Recensione n.1
Ultimo Tango a Hong Kong
2046, ovvero l’amore in tutte le sue sfumature. “Che coss’è l’amor” canta Vinicio Capossela. Ce lo racconta Wong Kar Wai, autore di Hong Kong, dopo il fortunatissimo “In the mood for love”. Si può mancare il grande amore perché lo si incontra troppo presto oppure troppo tardi nella vita. Ma esistono amori diversi e in fondo questa consapevolezza ci dà anche la forza di sognare e di ricominciare a sperare, dopo ogni fallimento. Immersi in un mondo di colori, di sapori, di sfumature… la solitudine è un’attesa, la passione una resa, l’amore un desiderio. Passato presente e futuro si sovrappongono costantemente, così come arte e vita, sogno e realtà, in un mélange in cui a tratti è difficile districarsi, ritrovare il filo sottile del racconto, perché questa volta il regista non intende raccontare bensì evocare, suggerire, sussurrare all’orecchio dello spettatore un lungo e lento sospiro d’amore.
La regia è impeccabile, giocata tutta sul doppio (gli specchi), le pause, i primi piani. La ricerca estetica è puntuale, l’immagine perfetta ricorrente. Gli attori sono altrettanto sublimi nel rendere sentimenti così delicati e sfumati o appassionati e travolgenti. Le scene d’eros sono verosimili eppure delicate, quella passione che toglie il fiato non scade mai nella volgarità né nell’ordinarietà. L’unica consapevolezza, la bussola che ci aiuta a orientarci nel meandro delle emozioni del cuore, è che il passato non ritorna e che è impossibile riviverlo. Fermare l’attimo, morire ogni volta per rinascere, ricordando anche ma non cercando di ricostruire la perduta felicità. E se l’Amore è un’ossessione, la Storia si staglia all’orizzonte, con tutto il suo portato di speranze e di paure.
Mariella Minna
Recensione n.2
Saremo, nel 2046, più felici?
“L’amore è tutta una questione di tempismo”
La domanda del titolo, come forse può apparire ovvio a chi conosce il cinema di Wong Kar-Wai, non trova risposta nel suo nuovo meraviglioso film, 2046 appunto.
Dopo la perfezione geometrica e la rarefazione di inthemoodforlove, Wong cambia stile e, in parte, varia i contenuti ma non si snatura e (ci) parla, sempre e comunque, dell’amore. Amore proteiforme perché eterno, modificabile nelle forme ma immutabile nella sostanza, coacervo di felicità inenarrabili e di cocenti amarezze. Fiamme e vampe di passione, in un 2046 ignoto e disposto al sogno, destinazione (ideale) di treni mentali e (reale) di un Paese dalla vita pulsante ma dissonante, sballottato dai casi della Storia così come, sventrati dalle passioni e dai desideri, sono i personaggi di Wong.
Film, questo 2046, che dividerà e ha già diviso, poiché Wong non si rispetta e non rispetta quelli che avevano amato il suo precedente opus: là il non detto e la frustrazione delle tenerezze corrisposte ma eticamente impossibili/inaccettabili, qua la chiacchiera hollywoodiana da hardboiled e il cinismo disincantato di esseri umani che, non compresi i sentimenti né la loro sistematizzazione, ne vituperano persino il ricordo. Il personaggio, il giornalista Chow ora pure scrittore e in lieve crisi artistica, eppure è lo stesso, e non sono passati che tre anni dal 1963 in cui, in maniera tacitamente disperata, si chiudeva In The Mood For Love. Cos’è cambiato? cos’è successo, frattanto? Non bisogna chiederselo così come non bisogna aspettarsi un seguito (con tutte le conseguenze che questa parola, naturalmente, implica): da raffinato metteur en scene quale è, Wong non dispiega mai una soluzione e si abbandona, e noi giocoforza con lui, a una riflessione, o meglio a una rappresentazione che implicitamente accoglie una riflessione, sul tempo che passa (perduto, sì, ma anche da perdere), sulla memoria, sul ricordo, sul senso dell’evanescenza delle nostre esistenze, sul mondo che è eterno femmineo, ‘casto e divo’, remoto e futuribile. Lo stile, dunque, stavolta non si impenna ma, anzi, va semmai a infangarsi nella messinscena, cerca l’intoppo cronologico e le pastoie del ritmo più ipnagogico possibile (come Magrelli su FilmTv ha brillantemente suggerito). Stilisticamente, non si avverte il bisogno di chiarezza, fra andirivieni temporali ellissi flashback e jump cut: è giusto immergersi fin da subito nella sublime liquidità di un film che scorre e non sa dove andare, lasciandosi libero e aperto a tutte le soluzioni. Arie melliflue – da Casta diva a Siboney – favoriscono la dispersione e il disorientamento, gli sbalzi di umore e la (dis)attenzione. Il melodramma e il noir hollywoodiano, ricercato nelle scenografie e nel décor all’interno di una stilizzazione tutta orientale, confonde le tracce, depista il fiuto spettatoriale, annacqua i temi (senza sbiadirli), decanta le emozioni; la voce fuori campo (aggiunta dopo la, a quanto pare, semi-disastrosa proiezione di Cannes) commenta e straparla: che Wong sia impazzito? o siamo piuttosto noi, destinatari del suo far meraviglia, a non comprendere come il metalinguaggio a cui Wong si è autodisciplinato (nel film si parla di romanzi scritti, in fieri e da scrivere) debba anche passare dal vetusto stereotipo e dal banale? e ci potrebbe essere favola, ora delicata ora struggente sempre lucida, senza l’artificio della narrazione?
Un recente film mi impone un paragone ininfluente: come Michael Mann, passato dal dispersivo e ritardante Heat al compresso Collateral, Wong agisce in maniera inversamente speculare e, dopo lo sfuggente eppur compatto In The Mood For Love, ci consegna un oggetto filmico che si dispiega e si perde deliberatamente, si contorce su sé stesso, si sfalda in farraginosi sottointrecci per mantenere, sotto sotto, una coerenza e, se non altro, un’idea di cinema che ha il rigore e lo specifico della visione come fondamenta. Un film che piacerà meno e che, dai più esigenti, dovrà farsi piacere. A tutti i costi.
Non importa sapere se, nel 2046, sogni e desideri si possono realizzare (anche a patto di non recuperarsi per sempre) e se dunque saremo più felici: con il suo film, Wong sembra suggerirci che l’amore, inconoscibile al tempo e viceversa, è causa di sola infelicità ma è semmai la sua razionalizzazione (cinematografica, nel caso del regista) a procurare gli abbrivi emozionali positivi che tanto cerchiamo nei rapporti umani in generali e in quelli sentimentali in particolare.
2046, mi pare (e forse mi sforzo) di capire, è un film su anime in pena per anime in pena che – forze attraenti danno origine a esiti opposti – procura liberazioni e dispensa catarsi; e ogni suo lacerto, nel suo farsi/vedersi, rende felici.
Roberto Donati