Recensione n.1
ESSERE O NON ESSERE SUPER-EROE, E’ QUESTO IL DILEMMA.
Sono super-eroi, svolazzano tra i grattacieli, sono cool e volteggiano nell’aria come foglie al vento, la natura o il caso li ha donati di poteri speciali che dovranno usare per combattere il male e difendere la giustizia. Ma dietro la maschera non sono altro che essere umani, proprio come noi. Così dietro Batman si nasconde Bruce Wayne, dietro Superman Clark Kent, e dietro Spider-man Peter Parker, un semplice fotografo che riesce a garantirsi il posto perché scatta foto a sé stesso in costume, ma anche uno studentello che rischia la bocciatura, un portatore di pizze che viene liquidato, un ragazzino che rischia di perdere la ragazza che ama per sempre. Sam Raimi mette al centro dell’attenzione il conflitto interiore del protagonista, spogliandolo del suo costume da super-eroe per mostrare la sua vulnerabilità e le sue debolezze tutte umane, a cominciare dai suoi rapporti interpersonali. Per una
visione fluida del film è strettamente consigliato (ri)vedersi il primo episodio, perché Raimi si collega ad esso, a cominciare dal cattivo precendente che spidey ha ucciso, il professor Osborn, che non è nessuno tranne il padre del migliore amico di Peter Parker. Come già aveva fatto Tim Burton con Batman Il ritorno, Raimi gioca col tema del doppio. Batman e Catwoman erano nemici, ma dietro le maschere erano inconsapevolmente amanti, così Peter Parker è il miglior amico di Harry Osborn, ma Harry vuole uccidere Spider-man per vendicare il padre, senza rendersi conto che la tanta ambita preda non è altro che Peter, il suo migliore amico. Ma probabilmente il regista svilupperà meglio questo intreccio del doppio nel sequel, in quanto qui preferisce concentrarsi meglio su un altro rapporto, quello tra il protagonista e Mary Jane, la ragazza che ama. Può un super-eroe amare e lasciarsi amare da una ragazza, coinvolgendola nel giro e rendendola bersaglia dei nemici? E’ questo il dubbio di Peter, ed è anche uno dei motivi per cui decide di togliersi definitivamente la maschera e buttarla nel cestino della spazzatura, per vivere una vita normale, lontana dai guai. Tutti, fin da piccoli, sognamo di possedere super-poteri, e allora perché questo Peter Parker vuole rinunciarci? E’ forse scemo? No, perché nella vita ci sono cose ben più importanti di avere le ragnatele che ti escono dalle vene per arrampicarti sul muro e volare tra i grattacieli, come la famiglia, l’amicizia, e soprattutto l’amore, quell’amore per cui saresti disposto a dare la tua vita, proprio come recita la canzone Someone to die for (Spider-man 2 original soundtrack).
Ma come accade nelle scene finali del film, l’uomo deve anche trovare la propria strada, e per scelte di questo tipo bisogna sempre sacrificare e rischiare qualcosa, ma Peter questo rischio è pronto a correrlo, perché in palio c’è la persona che ama. Non saremo un pò tutti pronti a correre questo rischio quando in palio c’è il cuore della nostra amata? Penso proprio di si.
Pierre Hombrebueno
Recensione n.2
Ecco un esempio di sequel migliore del capitolo precedente. Non è una novità ultimamente, basti pensare a X-men 2, Batman- return, l’intera saga di Alien e via dicendo. A conferma che l’approfondimento autorale comincia a prendere campo. Spider man 2 non è un capolavoro, ma è assolutamente l’incarnazione in pellicola del significato di cinema oggi. È un bellissimo apologo sul presente, sia politico, quello di una nazione (gli Stati Uniti) e di una città (new York) in perenne allarme terroristico post 11 Settembre, sia sociale, con una popolazione che necessita impellentemente di un eroe. È un apologo sulla vita di oggi, con le sue difficoltà economiche, basate su attriti di classe in cui i ricchi sono sempre più ricchi, e i poveri sempre più poveri (la dicotomia classista in cui da una parte c’è Parker che fatica a mantenersi e sua nonna che è costretta a cambiare casa, dall’altra M.J. che sfonda nello spettacolo e l’amico figlio di Goblin che mira al profitto massimo). È uno splendido esempio di meta-cinema, con citazioni e rimandi all’Uomo ragno cartone/fumetto (la donna che canta la sigla di Spiderman , Parker che chiede che fine hanno fatto i suoi fumetti, finiti nella spazzatura) ma anche al cinema caro a Raimi, che si concede il lusso di ricordare da dove viene (La casa) con la terrificante sequenza in cui Octopus si sveglia in ospedale (con debiti anche a Psycho).
