IT 2004 di Giuseppe Piccioni con Luigi Lo Cascio, Sandra Ceccarelli, Ninni Bruschetta, Roberto Citran, Galatea Ranzi, Diego Ribon, Silvio Muccino, Fabio Camilli.
Recensione n.1
° Laura e Stefano, attori entrambi un po’ in crisi professionalmente e sentimentalmente, si incontrano sul set di un film ambientato nell’Ottocento: la storia d’amore tormentato della finzione si interseca con quella, speculare, della realtà… Senza un grammo di ironia né, figuriamoci, la grazia di un Truffaut nel parlare di amore verso il cinema e, quindi, verso la vita, Piccioni (co-autore anche del soggetto e della sceneggiatura) punta alto ma si arena fin dalle prime battute, anzi quasi dà l’impressione di non volerci nemmeno provare a risultare convinto e convincente: e vai, dunque, con i tormenti esistenziali di personaggi (i due interpreti – Lo Cascio è ormai insostenibile, Ceccarelli non è né carne né pesce – di certo non aiutano, così come non aiuta l’interazione meccanica e artificiosa del mondo che ruota attorno a loro) in realtà troppo risolti per le loro problematiche e comunque del tutto incapaci di appassionare minimamente; la regia di Piccioni, invece, sta lì – sciatta, povera (quadri mal studiati, controluci orrendi, giochi col fuori fuoco a dir poco amatoriali, controcampi svogliati, ritmo narrativo e ritmi di montaggio non calcolati, movimenti o soltanto accenni di movimento maldestri, insicurezza nel gestire e far interagire la parte della finzione e la parte della realtà, e via dicendo) e un tantino miserabilista – senza provare non si dice un guizzo di vitalità cinematografica ma nemmeno un quid di intensità, di imprevedibilità, di seduzione. Tanto che, vedendo le sequenze del film nel film (quasi un cinema italiano – inesistente ma tuttavia realmente ridicolo – che insegue forse utopie di perfezione kubrickiana e si adagia invero su standard da serie televisiva: guarda caso, co-produce la Rai), viene davvero da pensare – cosa da far tremare le vene nei polsi – che Piccioni giri in quella maniera lì. E, in mancanza di una storia d’amore sofferta e pregnante, pure il tema della vita come teatro della finzione (o viceversa) risulta di un qualunquismo raccapricciante e di un pirandellismo da educande, visto il tono fieramente didascalico con cui Piccioni vuole spiegare tutto, ma proprio tutto, agli spettatori: sentire per credere la canzone di Gianna Nannini con cui il film si chiude. Tolto il finale in ospedale, l’imbarazzo narciso di un cinema minimalista che non sa cosa sia il minimalismo della realtà, tuttavia, tocca probabilmente il fondo con la fugace (e, ça va sans dire, inutile) apparizione di Silvio Muccino nella parte di sé stesso. DRAMM-SENT 125’ ½
Roberto Donati
Recensione n.2
Vivere vuol dire fingere
Giuseppe Piccioni (Fuori dal mondo, Luce dei miei occhi) è il regista italiano che possiede maggiormente una sensibilità da cinema francese. Centro della sua opera è l’indagine minuziosa dei sentimenti, delle psicologie e dei moti dell’animo dei suoi personaggi. In la vita che vorrei i piani del racconto sono doppi come i protagonisti. La scelta è quella metacinematografica del film nel film. Lo Cascio e Ceccarelli vivono due storie d’amore speculari, nel film in costume che interpretano e nella vita fuori dal set. L’intreccio fra finzione e realtà, tra personaggio e interprete crea un labirinto di specchi, dove è sempre più difficile ritrovare la verità. Se il plot è abusato, da sempre (Effetto notte, Stardust memories…) bisogna riconoscere l’abilità di Piccioni nell’indagare le pieghe dell’animo dei suoi interpreti, regalandoci una notevole dichiarazione d’amore per il cinema e per il mestiere d’attore. Purtroppo la sceneggiatura si smarrisce nella seconda parte, prolungando inutilmente il minutaggio della pellicola con ripetizioni eccessive. L’alternarsi dei due piani del racconto diventa scontato, prevedibile, noioso. L’atmosfera sospesa, emotiva, coinvolgente, creata con abilità è rotta bruscamente da un finale posticcio, completamente fuori luogo (che ciazzecca poi Gianna Nannini?), che toglie molto al valore della pellicola. Un vero peccato perchè il progetto era dèmodè, ambizioso e ad un passo dalla riuscita.
Paolo Bronzetti