Regia di M. Night Shymalan
Cast: Joaquin Phoenix, Bryce Dallas Howard, Adrien Brody
Recensione n.1
The village è, prima di tutto, una storia d’amore.
È anche un ottimo film di suspance, una parabola sul male e le sue conseguenze, un esempio di ottimo cinema, ma prima di tutto questo è una bellissima storia d’amore. Shyamalan conferma le sue ottime qualità di regista e sceneggiatore, portando avanti (e in parte deviandolo) quel discorso sulla (con)presenza del trascendente nel cuore dell’immanente, l’assoluto nell’empirico. È il primo film (da Il sesto senso) in cui la componente soprannaturale è quasi assente. Il villaggio del titolo è circondato dal bosco, a sua volta abitato da creature “innominabili”, che costringono le persone a vivere unicamente all’interno di quello spazio circoscritto, che si fa barriera (poco) fisica, la quale s’erge a protezione di un Male fortemente metaforico. Fino a quando Lucius (un Phoenix magnificamente sotto le righe) viene accoltellato dal pazzo del luogo (un perfetto Adrien Brody). È necessario recuperare in città le medicine per curarlo adeguatamente. S’incarica di ciò la donna amata, che peraltro è cieca.
The village è un film di dicotomie astratte (Bene/Male, Gelosia/Amore) e fisiche (le coppie del posto). Tra l’altro la coppia più importante è composta dà un taciturno e una cieca, ognuno dei due necessita delle mancanze (le parole, la vista) dell’altro, nonostante ciò si amano, è forse questo il vero amore? L’amore nel film è fatto di assenze, di distanze, di esitazioni, fatta eccezione per questo.
Ci si può liberare dal Male? Dal dolore che ne consegue? Il film è questa domanda, e probabilmente tenta di farsi risposta, nonostante il finale parzialmente aperto.
The village non è un film che fa paura, ma in almeno due sequenze (la venuta della creatura nel villaggio e la sequenza dell’inseguimento nel bosco) da prova di puro terrore psicologico, distaccandosi in positivo da tutti gli horror contemporanei. È un film che, come tutta la filmografia del regista di origini indiane, trova il sublime nel fuori campo. Già lo aveva dimostrato nel bellissimo Signs, nella sequenza della cantina, concentrando l’attenzione in ciò che lo spettatore non vede, immergendolo nello stesso buio in cui si trovano i personaggi. Lo fa nuovamente nel suo ultimo lavoro, ed in particolare nella scena dell’accoltellamento, una delle più belle e geniali del film, che si pone come l’esatto opposto di quella di Psycho.
Dal punto di vista tecnico il film eccelle in assoluto: la regia virtuosa ma mai di maniera, la fotografia tetra e lugubre, la recitazione di tutti gli attori, le splendide musiche. Forse l’unico difetto di questo raro film, è la sensazione che deriva dal continuo accumularsi di colpi di scena (alcuni prevedibili), che dà l’impressione di un fuori tema, o per lo meno della mancanza di una tesi centrale. Come tutti i personaggi shyamalani, la ragazza cieca di The village è alla perenne ricerca di sé stessa, della sua essenza, della Verità.
Appare anche qui, in veste di comparsa, il regista, e lo fa in maniera folgorante e decisamente geniale, in linea con il suo pensiero di cinema: riflesso.
Shyamalan potrebbe davvero rappresentare il futuro intelligente di Hollywood. VOTO: 8
Andrea Fontana
Recensione n.2
M. Night Shyamalan è celebre soprattutto per Il sesto senso, già Unbreakable, che ritengo un film molto bello, ha raccolto ben minori favori da parte del pubblico. E’ scattato uno strano meccanismo per cui lo spettatore entrava in sala ansioso di essere sorpreso, ma allo stesso tempo conscio che il regista avrebbe cercato di sorprenderlo e quindi all’erta, più impermeabile alle stesse trovate di sceneggiatura che ricercava. Il risultato è stato che molti non hanno amato il colpo di scena finale di Unbreakable perchè non li ha sorpresi e naturalmente non li ha sorpresi perché se lo aspettavano. Un peccato perché l’opera seconda di Shyamalan era molto matura ed originale e andava ben al di là dell’emozione del colpo di scena. Signs al pubblico è piaciuto ancora meno anche se, per ragioni a me affatto chiare, molta
critica l’ha apprezzato.
The Village è l’ultimo film del regista e il più costoso, segno che Hollywood gli ha dato un’altra chance. La vicenda è ambientata in un villaggio tardo ottocentesco americano, circondato da una foresta invalicabile, ove vivono le creature innominabili (in originale “Those we do not speak of” – coloro di cui non parliamo), ma per salvare una vita sarà necessario che qualcuno attraversi il bosco per prendere le medicine in città.