Gli effetti speciali sono strabilianti, Maguire è perfetto come incapace e goffo (poco)supereroe, Molina è assolutamente terribile, ben più del Defoe/Goblin precedente, Dunst era meglio in Intervista col vampiro. La scena in cui Parker, in metropolitana, viene sollevato dalla gente a cui ha appena salvato la vita, che esclama subito dopo “Ma è solo un ragazzo!”, diventa simbolo del significato del film, in cui si cerca di dimostrare l’assoluta normalità degli eroi, alle prese con i problemi di tutti i giorni. Come aveva già fatto con suprema leggerezza e sospensione Shyamalan in Unbreakable.
Andrea Fontana
Recensione n.3
Già i titoli di testa, sui notevoli disegni di Alex Ross, caratterizzati dal consueto fotorealismo dell’artista, riassumono il film precedente immergendoci nell’atmosfera del fumetto.
Sam Raimi, senza il peso di dover narrare di nuovo le origini dei poteri del protagonista, è libero di affrontare l’inizio della maturità di Peter Parker. La vita del nostro eroe va a rotoli: non riesce a tenere il passo degli studi, perde i lavori saltuari che trova, stenta a pagarsi l’affitto. Inoltre si è allontanato da Mary Jane per non metterla a rischio, sua zia May ha problemi economici conseguenti alla morte dello zio Ben, il suo migliore amico odia l’Uomo Ragno e inizia a non fidarsi più nemmeno di Peter perchè in quanto fotografo di Spider Man gliene nasconde l’identità. In questo intreccio si aggiungono nuovi personaggi come il figlio di J.J. Jameson e il Dottor Curt Connors, ma soprattutto il dottor Otto Octavius, destinato a divenire il Dottor Octopus. Come per Goblin siamo di nuovo di fronte ad una potenziale figura paterna per Parker trasformatasi in un mostro, nemico mortale dell’uomo ragno. Il parallelo non finisce qui perchè Octopus non è così diverso da Goblin nella sua schizofrenia: dove Goblin parlava col suo riflesso e sentiva una voce malvagia, Octopus è traviato dall’intelligenza artificiale delle sue braccia meccaniche.
Proprio il rapporto tra il villain e le sue braccia è il punto più alto del film, senza essere appesantito dalle parole. Gli atteggiamenti sinuosi e protettivi del braccia, quasi come un abbraccio sensuale, sempre però pronte ad uno scatto aggressivo e micidiale, circuiscono il dottore come una femme fatale portandolo alla follia.
Sam Raimi non si appiattisce alla logica del prodotto su commissione e mantiene, anche più che nel primo film (forse gigioneggiando anche un po’ troppo), un suo stile riconoscibile. Ad esempio durante l’operazione del dottor octopus le braccia si animano e sterminano l’equipe operatoria come le fronde degli alberi assassini de La Casa. Qui però senza una goccia di sangue. Il film in effetti è per tutte le età e quindi Raimi non può andare oltre il primo piano di qualche donna che urla (il che accade con una certa frequenza, quasi a punteggiare il film). Divertente poi il cameo di Bruce Campbell protagonista della trilogia de La Casa che qui interpreta una insopportabile maschera di teatro.
Notevole anche una sequenza accompagnata da Raindrops keep fallin’ on my head di Burt Bacharach, ove Parker riprende a comportarsi da vero nerd e gli capitano ogni tipo di incidenti. In generale però le parti che si vorrebbero divertenti non strappano più di un sorriso. Allo stesso modo alcune sequenze con toni melodrammatici riescono ad essere efficaci, ma la maggior parte stenta a decollare. Qui la difficoltà è per lo più dovuta alla recitazione, ma anche ai dialoghi spesso didascalici. Del resto pare improbabile che Raimi volesse andare fino in fondo all’aspetto più tragico della vita di Parker, ma l’effetto è che si finisce per essere più dalle parti di Smallville o di Dawson Creek che non da quelle del ben più coraggioso Hulk di Ang Lee.
