Regia e sceneggiatura: Pedro Almodovar
Con: Gael Garcìa Bernal, Javier Càmara, Francisco Boira, Fele Martinez
Spagna 2004, drammatico, dur. 105’

Recensione n.1

Un film senza donne. Un dato incontestabile per affrontare l’ennesimo, estremo, stravagante labirinto di passioni che Almodovar mette in scena ancora una volta, senza mai rinunciare alla sua cifra provocatoria e sanguigna. La storia ruota attorno ad un collegio dove il padre-direttore esercita le sue attenzioni morbose nei confronti di un fanciullo, Ignazio, a sua volta innamorato di un coetaneo, Enrique. Ma non aspettatevi un j’accuse nei confronti delle istituzioni religiose, e nemmeno in un film “a tema” sulla pedofilia. L’attenzione è tutta per i personaggi, deboli, cinici, perversi, lacerati nel cuore e nell’anima, ed adotta un meccanismo narrativo davvero sorprendente: l’incipit vede i protagonisti ormai cresciuti, con Enrique regista in crisi creativa che ritrova Ignazio, attore alla ricerca di un’occasione per sfondare, e l’incontro è proficuo per entrambi, infatti il regista si vede recapitare una storia che potrà tradurre in immagini a patto di assegnare una parte a colui grazie al quale scoprì la propria sessualità. In tal modo passato e presente si annodano in un continuum di andirivieni temporali, e la storia si dipana svelando allo spettatore lo “scandaloso” passato dei protagonisti. A differenza delle opere precedenti, in questo La mala educacion manca la passione rovente ed impossibile che costringe lo spettatore a condividere con i personaggi i più sottili movimenti del cuore, infatti lo scorrere dei minuti ci svelerà i reali moventi dell’agire dei protagonisti, non sottordinati alla passione bensì alla carriera. Lungi da me rivelare il finale, che li vedrà trionfatori mentre a soccombere sarà proprio il prete. Non è rintracciabile alcuna condanna velata della pedofilia, Almodovar non ha il dente avvelenato nonostante la storia sia semi-autobiografica, bensì resta fedele al suo credo cinematografico, l’attenzione per le passioni, anche quelle più disturbanti e meno condivisibili. Padre Manolo è l’unico che agisce spinto solo dall’amore, scontandone l’amaro prezzo sino in fondo, e questo mi pare davvero l’aspetto più interessante del film, che per altri versi appare inferiore allo standard del regista. La prima parte è davvero riuscita, in particolare risultano entusiasmanti i duetti tra Ignazio en travesti ed il suo compagno, e la scena di sesso con Enrique addormentato è davvero esilarante, ma successivamente il regista rinuncia alla consueta irriverenza e la pellicola acquista le sembianze di un noir puro. Ad onor del vero nemmeno Parla con lei e Tutto su mia madre possedevano la travolgente ironia dei primi film, ma a questa mancanza si sopperiva con la forza sanguigna del melò, mentre qui la vicenda ci coinvolge meno, infatti come detto l’unica vera passione è quella del prete, ma non è sviluppata così abilmente come dovrebbe. E’ risaputo come la sceneggiatura fosse pronta da tempo, ma il regista ha preferito aspettare per non essere eccessivamente coinvolto dal punto di vista emotivo, ma forse il distacco così ottenuto ha nuociuto alla carica emozionale del film. Cinematograficamente meno ricco di colori e di virtuosismi, ma la scelta pare meditata, trattandosi infatti di un noir il suo mantello visivo si adatta perfettamente alle ombre oscure dei sentimenti dei protagonisti. Difficile dare un giudizio su questa che a prima vista appare la meno almodovariana delle pellicole del regista, ma le cui didascalie finali ci restituiscono probabilmente come la sua opera più estrema, non riconciliata e provocatoria. VOTO (soffertissimo): 7