Il colpo di scena non manca, il regista insiste a non rinunciarvi, nonostante per questo abbondino i commenti di sberleffo sul web. Cambia però la sostanza dell’opera, non siamo più di fronte ad una riflessione sul lutto e il dolore né ad una costruzione narrativa che funzioni alla perfezione. Queste cose ci sono, il dolore però è più sullo sfondo e la costruzione è meno perfetta che in altri casi.
Quello che c’è in più invece è una riflessione sul potere della paura, su come può essere usata. Riflessione quanto mai attuale, oggi a pochi giorni di distanza dalla vittoria di Bush. Il film di Shyamalan dunque è palesemente politico, ma è anche uno splendido esempio del potere del cinema. In un racconto in prosa una vicenda come quella raccontata non starebbe in piedi per più di pochissime pagine; il fotorealismo cinematografico, al contrario, ha un tale potere persuasivo da saperci ingannare e non farci porre troppe domande.
E’ inoltre presente, ancora più che in Unbreakable, dove si utilizzavano le tutto sommato poco diffuse convenzioni del fumetto super-eroistico, una riflessione che rilegge i topoi della fiaba come il bosco tenebroso, popolato da “creature innominabili”, il patto antico siglato con potenze sovrannaturali, il colore che non va mostrato. Shaymalan dunque aggiunge valori simbolici al suo stile e alle sue tematiche, uscendo dal vicolo cieco in cui pareva essersi infilato con Signs.
Stilisticamente continua a girare molto bene, a raccontare, con ritmi pacati e con silenzi, degli animi dei suoi personaggi. E i moti dell’animo sono nelle mani di un cast eccezionale, da William Hurt a Brendan Gleeson a Sigourney Weaver, fino ai più giovani Joaquin Phoenix e Adrien Brody, dove però è l’esordiente Bryce Dallas Howard, figlia di Ron Howard, ad impressionare di più.
La fotografia mantiene un tono grigio, piovoso, dove il giallo opaco ben si amalgama, mentre il rosso, il colore del male (e del sangue, del fuoco, dei comunisti, certo, ma soprattutto dei repubblicani), è appunto un disturbo cromatico da cancellare, da seppellire. I movimenti di macchina sono elaborati, la composizione dell’inquadratura è studiata, così come l’accompagnamento musicale e i dialoghi sono ben scritti, specie nella scena dell’innamoramento tra Ivy e Lucius. E’ un gran pezzo di bravura registica poi la prova d’amore che Ivy impone a sé stessa e a Lucius, che dovrà accorrere per salvarla nonostante il pericolo. Ci sono mani che aspettano, mani che si cercano ma non hanno il coraggio di uscire allo scoperto, ci sono mani che si trovano e mani che accoltellano.
I meccanismi della paura infine funzionano piuttosto bene, anche se un maggiore camuffamento delle creature innominabili avrebbe giovato al film, sono troppo illuminate e un po’ troppo grottesche per spaventare davvero. C’è una ragione per cui Shyamalan ha scelto questi mostri e non degli orrendi simil-alien, ciò nonostante un po’ più d’ombra non avrebbe certo guastato.
Il film è quindi tecnicamente ben realizzato e ha stile e fascino senza essere freddamente manierista. Il colpo finale poi, anticipato da una trovata alla Psycho a metà del film, può funzionare o meno, a seconda dello spettatore. Se si guarda il film come fosse un puzzle non se ne ricaverà molta soddisfazione. Una visione più docile, con un po’ di sospensione dell’incredulità, lo renderà più godibile anche se poco plausibile.
SPOILERS
La seguente parte della recensione è realizzata per chi ha visto il film o per chi non conta minimamente di vederlo.
the village THE VILLAGE THE VILLAGE THE VILLAGEI mostri non esistono, sono nostre creazioni. Fino a qui non ci sarebbe niente di nuovo però fa molto riflettere la struttura del potere gerarchico che impone alla popolazione l’esistenza dei mostri, e che commette anche dei crimini sugli animali per dare credito alle proprie parole.
Lo scenario, lo riconosciamo, non è credibile: Edward Walker pagherebbe un sacco di gente perché non passino gli aerei, perché non si avvicinino delle auto e perché il 21° secolo appaia a tutti gli effetti il 19°… Non ha comunque importanza, la trovata ha qualcosa di distopico, descrive la mostruosa concezione di un potere che impone delle restrizioni non con la forza, bensì con il controllo dell’informazione, dell’insegnamento, come in Orwell.