Ancora più che nel primo episodio i combattimenti e le evoluzioni aeree dell’uomo ragno sono uno spettacolo per gli occhi, e non mancano di inventiva negli scenari, tra un treno in corsa in metropolitana e una battaglia su di una parete verticale. Il terzo episodio comunque è già annunciato dal finale di questo Spider-Man 2. Come per altre produzioni simili, ad esempio X-Men (di cui sono in lavorazione contemporaneamente i capitoli 3 e 4), la qualità andrà misurata anche sulla lunga distanza.
Fa piacere comunque vedere come l’Uomo Ragno continui a non essere costretto ad agire da un’idea di vendetta, come molti altri eroi dello schermo, o da una grande male da arrestare a tutti i costi né da una cospirazione che lo costringe ad agire. E’ soprattutto il suo senso di responsabilità a farne un eroe, il bisogno non tanto di fermare i criminali, quanto quello di salvare la gente.
Andrea Fornasiero
Recensione n.4
Curioso questo film.
Perche’ se da un lato si vede che si e’ dimostrata maggior attenzione ai dettagli, evitando lo schema tipico del mero ricalco da sequel, dall’altra parte ha il demerito di aver appesantito eccessivamente tutta la messa in scena, allungando pomposita’ nelle scene madri e tediando con retorica a tutto spiano, anche dove non serviva. Dal lato psicologico, nulla da segnalare, i personaggi sono piuttosto ben caratterizzati, a partire da un convincentissimo Doc Ock (Alfred Molina), schiavo del suo rabbioso e amareggiato alter ego, a Spiderman/Peter Parker che inizia a soffrire crisi d’identita chiedendosi se l’importanza di essere supereroe possa coesistere con l’importanza di avere un’adolescenza normale. Con qualche forzatura di troppo nelle parti sentimentali, Raimi dimostra di saper lavorare decisamente meglio con le scene d’azione, arrivando ad auto-omaggiarsi nella scena della camera operatoria, giocando con disinvoltura con la macchina da presa, nelle scene di massa e in quelle con gli effetti speciali (ben lontani dalla perfezione, ma comunque migliori del primo e ricordiamo che in parte e’ una scelta “voluta”). Difficilmente un altro regista avrebbe potuto far di meglio in questo film, seppur non perfetto, ma con diversi tocchi di intelligenza e di inventiva. Vedremo se sara’ in grado di regalarcene anche nel prossimo Spiderman. Voto: 7
The Wolf
Recensione n.5
Un film migliore del primo. E’ sempre questa la sfida che di volta in volta si trovano ad affrontare i registi di sequel, e molto raramente è una sfida che riescono a vincere. Sam Raimi entra di diritto tra questi pochi autori, confezionando un seguito assolutamente e totalmente superiore al precedente. Una storia complessa e consistente, densa di avvenimenti e risvolti psicologici, dove non mancano né le scene d’azione che tanto piacciono agli appassionati, né le sequenze drammatiche e introspettive che tanto piacciono a chi pretende qualcosa in più di un mero film d’azione. Raccontata nel primo episodio la genesi del personaggio, adesso Sam Raimi si addentra con passione e divertimento nello sviluppo della storia, concentrandosi sui rapporti interpersonali e sulla psicologia del nostro piccolo eroe. Perché Spiderman è sì un supereroe, ma è soprattutto un ragazzo pieno di conflitti e dubbi, che in questo episodio deve fronteggiare definitivamente il dilemma (degno di Shakespeare) della sua vita: accettare il suo destino o tornare ad essere solamente il maldestro Peter Parker? “Da grandi poteri derivano grandi responsabilità”, e Peter adesso più che mai desidererebbe solo essere un ragazzo normale con i suoi problemi “normali”, per vivere finalmente alla luce del sole l’amore che prova per la sua Mary Jane, regolarmente contrastato se continuasse ad essere l’eroe di New York City. Ma nessuno può sfuggire al proprio destino, soprattutto se ad un certo punto salvare il mondo non equivalesse a salvare il proprio amore: è proprio per la sua amata che Peter decide di rinunciare ai propri sogni e vivere la vita per la quale è designato.
