario e in difficolta’ nel passaggio dal mondo immaginato sulla carta a quello in cui movimenti, parole e gesti perdono la consistenza sottile della pagina scritta.

Luca Baroncini (da www.spietati.it)

Recensione n.3

L’amore è sempre pericoloso.
Paolo Sorrentino, giovane regista partenopeo è qualcosa di atipico nel panorama cinematografico nazionale. Con la sua seconda fatica Le conseguenze dell’amore si allontana maggiormente dai cliché italiani e propone un opera di respiro internazionale (ambientata in Svizzera) con una coerente forza espressiva. I temi dell’amore, dell’amicizia, così come l’ambiente tipico mafioso sono rivoluzionati consapevolmente dallo stile del regista. Le precise scelte autoriali modellano una pellicola imperniata sul vuoto e sul silenzio. Lo straordinario Toni Servillo (il protagonista Titta Di Girolamo) si muove negli algidi spazi anonimi del set con uno sguardo contemplativo, misurato, intenso. Mai avevamo visto un film d’amore così anemico e privo di passione, controllato eppure stranamente coinvolgente ed emozionante. Sorrentino è un regista che nasce maturo. Il suo cinema agli antipodi dal trend minimale, familiare, borghese, sentimentale, del cinema italiano contemporaneo è avvicinabile in un qualche modo al cinema di Matteo Garrone. Produce opere coerenti e spiazzanti, affascinanti, imperfette ma sicuramente interessanti. Da non perdere.

Paolo Bronzetti

Approfondimento sul film, a cura di Andrea Fornasiero

Miracoli della distribuzione: mentre le sale ospitano numerose i film della Tamaro e di Piccioni nemmeno presi a Venezia (e chi c’era sa che un passaggio ad un italiano non si negava quasi a nessuno) Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino, unico film italiano selezionato a Cannes 2004, usciva in sordina su pochi schermi milanesi. Nemmeno una copia arriva in tutta la provincia di Pavia, costringendo il pubblico ad aspettare, come a preparare un’imboscata, che il film passi in una singola proiezione all’interno di una rassegna d’essai.
L’opera seconda di Sorrentino, anche sceneggiata come la precedente, segna un marcato distacco per stile e ritmo pur conservando certe comunanze poetiche di fondo. Ove L’Uomo in più narrava in parallelo di due loser omonimi, qui abbiamo un solo protagonista, un uomo rinchiuso, come incarcerato ma anche bardato nell’armatura del suo stesso immutabile destino. La sua tragedia, la sua pena da scontare, gli fornisce assoluta certezza e controllo sulla sua vita in una prigione dorata. Rigido e determinato a non fare nulla di inessenziale quest’uomo ha solo una frivolezza: il nome Titta.

Questa esistenza automatizzata, di un’umanità come prosciugata, è ingabbiata in una routine in loop di gesti sempre uguali. Non ci sono però la pacificazione e la calma di un rituale ripetuto, c’è piuttosto un’alienazione crescente ben evidente nell’insonnia che accusa il personaggio. Unica nota di vita, rigorosamente pianificata e artificiale, è la pera di eroina che da 24 anni Titta si fa in vena ogni mercoledì mattina, e solo il mercoledì mattina che lui “non è un tossico ma nemmeno è estraneo all’esperienza della droga” – frase per altro sintomatica di ogni tossicodipendenza che si rispetti. Ogni anno poi Titta si permette il lavaggio del proprio sangue, una sorta di costosa dialisi, come dovesse cambiarsi l’olio, a ribadire la sua robotizzazione.
Utile strumento di controllo, diario di bordo di un viaggio assolutamente immobile, è il bloc notes su cui egli annota avvertimenti a sé stesso come: “attento a non sottovalutare le conseguenze dell’amore”.
Titta ha avuto una famiglia, una moglie e tre figli, ma con questi ha un contatto solo telefonico ed una assoluta deficienza comunicativa. Ha anche un fratello che giunge inaspettato a trovarlo, prima di reinventarsi come istruttore di surf su di un mare assolato. Nemmeno questa visita inattesa risveglia in Titta una scintilla di desiderio, o almeno non direttamente. E’ solo quando il fratello nomina Nitto Lo Riccio, il migliore amico non più incontrato né sentito da vent’anni, che si accende all’improvviso qualcosa nel suo sguardo.
E’ il suono di questo nome, gettato in un mare di oggetti e persone neutre e insignificanti, ad aprire la prima crepa nella vita di Titta, ben più in realtà dell’innamoramento per la bella barista, del resto osservata da lontano e maltrattata per oltre due anni. La vita dell’amico è cambiata in questo ventennio, ora Nitto ripara i cavi dei tralicci dell’alta tensione in montagna, quando i forti temporali fanno saltare le linee elettriche. Un lavoro solitario, di merda secondo il fratello, comunque un lavoro che Titta ignorava. Nonostante la sua insistenza nel dire che nemmeno venti anni di silenzio significano qualcosa di fronte alla loro amicizia, la vita di Titta inizia qui ad incresparsi.
Altri sassi nello stagno saranno la visita, di nuovo inattesa, di due killer della mafia e la relazione con la barista. Titta uscirà infine dal suo letargo e cercherà di riprendere il controllo della sua vita. Il risveglio porta con sé il desiderio, l’orgoglio, ma anche la rabbia, la cattiveria e persino la colpa.

Tutto il controllo che aveva esercitato finora su sé stesso non era però per nulla, spezzate le sue catene il destino di Titta diviene ineluttabile, come una retta a cui solo piccole marginali deviazioni sono concesse. Sono proprio queste però a ridare anima, poesia e senso ad una vita fino ad allora completamente svuotata.
Poco importa allora se l’amico davvero, come in una fiaba, sa consolare la sua malinconia con ricordi di vecchi di vent’anni e la fiducia in un sentimento immutabile, o se forse, ironicamente, solo un po’ di cemento ora li divide. Ci resta un senso di giustizia, un’umanità ritrovata in un mondo di uomini alienati, bestie feroci e sconfitti patetici che però, come ne L’Uomo in più, finiscono per sembrarci quelli davvero vivi.
Tutto questo poi è narrato con uno stile curatissimo, geometrico nonostante una camera in quasi perenne movimento, anche più che nell’opera prima. Toni Servillo regala un’interpretazione eccezionale, purtroppo tanto è bravo lui quanto la voce dell’altrimenti pur brava Olivia Magnani ha difficoltà a farsi ascoltare. E’ infatti la relazione tra i due il segmento che meno convince del film.
Il montaggio della seconda parte, quella più noir, criticata da più parti, non è solo un gioco di ritmi narrativi per tenere desta l’attenzione dello spettatore. Infatti anche se non sappiamo fino alla fine cosa abbia fatto davvero Titta con i soldi, ciò è irrilevante, la sua condanna sarebbe la stessa e questo è il senso dell’incrociarsi dei piani temporali. Il finale poi riesce a far tornare tutto, persino le gru viste dalla finestra dell’hotel svizzero al tramonto.
Sorrentino dimostra di sapersi destreggiare tra i pericoli della produzione Fandango (le cui ultime produzioni soffrono di una confezione vacuamente trendy, spesso dannosa alle storie narrate) e con Le conseguenze dell’amore ci dà uno dei film italiani più originali, inattesi e soprattuto belli degli ultimi anni.

Andrea Fornasiero