Regia: Guido Chiesa
Sceneggiatura: Guido Chiesa, Wu Ming
Interpreti: Tommaso Ramenghi, Marco Luisi, Claudia Pandolfi, Valerio Mastandrea, Valerio Binasco
Durata: 111 min. (colore) Paese: Italia Anno:2004 Genere: Drammatico
Recensione n.1
A meta’ degli anni Settanta nacque a Bologna Radio Alice, un innovativo strumento di comunicazione creato per “dare voce a chi non ha voce”, ideato per offrire alle gente comune la possibilita’ di esprimersi al di la’ degli insufficienti spazi istituzionali. Il film di Guido Chiesa, scritto dal regista insieme al collettivo letterario Wu Ming, ne ripercorre gli eventi salienti intrecciando diverse micro-storie. La carne al fuoco e’ tanta: la contestazione del profitto come fondamento dell’attivita’ lavorativa, della vita vissuta come costante sacrificio collettivo in nome di un bene comune che non da’ mai i suoi frutti, la liberazione sessuale, la lenta presa di coscienza dell’individuo, fino ai sanguinosi eventi che hanno portato all’uccisione dello studente universitario Francesco Lorusso. Anche il materiale umano e’ quanto mai variegato: le famiglie ancorate al passato, i giovani ribelli, quelli che non sanno bene cosa fare ma si sentono insoddisfatti (i due protagonisti, che hanno la chiara funzione di accompagnare i dubbi dello spettatore), le forze dell’ordine, il figlio di papa’ imbottito di slogan, i vecchi da bar, l’avvocatessa simpatizzante con il movimento, i minorenni che preferiscono la galera al vuoto, le femministe agguerrite. Non tutto e’ equilibrato, alcuni quadretti hanno le ingenuita’ del bozzetto, certi sviluppi cadono nel didascalico, qualche personaggio sfora nella macchietta (su tutti il Carabiniere simpatico e un po’ grullo che non fa nulla durante il giorno se non ascoltare Radio Alice e ammiccare allo spettatore), ma dalle immagini trasuda un’inaspettata vitalita’, che ben si abbina a un digitale sgranato ma non sciatto e a scelte originali, come gli intermezzi stile cinema muto, gli split-screen, le didascalie, gli eccessi quasi fumettistici. Grazie al cielo, inoltre, non e’ la nostalgia il mentore espressivo del regista, che guarda al fermento del periodo anche con occhio critico, senza facili e inutili intenti celebrativi. Quello che manca e’ forse un po’ di approfondimento, ma di stimoli il film ne da’ parecchi. Attori in parte, anche se a volte eccessivamente a briglia sciolta.
Luca Baroncini (da www.spietati.it)
Recensione n.2
Affresco generazionale in miniatura, “Lavorare con lentezza – Radioalice 100.6 MHz”” è la rappresentazione del cambiamento, o meglio il tentativo di rappresentare ciò che si voleva cambiare negli anni ’70: la politica, le regole sociali, il lavoro come sacrificio, la mentalità di una generazione. Ma è anche il film dell’autoaffermazione, dell’idea marxista dell’ozio esistenziale, della volontà di riappropriarsi del tempo.
Chiave del lungometraggio è il lavorare lentissimamente (in netta contraddizione con i dettami comuni) che simboleggia il passaggio da una vita decisa dal lavoro in fabbrica, destinata ai tanti giovani di periferia, a una nuova visione del mondo scardinata dalle regole e dai doveri che insegue ideali di libertà, leggerezza e lentezza.
Siamo nella Bologna del 1976. Sgualo e Pelo, i due protagonisti, figli del proletariato inconsapevole e disimpegnato di quegli anni, decidono di compiere per un ricettatore del posto un colpo in grande stile, una rapina alla Cassa di Risparmio, scavando un tunnel sotto piazza Minghetti. Lo fanno per soldi ma soprattutto per stravolgere le regole di una vita a cui non vogliono sottomettersi più, rifiutando l’idea del sacrificio collettivo che per i loro padri pareva essere l’unica verità. Lì sotto, nel buio dei sotterranei, scoprono Radio Alice, unica emittente in grado di essere ascoltata in versione underground. E’ con essa che i due vengono a contatto con l’anticonformismo e la politica. Ed è lì, in via del Pratello, nella sede della radio libera, senza schemi che “dà voce a chi non ha voce”, che conoscono le prime incoerenze di un mondo tanto affascinante. Alice è la radio mao-dadaista del movimento studentesco, della comunicazione orizzontale, delle provocazioni culturali, della libertà sessuale, dell’ironia e della creatività ideate da un gruppo sempre più nutrito di intellettuali e studenti impegnati per cambiare il mondo. Rivoluzionari che spesso e volentieri però si rivelano personaggi deboli e infarciti di slogan velleitari cui poco appartengono veramente.