Questo potere non si accontenta di ingannare, ha anche la necessità di gettare nell’ignoranza (di ben un secolo indietro) e di spaventare perché l’isolazionismo resti in piedi. La gente è disposta ad accettare le condizioni imposte dal consiglio solo se mortalmente impaurita, anche da cose inverosimili, sovrannaturali, che non vengono praticamente mai viste, ma che sono sempre pronte a colpire – non molto diverse dai terroristi che appaiono nei video fantasma.
La paura e l’oscurantismo sono i mezzi attraverso i quali il potere si perpetua, non importa se nel villaggio regni tutto fuorché la serenità che dovrebbe auspicare una comunità religiosa, il terrore sembra comunque il male minore al consiglio. Non è un caso che nel villaggio uno dei giovani sia pazzo, sappiamo che ha scoperto la verità ed è facile immaginare come proprio questa scoperta l’abbia portato alla pazzia.
Mi pare significativo a questo proposito che in Matrix, intendo nella realtà virtuale generata dalle macchine, fosse assente il terrore del potere. Gli uomini erano ignari e comunque controllati, erano evidentemente i tempi precedenti all’11/9 e anche Neo che scopriva la verità non impazziva perché non assisteva al terrore imposto agli uomini, ma solo ad un inganno che per alcuni era anche piacevole.
Colei che non ha paura è la ragazza cieca, perché in effetti è già diversa, non può vedere e quindi il terrore del rosso le è ignoto. Su di lei non si è potuto esercitare lo stesso controllo perché la ragazza affronta il buio e l’oscurità ogni attimo della sua vita, e soprattutto perché non può essere ingannata dalle immagini. Lasciando perdere le sue vaghe doti ESP e l’inverosimiglianza di alcune situazioni che la coinvolgono, il personaggio di Ivy è centrale proprio per la sua impermeabilità all’inganno della visione, ben rappresentato nel film dai colori. Infatti i colori, arbitrariamente scelti dal consiglio, le sono estranei in quanto ingannevoli, mentre allo stesso tempo sa vedere l’aura delle persone e quindi sa vedere oltre il velo dell’inganno oculare. Se in un mondo di ciechi un orbo è l’unico a vedere, così in un mondo avvolto dall’illusione delle immagini una cieca è la sola a poter vedere davvero.
Il suo dono della visione è qualcosa che a noi spettatori manca, infatti, come già detto, è proprio il fotorealismo delle immagini a farci accettare come credibile (a meno che non si entri in sala con l’idea che ci sia già un inganno da svelare) una situazione completamente improbabile.
Infine un’altra cosa mi pare significativa e ironicamente amara. Shyamalan usa gli archetipi fiabeschi per educare alla paura i suoi villici, ma lo fa anche per farci capire che le cose che il potere ci racconta non sono in fondo molto diverse. La natura palesemente fiabesca degli elementi utilizzati ci dice, per analogia, che a nostra volta siamo affabulati da un potere che ci racconta delle fiabe e ci tratta come bambini. Quando cresceremo?
Andrea Fornasiero
Recensione n.3
The village è un film giocato su un equivoco. Il trailer chiassoso e ipercromatico farebbe pensare ad una sorta di horror allineato agli stilemi usa in voga. Cast di semisconosciuti, stile vorticoso e approssimativo delle inquadrature. E invece qui siamo di fronte a una pellicola avvolta nella pienezza iconografica del film in costume, nella quale riconosciamo volti noti deformati dal contesto e dal ruolo insolito, e nel quale la componente orrorifica rimane sospesa e si dirama sulla totalità delle scene, per rivelarsi sotto una luce totalmente diversa già a metà del film. Siamo in un villaggio simbolicamente ingrigito, nel quale il rosso acceso è bandito come segno tradizionale di disastri e sventure, e come potente evocatore delle “creature” del bosco circostante. In realtà la comunità si basa su un segreto conosciuto solo dagli anziani: l’universo anticato e conchiuso del luogo è totalmente fittizio, trattandosi di un ritaglio di mondo precluso, deciso e ideato dall’amarezza di uomini adulti feriti dal vortice cittadino e dalla modernità. E l’equilibrio è destinato ovviamente a incrinarsi, non appena la radice emotiva che permea il mondo dei “giovani” si materializza nel volto scarno e spiritato