Eros, ovvero Il filo pericoloso delle cose, Equilibrium e La mano. Tre film, tre registi, tre registri diversi. Li legano il tema comune dell’amore sensuale e i disegni erotici di Lorenzo Mattotti che fanno da cornice al trittico, ripetendosi prima e dopo ogni film insieme alla canzone trasognata di Caetano Veloso. Se Antonioni non avesse proposto a Soderbergh e Kar-Wai di realizzare una trilogia a tema saremmo dovuti andare al cinema tre volte. Invece guardiamo una storia dopo l’altra, rimanendo seduti sulla stessa poltrona.
Il filo pericoloso delle cose – Michelangelo Antonioni
Lei cerca la purezza. Lui la completezza del rapporto attraverso l’atto sessuale: non si capiscono, non si amano più. Mentre i due passeggiano su una spiaggia toscana, appare l’altra, a cavallo. Lui fa sesso con l’altra. Poi telefona a lei da Parigi. L’altra danza nuda sulla spiaggia e si distende sulla sabbia. Lei ripete la danza e si avvicina all’altra, coprendola con la sua ombra.
Da una storia già scritta da Antonioni in Quel bowling sul Tevere Tonino Guerra ricava una sceneggiatura criptica e rarefatta, troppo poetica, decisamente improbabile. Così Regina Nemni, Christopher Buchholz e Luisa Ranieri recitano personaggi distanti: tra loro, da sé stessi, dagli attori e dagli spettatori.
Il risultato è asettico. Intenzionalmente, si spera.
Equilibrium – Steven Soderbergh
La mente eclettica di Soderbergh si diverte qui a distorcere un quadretto di genere e Peter Andrews, direttore della fotografia, lo colora con la poca luce che trapela dalle tapparelle abbassate.
Nell’atmosfera senape di una New York anni ’50 l’inizio noir si trasforma nella scena tipica del paziente sul lettino dello psicanalista. Robert Downey jr racconta le sue ossessioni: la campagna pubblicitaria per una sveglia che non si può immettere sul mercato senza una qualche miglioria tecnologica, il parrucchino del suo capo e il sogno ricorrente di una donna bellissima, prima nuda, poi vestita d’azzurro, la cui identità misteriosa deve essere il più presto possibile compresa e rivelata alla moglie. E lo strizzacervelli (Alan Arkin) lo lascia parlare, armeggiando nel frattempo alla finestra con binocoli grandi e piccoli e una aeroplanino di carta, anche lui evidentemente distratto da una donna…
Tutti gli elementi narrativi e visivi chiamati in gioco ritornano, a chiudere la storia come in un cerchio perfetto. Equilibrato e buffo, magistralmente leggero.
La mano – Wong Kar-Wai
Shangai del 1963, mirabilmente fatta rivivere dalla scenografia di William Chang Suk e dalle luci calde e soffuse della fotografia di Christopher Doyle. Hua Yibao (Gong Li) è una prostituta d’alto borgo. Xiao Zhang (Chang Chen) il suo sarto personale, legato alla donna da un vincolo indissolubile creato dal senso del dovere professionale, dalla sfida con sé stesso a realizzare sempre il vestito perfetto, da una riverenza tutta orientale, dalla deferenza – che il maestro sarto Jin raccomanda di usare verso le clienti facoltose –, dall’attrazione, dalla gelosia, dalla compassione. Ma soprattutto dal ricordo del primo incontro – insieme di lavoro e di carne – avuto con la cortigiana: Miss Hua passa la sua mano tra le gambe di Xiao, perché lui porti con sé la sensazione di quel momento e la provi ogni volta che cuce per lei. E Zhang la sente tanto forte dentro di sé che arriva, un giorno, a masturbarsi con quella sensazione, toccando e scucendo un abito della sua signora.
Il tatto si configura allora come il senso dell’eros, il senso dei sensi, in un film iniziato a girare nel 2003, quando l’epidemia di SARS imponeva anche alla troupe di lavarsi ripetutamente le mani, di indossare mascherine e di evitare ogni contatto fisico.
Così le mani, che toccano, sfiorano, sentono, cuciono, diventano sublimi strumenti di percezione sensuale. Anche nell’ultimo incontro fra i due: la donna, malata, vuole ricambiare la fedeltà e l’amore del sarto concedendosi a lui sul letto di morte. Ma il desiderio di proteggerlo dal contagio le impedisce anche solo di baciarlo: non le resta allora che toccarlo, di nuovo, come aveva fatto il primo giorno.
Tra le più penetranti scene d’amore e di sesso di tutto il cinema. L’eros come solo un maestro orientale potrebbe raccontarlo.
Ludovica Maggi