Un film d’amore, è questo Spiderman: il rapporto tra Peter e Mary Jane diventa infatti il fattore cardine dell’intera storia, sviscerato nei suoi elementi conflittuali senza troppo sentimentalismo, e narrato così sinceramente e onestamente da rendere impossibile allo spettatore non affezionarsi a questa storia d’amore così complicata ma allo stesso tempo così semplice. Ma non solo: trovano ampio spazio anche le famigerate scene d’azione, alcune davvero ottime, anch’esse superiori all’episodio precedente per tensione, ritmo, costruzione narrativa e scenica, tempo dell’azione e coinvolgimento emotivo dei personaggi.
Il primo Spiderman ci appare adesso solo come una bozza, è il sequel il vero film della serie: completo, pieno di humour e di suspence, ben scritto e ben recitato (Tobey Maguire risulta ancora una volta la miglior scelta possibile per il suo sguardo da eterno ragazzino immerso in qualcosa più grande di lui) arricchito da elementi introspettivi rari in questo tipo di cinema ed eccezionalmente equilibrato in tutti i suoi elementi drammatici, comici e sentimentali. Sam Raimi non si prende troppo sul serio, ed è questo il punto di forza del film: si ride spesso del supereroe e del suo alter-ego, facendo di Spiderman un perfetto film d’intrattenimento narrato con intelligenza e cuore. VOTO: 7 ½
Claudia Scopino
BLACK MAMBA E SPIDERMAN
Il super-eroe nella poetica di Tarantino e Raimi
Due recenti successi del cinema d’oltreoceano, entrambi curiosamente giunti al secondo capitolo, impongono una meditata riflessione sulle capacità di un cinema dichiaratamente spettacolare, fracassone e d’intrattenimento, di sviluppare al là dei suoi aspetti maggiormente “di cassetta”, riflessioni di non poco conto sulla globalizzazione feroce ed inumana delle società occidentali. E’ curioso come due autori quali Quentin Tarantino e Sam Raimi, entrambi provenienti dai “generi”, con le loro ultime due creature abbiano mostrato di avere idee comuni su quello che accade intorno a noi, entrambi utilizzando quale cardine della loro riflessione la figura del supereroe.
Tarantino e “l’anima della finzione”
In Kill Bill la netta bipartizione in due volumi è il supporto formale per una riflessione di straordinaria lucidità. Come già posto in luce da numerosi commenti, la prima parte dell’opera è popolata di personaggi sublimemente stilizzati, Black Mamba e le altre Vipere rientrano nella categoria degli eroi da fumetto, vivono imprese totalmente irreali ed impossibili da realizzare per l’uomo comune, e non sono animate da sentimenti o da nobili ideali. Il tema della vendetta viene sì introdotto, ma solamente per brevi accenni e l’ondata di violenza scatenata dalla Sposa non è giustificabile se non in un’ottica appunto fumettistica, ricorda una vendetta “alla Schwarzy” – si pensi a Commando dove l’attore austriaco uccide centinaia di nemici da solo proprio in quanto la vendetta è una scusa e lui non è un essere umano, bensì un supereroe. Il nome vero della Sposa, Beatrix, è coperto da un bip per tutto il primo e parte del secondo Volume, nel quale avviene il processo di trasformazione di Uma Thurman da Black Mamba, il suo lato iperrealista, la spietata, fredda e calcolatrice macchina di morte addestrata da Tai Pei a divenire un robot, in un essere umano capace di soffrire, commuoversi, e dunque di avere diritto ad un nome “vero”, appunto Beatrice. Il secondo Volume restituisce dignità di donna alla Sposa, ci mostra in apertura il terribile torto subito ed in qualche modo giustifica la sua furia assassina nell’ultima sequenza, dove dopo il ricongiungimento con la figlia Beatrix si nasconde in bagno a piangere, un pianto disperato e gioioso, per le terribili violenze commesse ma con la consapevolezza di avere comunque la ragione dalla propria parte, quella di una madre privata della vita, la propria e quella della sua bambina, e che era riuscita a riconquistare. Del resto, come dice Michael Madsen nel film, “quella donna merita la sua vendetta, e noi meritiamo di morire”.
Questa bipartizione si appalesa manifestamente nella divisione in due parti del film, e rende esplicito il processo di trasformazione dall’uno all’altro stato della sposa, non essendo altro, questa, che la trasformazione dell’idea cinematografica di Tarantino, una metafora della sua stessa opera che viene qui, direi quasi freddamente, teorizzata, all’interno della dicotomia Vol. 1 – Vol. 2.