Mauro Tagliabue

Recensione n.2

“La mala educación”, film d’apertura alla 57esima edizione del festival di Cannes, mostra tutti i caratteri del genio di Almodovar, differendo però dalle precedenti pellicole del regista spagnolo. La graffiante ironia e la solarità di “Parla con lei” e “Tutto su mia madre” non si ritrovano in questo film che lo stesso regista ha definito noir.
Ben presente nella mente del regista da anni, Almodovar nega che sia fortemente autobiografico, semplicemente ammette che molti infelici ricordi della sua infanzia condiscono l’aspetto grottesco della narrazione. Ambientato inizialmente negli anni ’60, la storia mostra due ragazzini, Ignazio e Enrique, “educati” in un istituto religioso, anche se la vicina sala cinematografica sembrava insegnare di più delle lezioni in istituto. Qui scoprono di avere una strana attrazione l’un l’altro che li porta a una iniziale confusione e successiva perversione. L’insegnante di letteratura, più tardi direttore dell’istituto, Padre Manolo, avendo una predilezione per Ignazio, fa allontanare a tradimento Enrique dal collegio. La voce innocente e soave di Ignazio nel canto infatti seduce il direttore che spesso e volentieri abusa di lui. Questo provocherà in Ignazio un cambiamento sessuale irrimediabile.
Da questo momento le vite dei tre personaggi si intrecciano, mescolando piani temporali e periodi storici: i tre incontratisi all’inizio degli anni ’60, si rincontreranno alla fine degli anni ’70 e poi da ultimo negli anni ’80. Due precisi periodi storici volutamente scelti dal regista per denunciare la spagna franchista e perbenista degli anni ’50-‘60 e quella dieci anni più tardi frenetica e libertaria della movida. Oltre ai piani temporali, la tecnica di narrazione viaggia in bilico tra finzione cinematografica e realtà deformata da punti di vista narrativi diversi: il metacinema, fortemente connotato nel film, deforma e confonde.
E’ quindi fortemente spiazzante per lo spettatore, sono presenti notevoli colpi di scena che in questa sede risulta poco elegante rivelare. Il carattere noir è ben visibile, i toni sono cupi e pessimistici, solo un personaggio (Enrique che diventerà regista, “alter ego” a metà di Almodovar) si riscatterà dal vortice di menzogne e ricatti che avvolge il film. L’unico barlume volutamente inserito per alleggerire l’intreccio è rappresentato da Paca/Pachino che con la sua buffa e “travestita” interpretazione (pur minore) regala allo spettatore più di una volta qualche sana risata.
La perversione di un prete che diventa impresario di una casa editrice e anche dopo sposato non rinuncia alla sua “vocazione pedofila” è il punto d’arrivo di una fervida critica nei confronti dell’educazione religiosa, che è “mala”. Almodovar denuncia l’incompetenza dei preti insegnanti, nota autobiografica, lui stesso ha affermato che gli unici insegnanti meritevoli che ebbe in istituto furono quelli di matematica perché laici.
Questo film, omosessuale, maschile e laico, nonostante le accese proteste del mondo cattolico, non poteva trovare momento migliore per uscire, nell’attuale Spagna di Zapatero e delle sue riforme.