di Adrien Brody-Noah, che accoltella l’amico Lucius spinto dalla gelosia per il suo amore per la cieca Ivy. Forse appare eccessivamente marcata personificazione di emozioni e vissuti: Noah incarna la follia, la ribellione insensata e ferina che squarcia l’irrealtà velata del villaggio e le sue leggi ipocrite dimostrando l’impossibilità di fuga dal male e l’illusorietà di un luogo immutabile, così come Ivy è lo sguardo “altro”, l’occhio sensibile capace di sfidare le paure precostituite e di avventurarsi nel bosco fino al mondo esterno, violando le leggi della decennale messa in scena di un microcosmo posticcio, recintato e muto. (5\11\2004)
Chiara F
Recensione n.4
UNA LOVE STORY TRA I BOSCHI INFESTATI
Non è nostra intenzione spoilerizzare più del dovuto, ma per mettere in guardia gli spettatori ci tocca dirlo: The Village non è nè un thriller paranormale, nè un film di fantascienza/fantasy, nè tantomeno un horror. Così come per il precedente Signs, che venne fatto passare dalla casa di distribuzione come un film indagine sui cerchi nel grano, i trailer bombardanti di The Village ce lo fanno passare come quasi un horror paranormale. Furbe strategie di mercato, ai quali siamo contrari, quindi avvisiamo i gentili lettori a non andare al cinema convinti di vedere il “solito” Shyamalan amante dei misteri post-razionali. Chi ha amato il regista per le sue trovate fuori dal comune si troverà perciò un attimino spaesato, ma in compenso, a sguardo lucido, è facile accorgersi del vero significato di The Village, un grande film sull’amore, amore uomo/donna, padre/figlo, fratello/sorella, amico/amico, raccontato come una parabola. La domanda che sorge è: “Perché usare un plot del genere per raccontare dell’Amore?” In questa ottica The Village è probabilmente il film più completo del Shyamalan autore, in quanto bilancia perfettamente le due strade che il regista percorre: l’indagine dell’uomo davanti all’inspiegabile, e le immediate conseguenze, i cambiamenti, le crescite interiori. La sceneggiatura, oltre alle frasi ad effetto come “Nascondi l’infausto colore”, si concentra
soprattutto sui dialoghi tra i due protagonisti, Joaquin Phoenix e Bryce Dallas Howard, evitando le solite frasette banali d’amore, dimostrando ancora una volta il grande talento di Shyamalan anche come sceneggiatore, oltre che regista. A permanere come topos del cinema Shyamalaniano è la lentezza degli eventi, con grande attenzione alla iconografia, ai colori (il rosso sangue come minaccia, il giallo ocra come protezione), movimenti di macchina precisi e macabri. A completare l’atmosfera è una fotografia dark nitida, una cromatica spesso spenta, dove il tramonto predilige sull’alba. A poter dare fastidio del film è la semplicità della storia (soprattutto per chi segue il regista dal debutto), fin troppo razionale, ma è solamente un Shyamalan diverso dal solito, che preferisce concentrarsi sui rapporti umani piuttosto che sugli alieni e sui fantasmi. E attenzione, anche in The Village accade una magia: la magia dell’amore.
Pierre Hombrebueno
Recensione n.5
Siamo nell’America rurale del 1879. Un villaggio è del tutto isolato al centro di una foresta nella quale vivono strane e pericolose creature. La paura impedisce agli abitanti di andarsene, ma un fatto imprevisto e un coraggio dettato dall’amore, spinge la non vedente Ivy Walker ad attraversare la foresta per giungere alla più vicina città e qui ottenere delle medicine per salvare la vita al suo promesso sposo, mortalmente ferito.
Manoj Night Shyamalan è attratto dalle apparenze e dai meccanismi narrativi che si ribaltano a pochi minuti dalla fine grazie ad un colpo di scena. L’abbiamo visto in The sixth sense e Unbreakable, e quest’ultimo film non fa eccezione. Tuttavia c’è un fattore di maggior importanza. La tematiche che danno sostanza alla storia sono la paura, che impedisce a chiunque di allontanarsi dal villaggio, e la menzogna che, è evidente sin dall’inizio, serpeggia tra gli abitanti del villaggio sottoforma di bauletti neri che celano qualcosa che non si deve svelare. Sono questi due dettagli, insieme al bel finale, a dare rilievo ad un film mascherato da horror, ma che in realtà è ben altro.