Tarantino costriusce storia e personaggi, nei primi due film della carriera (Le iene e Pulp Fiction), partendo da un immaginario fiammeggiante e ben identificabile che non è quello reale, non avendo egli vissuto sulla sua pelle la violenza del ghetto (come uno Spike Lee), la miseria (si pensi a Kiarostami), la guerra (Gitai) e via discorrendo, bensì avendo lavorato in un videonoleggio nutrendosi di vendicatori, poliziotti corrotti o giustizieri, ladri gentiluomini, esseri dai poteri paranormali. Nessuna verosimiglianza è ammessa nel suo immaginario, nessuna causa nobile o ideale da sostenere, solo una passerella di caratterizzazioni tipiche, di movenze riconoscibili, di dialoghi ad effetto che mai nella vita reale qualcuno potrebbe ascoltare. Queste considerazioni non sono nuove, e del resto la definizione di regista-cinefilo è significativa, come lo è in altrettanta maniera l’amore smodato per le sue opere proprio da parte di coloro i quali con quell’immaginario “global” (nel senso di estraneo alle frontiere, censure permettendo) sono cresciuti. Ma la chiusura in un universo solamente immaginato può essere un difetto dell’artista che si disinteressa della realtà cogente della quale, essendo artista, dovrebbe essere in qualche modo interprete. Ebbene Jackie Brown ed il Vol. 2 di Kill Bill ci dicono che non è così, che la precedente filmografia di Tarantino era una premessa, fondamentale per comprenderne la poetica, del suo tentativo di portare alla realizzazione quella che io definisco “l’anima della finzione”. Gli eroi del regista americano nascono dai fumetti, dai telefilm, dai kung-fu e dai b-movies, vengono sottoposti ad un procedimento di umanizzazione e ci vengono restituiti spogliati del loro mantello da superuomini, delle loro vestigia guerresche, della loro stessa invulnerabilità; la finzione che li ha originati non può pretendere di preservarli a vita, e dopo essersi abituati a vivere nel “nostro” mondo non possono fare altro che scendere a compromessi con esso, accettarne la sua umana imperfezione con tutto il bagaglio di gioie e dolori che si porta in grembo. Esemplare è l’aneddoto narrato da Bill-David Carradine alla fine del film: parlando di Superman sostiene come, a differenza dei suoi “colleghi” egli è nato supereroe e si è dovuto inventare Clark Kent per sopravvivere sulla Terra, rappresentando quest’ultimo una sua personale critica alle debolezze degli esseri umani. Allo stesso modo, continua Bill, Black Mamba sposandosi avrebbe voluto svanire in Beatrix, divenendo, da essere perfetto che era, un essere debole ed insoddisfatto, cioè a dire umano. Eppure alla resa dei conti Bill soccomberà e Tarantino si schiererà dalla parte di Black Mamba e della sua trasformazione in Madre. Questo schierarsi dell’autore per l’eroe dal volto umano è il supremo messaggio della sua poetica, una sorta di rivendicazione di quello che filosoficamente viene chiamato “umanesimo”; gli esseri perfetti non esistono se non nella finzione (fumetti, cinema, letteratura, cartoni animati) ma nella vita quotidiana anche loro dovranno scontare un bagaglio di sofferenze, di sconfitte, e dovranno sudare per ottenere quello che cercano, ma solo passando attraverso questo processo potranno forse, un giorno, ottenerlo. La sublime lucidità con la quale viene realizzato questo processo, come detto attraverso la significativa bipartizione di Kill Bill, mostra l’approccio teorico della poetica tarantiniana, una poetica come non mai in evoluzione. Il processo di trasformazione e di definizione dei propri personaggi e dunque del proprio cinema è in piena fase di trasformazione, riposa in un territorio ambiguo che esplicita come il percorso artistico di Tarantino sia quanto mai incerto, e non sappiamo se alla fine Black Mamba sarà definitivamente soppiantata da Beartix e Tarantino girerà in futuro drammoni strappalacrime, oppure se cavalcherà l’onda di questa ambiguità proprio per rendere le sue riflessioni sfumate ed enigmatiche. Il cinema di Tarantino convive con la propria epoca, un’epoca di incertezze, dove l’uomo viene piano piano divorato dal lucido e spietato meccanismo della competitività e privato della propria individualità, sempre più spinto ad una dimensione di automa. Riuscirà l’uomo occidentale a recuperare la propria dimensione umana? In una parola, vincerà il primo od il secondo Volume?