Marta Fresolone

Recensione n.3

Il film d’apertura dell’ultimo festival di Cannes, in Spagna già disponibile in DVD, esce finalmente anche in Italia. Pur restando, come i due bellissimi film precedenti, dalle parti del melodramma, il regista spagnolo stavolta complica ulteriormente i piani della narrazione con una serie di racconti nel racconto.
Le trame in sostanza sono queste: Ignacio si presenta dal regista Enrique come un suo vecchio compagno di collegio, si propone come attore per un film ma soprattutto gli lascia l’ultimo racconto che ha scritto “La visita”. In questo racconto il travestito Zatara ha un incontro con un vecchio compagno di collegio, Enrique, e scopre che questi non versa in buone condizioni. Decide così di aiutarlo ricattando Padre Manolo. Ciò avviene minacciando il sacerdote di far pubblicare “La visita”, un suo racconto, che il prete inizia a leggere. In questo racconto si parla di quando Ignacio ed Enrique erano bambini, delle molestie subite dal prete e del loro amore. Le cose in realtà sono ancora più complesse di così, perchè i piani dei racconti iniziano ad incrociarsi e non tutti sono davvero chi dicono di essere.
Il melò si tinge allora di noir e la ricerca della verità diviene il cardine della pellicola, una specie di ossessione per Enrique, ma anche un viaggio coinvolgente per lo spettatore. Lontano da facili colpi di scena, a loro modo infatti sono quasi annunciati, l’intrigo si dipana su più tempi, tra verità celate, menzogne e ricordi.
Almodóvar regge bene i diversi registri stilistici fondendoli in modo mirabile, ove anche le parti più noir mantengono comunque un calore emotivo da melodramma, aiutato in questo ancora una volta dai colori in cui ammanta gli ambienti del film. In un decòr fine anni settanta fatto di tappezzerie verdi, di vestiti gialli, di sedie rosse, i colori dalla tonalità a volte da pastello, immersi in una luce calda trasmettono efficacemente la passione di un abbraccio.
Il lavoro sulle luci è altresì notevolissimo, spesso infatti i personaggi emergono dalle ombre solo come sagome, quasi balzando fuori dai ricordi, dall’oscurità, per acquisire solo in seguito una materalità fatta di colore. Come si dipingessero in base a chi hanno di fronte, o nel caso dei personaggi dei racconti, come fosse la fantasia del lettore ad animarli e a farne di più di sagome buie.
Il film è stato giudicato inferiore ai due capolavori precedenti ed in effetti qui alcuni dialoghi sanno troppo di artificioso, di scritto, il che potrebbe anche essere voluto nelle parti narrate per racconto, ma succede anche nel tempo e nello spazio “reali”. Ciò che però riesce a salvare anche i dialoghi meno riusciti è la recitazione degli interpreti tutti bravissimi e tra i quali sorprende per il coraggio e la passione messa nella parte da Gael Garcìa Bernal (Y tu mamà También, I diari della motocicletta). E’ anche un piacere rivedere Javier Càmara che interpretò Benigno in Parla con lei, qui in un ruolo da comic relief.
La denuncia delle storture dell’educazione nel collegio cattolico finisce per essere un dato acquisito, poco raccontato e lasciato fuori campo. Come lo stesso Almodòvar ha dichiarato non si tratta di un film di denuncia, di rabbia, tutto è stemperato in un racconto articolatissimo di passioni, spesso impossibili ove anche il padre Manolo finisce per sembrare una vittima.
La regia, aiutata da una buona colonna sonora che comprende anche Cuore Matto, indovina diverse sequenze di ottima qualità, e anche se alcuni passaggi appaiono di cattivo gusto (la testa ferita di Ignatio bambino che si apre a metà come un sipario su una nuova sequenza), un momento bellissimo come l’innamoramento tra i piccoli Ignacio e Enrique cancella ogni sbavatura. Non mancano poi i personaggi tipici del cinema del regista, travestiti e omosessuali inaciditi, a volte cattivi, a volte tenerissimi.
Almodóvar insomma si conferma grandissimo, tra i pochissimi capace di maneggiare un materiale narrativo così denso di implicazioni patetiche e di portarlo sullo schermo senza scadere nello sceneggiato televisivo.