Il regista (anche sceneggiatore) costruisce una storia che procede lentamente, seguendo i ritmi del villaggio, ma questa particolare andamento non è segno né di noia, né di mancanza di fantasia. Quseta scelta è semmai un’esigenza narrativa forte, che permette a tutti gli elementi drammatici di serpeggiare lungo i 105 minuti del film, suggerendo una certa idea d’inquietudine e a dare il giusto e significativo risalto ad un finale davvero imprevedibile. Il finale per altro, non è solo un mero colpo di scena, un piccolo meccanismo narrativo che non aggiunge nulla, ma anzi, unitamente alle tematiche del film, contribuisce a dare sostanza a quell’interpretazione politica che molti hanno voluto leggere in questo film e che lo stesso regista non ha mai rifiutato. L’america di The village, vista da un regista d’origini indiane, è un’America che cerca come può di leccarsi delle ferite, richiudendosi, un po’ assurdamente, su se stessa.
Da un punto du vista stilistico, Shymalan conserva la sua tendenza ad una messa in scena fondamentalmente classica ed estremamente corretta, senza mai alcuna sbavatura, conferendole anche un sostrato estetico-espressivo che emerge a tratti in alcun dei momenti significativi (le inquadrature e il montaggio di certi dialoghi sottolineano legami e separazioni tra i personaggi; l’opposizione tra anziani e giovani è fisicamente caratterizzata dall’integrità apparente dei primi, e da certe mancanze fisico-mentali dei secondi che in realtà, si scopre, hanno un valore opposto).
Bravi i giovani interpreti: il taciturno Joaquin Phoienix, il folle Adrien Brody, ma soprattutto la non vedente Ivy interpretata dalla sorprendente Bryce Dallas Howard, al suo esordio.
The village è il film più complesso e adulto di Manoj Night Shyamalan.
Sergio Gatti
Recensione n.6
La forza di M. Night Shyamalan sta nell’abbinare soggetti originali e sfiziosi a uno stile avvolgente, fatto di ritmi dilatati e movimenti di macchina morbidi e suadenti. Si percepisce un’idea di cinema molto personale, in cui nulla avviene per caso, ma al sesto lungometraggio l’elogio dell’attesa, a cui il regista indiano ci ha ormai abituati, mostra segni di stanchezza, perlomeno nello spettatore. Il problema di “The Village”, gia’ evident anche nel precedente “Signs”, e’ che l’effetto domina sulla sostanza. Poco male se il retrogusto mantenesse intatto il senso di meraviglia (come ne “Il sesto senso” e, almeno parzialmente, in “Unbreakable”), invece lo stupore ha una data di scadenza molto ravvicinata e si rivela incapace di garantire la necessaria sospensione di incredulita’. Gia’ raccontare le premesse della vicenda diventa come sparare sulla Croce Rossa, perche’ la narrazione inciampa quasi subito nelle incongruenze. C’e’ un villaggio circondato dai boschi in cui gli ingenui abitanti, che non fanno nulla durante il giorno se non estenuanti riunioni consiliari, vivono nel terrore delle creature “innominabili” che popolano la foresta (dei claudicanti Grinch con la voce cavernosa). Nel momento in cui la violenza rovina l’armonia della vita comunitaria (non era mai successo in tanti anni, ma sono uomini o automi privi di pulsioni? E “Il signore delle mosche” non ha insegnato nulla?), la necessita’ di medicinali fa nascere l’esigenza di uscire dal confino. Chi sara’ il prescelto per la rischiosa e pioneristica impresa? Una ragazza cieca (che, pero’, in piu’ di un’occasione ci vede meglio di un dieci decimi)! Procedere ulteriormente raccontando stonature e inverosimiglianze significherebbe rovinare la sorpresa (comunque intrigante) degli sviluppi, ma sono troppi i momenti in cui la palpebra ha percettibili cedimenti e il nonsense prende il sopravvento. Si dira’ che il tema della paura inconscia dell’ignoto e’ forte e realizzato con fantasia, che il mistero genera pericolose ossessioni, che con il terrore si possono governare intere nazioni, e che il film lo dimostra con intensita’, ma perche’ piegare a una causa giustissima un racconto cinematografico, con regole ben precise e codificate? Il risultato e’ comunque accattivante, ha il pregio di non fossilizzarsi in un genere e di indurre alla riflessione, ma la sceneggiatura non regge e le deduzioni a cui giunge peccano di superficialita’. La tesi da esporre finisce cosi’ per produrre l’effetto di una maglietta indossata di due taglie piu’ piccola: stringe il film fino a soffocarlo. Sottotono la recitazione degli attori, tra cui si distingue la volonta’ di Bryce Dallas Howard e la schiena (perche’ soprattutto quella ci viene mostrata) d William Hurt. Totalmente ingannevole il trailer, che promette piu’ brividi di quelli elargiti (bello, comunque, l’inseguimento nel bosco). Il passaparola non giovera’ al botteghino.
Luca Baroncini (da www.spietati.it)