Raimi leva la maschera all’Uomo Ragno
In Spider-man la riflessione sul super-eroe si amplia sino ad acquisire un ruolo di centralità all’interno della saga. Lo stile di regia utilizzato da Raimi nel primo dei due capitoli scinde nettamente i momenti in cui la scena è occupata da Spiderman oppure da Peter Parker, e nel secondo caso privilegia la tradizionalità di un cinema classico, rinunciando al trionfo degli effetti speciali, in modo da rappresentare il super-eroe in abiti borghesi, inserito in un contesto perfettamente familiare: la scuola, la camera da letto, il bus del mattino, l’imbarazzo provato di fronte a Mary Jane. La prima parte della mini-saga è abbastanza convenzionale, allo script troviamo una vecchia volpe del cinema spettacolare holliwoodiano, David Koepp, il quale possiede un indubbio talento, non lo neghiamo, ma costruisce la storia in maniera così ben calibrata da apparire alla alla resa dei conti un po’ scontata.
Ma è nel secondo capitolo della trasposizione raimiana che la riflessione sul supereroe si fa più approfondita. Peter non è più un adolescente e deve scontrarsi con la dura vita della città: eterni lavoretti per racimolare qualche dollaro, l’affitto di una stanza povera e scipita, i ritmi forsennati della metropoli. Splendido l’incipit di questo sequel, con Peter che sfida il traffico con un motorino “sgarruppato” per arrivare a consegnare le pizze in 29 minuti. Non ce la farà e, spietatamente, verrà licenziato. Lo script è infarcito di episodi atti a farci comprendere come affrontare la realtà sia molto più duro che scalare grattacieli e combattere il cattivo di turno, anche perchè il rigido distinguo buoni-cattivi non regge come nei fumetti, nella vita di tutti i giorni le apparenze ingannano, le scelte che facciamo possono essere equivocate, e i sentimenti spesso ci giocano dei brutti scherzi.
Per tornare al parallelismo con Kill Bill, a un certo punto il protagonista decide di svestire i panni di Spiderman per sempre e di giocare tutte le sue carte con l’amata Mary Jane. Raimi ci regala una straordinaria sequenza in cui Peter si rimette gli odiati occhiali da vista e cammina in mezzo alla folla dei marciapiedi newyorkesi come una persona qualunque, forse un poco più impacciata – e imbranata – della media. Il papà della Casa più terrificante della celluloide si spinge ancora più in là, e nella sequenza del treno impazzito, quando Spiderman sventa la catastrofe e sviene dalla fatica perdendo la sua maschera, viene accudito con amore dai passeggeri salvati, che cercano di aiutarlo perchè in fondo, come dice uno di loro, è soltanto un ragazzo. L’uomo ragno, come Black Mamaba, mostra il suo volto umano. Ma in Spiderman la figura del supereroe ha una valenza ulteriore rispetto a quella di Tarantino: il protagonista decide di non abbandonarlo perchè sa che quel potere può essere utilizzato per qualcosa di positivo, ed allora in nome dei suoi valori decide di rinunciare al più grande dei suoi sogni: l’amore. E’ la zia di Peter, però, che interpreta il punto di vista del regista, quando dice al nipote che Spiderman è l’eroe nel quale ogni comunità ha bisogno di credere, materializzazione del supereroe che c’è in ognuno di noi, e che a volte ci fa sperare che i problemi possano essere risolti in maniera netta e definitiva; ma la realtà non è così, e per tutto il corso del film Raimi si sforza di farcelo capire.
E’ interessante notare come queste due opere, spesso definite d’intrattenimento dai grandi giornali, ci dicano molte cose sulle problematiche sociali di una comunità costruita sul supremo comandamento dell’apparire.
Dimostrazione ulteriore, questa, di quanto nel nostro Paese ci si dovrebbe “sporcare” di più le mani con i materiali del cinema popolare per assumere un punto di vista sulla realtà che non sia necessariamente militante, bensì in grado di raggiungere un target di pubblico “disimpegnato” in modo da portare una sensibilizzazione su certe tematiche, proprio là dove queste vengono spesso ignorate. Poi si può anche godere del mero aspetto spettacolare dei film ora trattati, ma tant’è, Raimi e Tarantino ci hanno provato, e tanto di cappello a questi due grandi autori.
Mauro Tagliabue