Recensione n.1

Gia’ con l’opera prima “Session 9” Brad Anderson aveva dimostrato di saper costruire un’atmosfera di pericolo imminente, attenta ai dettagli psicologici e alle geometrie degli spazi. Con “L’uomo senza sonno” conferma la predisposizione alle storie cupe, intrise di inquietudini sotterranee e di un male sottile ma pregnante. Sono tanti i modelli di riferimento, da “Memento”, per il procedere ad incastri, ad “Allucinazione perversa”, per il progressivo diminuire delle certezze, a “Fight Club”, per la scissione a cui si abbandona il protagonista, oltre a un tocco di Cronenberg, per il mutare della carne, a Polanski, per la capacita’ di insinuare il dubbio nel quotidiano e a David Lynch per l’incubo allucinante e senza via d’uscita che permea l’intera pellicola. Visti i molti illustri antecedenti, l’originalita’ non e’ il piatto forte del film e il rischio omologazione e’ dietro l’angolo, ma Anderson riesce ugualmente a imprimere personalita’ al racconto. Le premesse lasciano presagire un colpo di scena finale risolutivo e chiarificatore, cosa che arriva solo in parte, lasciando forse un po’ di delusione in chi si attendeva una conclusione forte e ad effetto. Ma cio’ che conta e’ in questo caso il percorso. Tutto il film e’ infatti condotto per tappe successive di degrado fisico e psicologico, che funzionano a livello narrativo e spiazzano lo spettatore in piu’ di un’occasione. Ed e’ curioso perche’ il ritmo e’ blando, la soluzione piu’ volte annunciata, eppure alcuni momenti regalano imponderabili brividi sottocutanei: l’incidente al lavoro, il misterioso collega Ivan, il tunnel dell’orrore al Luna Park, i post-it sul frigorifero, l’apparente tranquillita’ in cui sembrano stagnare gli eventi. Ma funzionano a dovere anche raccordi improbabili, come la fuga nei cunicoli della metropolitana interrotta bruscamente al sopraggiungere di un’ombra sghignazzante. A livello razionale non tutto quadra e nel procedere a ritroso alcuni sviluppi risultano gratuiti, ma mentre si e’ immersi nei labirinti del racconto si provano curiosita’ e disagio, un connubio raro e prezioso, certamente da non sottovalutare. Alla resa emotiva contribuisce non poco la fotografia acida di Xavi Jimenez e la scelta del cast, con le facce giuste al posto giusto: da Jennifer Jason Leigh, abbonata a ruoli borderline, all’inquietante sorriso di John Sharian. Ma il vero valore aggiunto e’ dato da Christian Bale, che si cala nella parte con un realismo impressionante (pare sia appositamente dimagrito di ben 35 chili), quasi eccessivo, ma assolutamente efficace nel trasmettere la deriva di un uomo che, insieme al sonno, ha perso anche la capacita’ di affrontare i propri fantasmi.

Luca Baroncini (da www.spietati.it)

Recensione n.2

Trevor Reznik è una sorta di fantasma, fantoccio, incarnazione spigolosa di un lancinante dolore sottoforma di senso di colpa. Sul suo corpo le stigmate cancerogene di ciò che era e l’ha portato alla rovina, nei suoi occhi e sul suo frigorifero bislacche premonizioni di morte. Disegnate. Si chiede chi sia l’idiota, e cosa abbia a che fare con lui. Il Dostoevskij poggiato su di un tavolo calca sinistramente sulle sue ferite autoinferte e sulla sua magrezza malarica e crudelmente sbattuta sugli occhi degli altri. La grana seppiata della pellicola contamina l’ambiente operaio dei suoi incubi e delle sue paranoie, finchè le visioni non diventano insostenibili. Un misterioso Ivan dalla testa ad uovo e dalla mano podale, ferino e grottesco mina l’abilità del macchinista attraverso lastre di vetro che originano inquietanti sovraimpressioni ed un odio della normalità minacciata sempre costante. Il fantoccio, concentrato di pensieri astringenti e intraducibili, sembra annegare nelle prospettive europee della sua abitazione scarnificata ed esplodere nei congegni mortuari della fabbrica accatastati sulla sua veglia molle e protratta, come un superpotere indesiderato. Una donna che è carne e consolazione reale per lui, e un’altra così dolce ed eterea da insospettire sin dall’inizio. La storia del protagonista addetto alle macchine si avvale di un’inconsueta ricchezza visiva, data dagli oggetti che scompaiono e ricompaiono come avvisaglie, stratagemma lynchiano, dall’impiego classico dei toni musicali di improvvisa retrocessione nella cupezza all’apparente rilassatezza negli attimi anilmente costruiti di visione e sogno. Il film sfasa ogni percezione usata della paura, dipanando le tracce dell’orrore in percorsi stranianti e avventurosi di vita e ricondensandoli in un’angoscia che è tutta interiore, individuale e per questo maggiormente insidiosa e terribile. Il finale scolarizza quasi quell’incessante affiorare di nervi scoperti, quella ipersensibilizzazione esacerbante che si prolunga in due ore di densità narrativa, senza però snaturare il risultato d’insieme.

Chiara F

Recensione n.3

DI COSCIENZE E NON-REALTA’
Non c’è più oggettività nell’immagine filmica, non più realtà effettiva. Nell’ossessione cinematografica dell’ultimo decennio s’è instillato un virus, che concentra l’attenzione non sullo spettatore ma sul film stesso. Così in Memento, Insomnia, i Lynch, Identità e altri, l’immagine reale è viziata, coincide con la soggettività del protagonista, che nel caso del nuovo Anderson (prima c’era stato session 9) prende corpo e occhi dell’emaciato Christan Bale/Trevor Reznik. Come giustamente nota la collega Chiara F., Reznik è un fantasma, e noi con lui, incapaci di dar forma ad un significato se non con il suo sguardo, sfibrato dal sonno. Il sonno appunto non è più elemento patologico collaterale, ma sostanza partecipante all’azione, che ha un ruolo, esattamente come la coscienza di Reznik, l’uomo pelato che lo perseguita, opposto di Reznik stesso. Tenta di ucciderlo, ma inutilmente, l’uomo/coscienza è sempre lì, sorridente, a spingerlo verso l’inevitabile. La memoria, come in Memento, è ingannatrice, ma questa volta per scelta del personaggio, dietro la quale (si) nasconde l’orrore di un atto inconfessabile, che torna e ritorna, fra le pieghe del tempo, dilatato e movibile come non mai, nella semi ombra della fotografia metallica che dà su un azzurro che non è mai stato così inquietante. Purtroppo tutto questo non è nuovo, e salvare il film c’è l’ottima interpretazione di Bale e l’atmosfera tesa che percorre l’intera pellicola. VOTO: 7 ½

Andrea Fontana