Andrea Fornasiero

Recensione n.4

Il nero del peccato e il rosso della carnalita’ si fondono nei poster stracciati che compongono i bellissimi titoli di testa, mentre la parola “passione” suggella la fine della torbida vicenda imbastita da Pedro Almodovar. In mezzo tutte le sue ossessioni: il film nel film, il marcato anticlericalismo, le icone gay del cinema (questa volta Sara Montiel nel drammone “Esa Mujer”), i colori vivaci spalmati con estro e brio, gli amori impossibili, il gusto per la provocazione, i dettagli sessuali piccanti, i tradimenti, le lacrime, i tacchi a spillo, i seni posticci, i vestiti pacchiani e le parrucche cotonate. Insomma, tutto l’universo bizzarro a cui il regista spagnolo ci ha da sempre abituati. Da spettatori viziati ed esigenti, pero’, finiamo per dare per scontata la ricchezza visiva e grattando la sofisticata superficie questa volta restiamo un po’ delusi. L’aspetto piu’ interessante, alla lunga purtroppo anche il limite maggiore, e’ il complicato intersecarsi di tre diversi livelli narrativi che intrecciano, spesso senza soluzione di continuita’, flashback, fiction e realta’, dando vita a una progressione suggestiva e ai limiti del virtuosismo ma non cosi’ efficace. Se l’impianto riesce a sedurre, infatti, le motivazioni dei personaggi e il forte pulsare dei loro cuori unito all’accendersi dei sensi, disperdono il potenziale coinvolgimento in una meccanicita’ poco comunicativa. E l’ennesimo amore omosessuale in chiave clerico-pedofila finisce per stiracchiarsi troppo nel passaggio dalla commedia al noir, dando vita a un teatrino grottesco che matura incapace di esplodere e la cui drammatica vitalita’ resta perlopiu’ nelle intenzioni. Poco giova alla riuscita del film la scelta come protagonista di Gael Garcia Bernal, sguardo furbetto tutt’altro che languido e movenze da calciatore in panchina, vittima di un personaggio cruciale ma un po’ irrisolto: travestito per caso, gay per necessita’ o amante per desiderio? Il film prova a renderne le molteplici sfaccettature, ma si perde in altri interrogativi, non altrettanto brucianti, disseminati lungo un racconto labirintico e cerebrale.

Luca Baroncini (da www.spietati.it)

Recensione n.5

Con degli strepitosi titoli di testa profondamente classici che ricordano il miglior Hitchcock, inizia La mala educaciòn, ultima provocatoria e malinconica opera di Pedro Almodòvar. La brutale e cinica storia di quattro personaggi dalle doppie identità e dal passato angosciante che si ritrovano e si perdono, si confondono e trasformano, fino a cambiare per sempre le loro solitarie vite.
Gael Garcia Bernal è il protagonista eclettico dell’opera, interprete di tre personaggi diversi che si ricongiungono in un solo e bravissimo nella sua naturalezza, definendo un’interpretazione elegante, delicata, vera che non disdegna i mezzi toni e le affascinanti sfumature recitative. Ma tutto il film è sorretto da un cast di prim’ordine, come del resto accade in tutte le opere di Almodòvar (anche se qui, al contrario di Tutto su mia madre, l’universo è maschile e al contrario del doloroso Parla con lei, aspro), dall’incisivo e tagliente Daniel Giménez Cacho al simpaticissimo Javier Càmara in un piccolo ruolo che dà linfa e vitalità alla storia raccontata, da Fele Martìnez in un’interpretazione sensibile e seducente a Lluìs Homar, perfetto nel ruolo morboso di Berenguer.
Almodòvar ha gusto per i dettagli, i colori e l’atmosfera a metà tra noir e melò, ma ha soprattutto una grande attenzione per i suoi personaggi, ossessivi e ossessionati, vittime e carnefici, angeli e diavoli, persi in un esistenza di desiderio e ambizione che soffoca e opprime.
Un ottimo gioco narrativo di montaggio e flashback, tre spazi temporali che si confondono e si rievocano, senza cadere mai in una dispersione del melodramma, ma anzi, componendo un quadro nostalgico di ricordi ed emozioni, personaggi mascherati nell’anima e persi nel cuore. Almodòvar infonde il film di gusto classico e coscienza moderna, carica di nostalgia ogni scena e s’insinua senza esitazione nell’inferno delle vite dei suoi personaggi, in un’atmosfera enigmatica e incantatrice, che non esclude scene sottilmente d’impatto e momenti alla deriva. Una storia morbosa, narrata con essenzialità e crudezza ma capace di coinvolgere e appassionare, un lungo racconto d’identità tradite e mascherate, di passioni pericolose, gelosie ossessive, erotismo e psicologia, tra passato, presente e futuro persi nelle vendette e nei ricatti e che getta angoscia sulla vita di ogni essere umano, dove nessuno, alla fine, può davvero conoscere l’oggetto del suo desiderio. VOTO: 8
Claudia Scopino