E’ un film, quello di Guido Chiesa in collaborazione con il collettivo Wu Ming (nome utilizzato dai dissidenti cinesi per comunicare nel loro Paese), che inneggia alla rivoluzione, ma resta volutamente prigioniero di un pensiero utopico, fitto di contraddizioni. Dalla concezione dell’amore libero, che gli stessi promotori non riescono a vivere fino in fondo quando ne vengono coinvolti in prima persona, al rifiuto del potere decisionale come prerogativa di pochi, che però subisce i primi smacchi quando si cerca di dare una linea di condotta all’emittente (esemplare in questo caso il rifiuto di trasmettere canzoni commerciali).
Dalla contrapposizione tra i sovversivi e la polizia, tipicizzata da un frustrato carabiniere (Valerio Mastrandrea) si arriva allo scontro di piazza in cui, la storia narra nei drammatici fatti del marzo ‘77, morì Francesco Lorusso, militante di Lotta Continua, per mano delle forze armate. Finisce così anche la vita di Radio Alice che viene chiusa in diretta. La pellicola è un’esperienza corale che però impedisce allo spettatore di innamorarsi di uno solo dei seppur intensi personaggi. Nessuno di loro ti entra nell’anima e ti obbliga ad affezionarti alla sua storia. Ognuno è però funzionale nel portare a compimento una storia che ha senso in quanto scorcio di vita collettivo e non individuale. L’individualità non è elemento essenziale di quegli anni di conflitto e turbamento sociale. Lo è invece la musica nella quale confluiscono tensioni ed emozioni. L’urlo rabbioso del punk anni ’70 di Patti Smith, l’interpretazione di “Gioia e Rivoluzione” degli Area da parte dei contemporanei Afterhours, persino l’ironia di Rino Gaetano contro la borghesia italiana. Intuizioni intelligenti allo stesso modo dei siparietti presi in prestito dal cinema muto, indispensabili nel sdrammatizzare una riproduzione che non vuol essere drammatica e se lo diventa è soltanto per rispetto alla storia e ai suoi tragici risvolti, non certamente con intenzione.
Giorgia Zamboni
Recensione n.3
Tentazioni apologiste a parte, Guido Chiesa non sfugge ancora una volta all’indole documentarista ce già strutturava Il partigiano Johnny, Lavorare con lentezza si ispira ad un motivetto di fine anni ’70, e di quell’epoca caotica e volutamente sgranata si accompagnano le vitalità sotterranee e la bellezza iconoclasta con uno stile visivo lontano sia dall’estremismo decurtante e fumettistico di Paz sia dalla pura atmosfera di Radiofreccia. Eppure il tema sembra essere quello: il ’77 e i suoi singulti rapidissimi e disperati, meno gioiosi e più cupi di ogni elegia sessantottina. La cupezza che ritroviamo nei primissimi piani e in bizzarre angolature sgranate dal colore bluastro, annacquato nei tratti comuni e mobilissimii due ragazzi sempre in coppia, Squalo e Pelo(i due esordienti Ramenghi e Luisi)macchiettistici e veri nella loro desolata lontananza dal fermento universitario bolognese, e soprattutto dalla lucida e scanzonata follia frammentaria dei primi deejay indipendenti della leggendaria radio Alice, spauracchio clownesco e roboante dell’imbranato poliziotto costretto ad ascoltarla dalla sua caserma, alla ricerca di messaggi sovversivi sempre fraintesi. I due giovani di periferia si tuffano in quella giocosità senza impegno apparente, emergendo dal sotterraneo notturno di un lavoro “sporco”, che potrebbe essere o non essere l’ultimo tentativo di redimersi dalle angustie familiari e di quartiere. Lavorano in condizioni fumiganti e animalesche, ma lo fanno con calma e costanza, per un omuncolo della malavita locale deciso a far scavare un tunnel sottoterra per organizzare una rapina in banca. E l’unica frequenza a collegarli con il soprasuolo è proprio quella della rivoluzionaria radio alice, la cui nascita viene assemblata in un curioso filmato muto e iperaccellerato all’inizio del film, presagio con le sue didascalie cubitali e le movenze pazzoidi di quella collettività lancinante e ridanciana, unica arma contro l’intimismo barcollante della persona singola. Storie di piccole mafie, ingiustizie e scioperi, rabbie personali e amplessi affiancati dall’epico montate e sovrapposte secondo la potenza che attraversa i livelli percettivi del suono, in particolare di quel pezzo di storia musicale percussiva e straniante che sono ancora oggi gli anni ’70, con sequenze che rimandano ai sapori psichedelici dei vari Parco Lambro e di molteplici sperimentazioni audiovisive, mentre va avanti la trama poliziesca tramite la disseminazione di parti assegnate a volti noti (Claudia Pandolfi, Valerio Mastandrea ad amministrare la giustizia da parti opposte e concorrenti, ma si ha l’impressione di una coralità omogenea anche nelle sequenze più rigorosamente narrative). Dopo l’ubriachezza reattiva delle voci di Patty Smith e Zappa, il canto della sirena notturna descritta da Tim Buckley e una Casta Diva a dipingere lo scoramento di una morte giovane ecco gli ultimi ronzii radiofonici, l’annuncio in diretta della “chiusura” di una radio che preannuncia la chiusura ermetica di un’era dai colori stinti e dalla voce assottigliata.
Chiara f shadgie