Alla Luce del Sole è soprattutto un film che emoziona: un pugno nello stomaco, che fa male, che fa scattare, commuovere e soffrire per l’indignazione e la vergogna che le molte scene dure e secche del film fanno sgorgare dal cuore dello spettatore. La rabbia che si prova nel vedere un uomo solo, tratteggiato dal bravissimo Luca Zingaretti, predicare nel deserto, martire e profeta in patria, schiacciato da un cancro dalle vertiginose ramificazioni, è insopprimibile.
Un plauso lungo e sentito a Roberto Faenza, che ha voluto con ostinazione questo film che in molti si sono rifiutati di produrre, l’ha sceneggiato e diretto, dando vita ad un’opera imperfetta ma viscerale e sanguigna, proprio come Padre Pino Puglisi, 3p per gli amici.
L’inizio del film è vibrante: allevamenti clandestini di cani cui vengono dati in pasto gattini per farli familiarizzare con l’odore del sangue, in preparazione ai successivi combattimenti, con conseguenti scommesse; il cane sconfitto, ferito mortalmente viene gettato da un palazzo da un gruppo di ragazzi, gli stessi che, dopo i titoli di testa e dopo un inserto prolettico che ci anticipa il finale, vengono a contatto, nel quartiere del Brancaccio di Palermo, con il nuovo parroco, Pino Puglisi. Il prete, nato proprio in quel quartiere, decide di farvi ritorno per “lottare”, per cercare di far “camminare a testa alta la gente per bene” del quartiere, vessata dagli “uomini d’onore”. Puglisi saprà conquistare tutti i bambini e gli adolescenti del Brancaccio, accogliendoli nel Centro Padre Nostro, costruito grazie alla beneficenza, ma ostacolerà gli interessi di cosa nostra. Lodevole anche il tentativo di dare una referenzialità stilistica alla narrazione: le prime sequenze, ambientate in un quartiere in cui la mafia, prima dell’arrivo di Puglisi, non ha ostacoli, sono assolutamente geometriche, e rendono bene l’idea di un ordine precostituito immutabile. Quell’ordine fatalmente inalterabile che diventa un muro di gomma contro cui l’eroico sacerdote si scontra irrimediabilmente.
Nella costruzione del rapporto tra il prete e i ragazzi, Faenza incappa in qualche aritmia di sceneggiatura, sbrogliando troppo in fretta alcune matasse e sciogliendo troppi nodi, ma, giunto in medias res, con sequenze volutamente frammentate tuttavia di straordinaria efficacia, costruisce un crescendo emotivo di grande spessore, ben coadiuvato dalle ottime musiche di Andrea Guerra e dalla fotografia di Italo Petriccione, che predilige tinte chiarissime che descrivono perfettamente l’assolato deserto del Brancaccio.

Questi elementi contribuiscono a costruire una precisa sensazione, quella di uno sconfinato mare di solitudine e di omertà che si crea attorno all’eroico sacerdote, abbandonato, in special modo, dalle istituzioni, dallo stato e dalla chiesa, che lo lasciano al proprio destino, insieme ai giudici Falcone e Borsellino, e alle vittime delle stragi di Milano, Roma e Firenze. Significativo il discorso che uno degli “uomini d’onore” rivolge al giovane diacono Gregorio, quasi alla conclusione del film: chi dà da mangiare alla gente qui? La Chiesa? Lo stato? No, noi diamo da mangiare alla gente”. E’ demoralizzante pensare alla gran verità di queste parole, e, soprattutto, alla vergognosa assenza delle istituzioni, che con colpevole connivenza hanno tollerato che la malavita organizzata si sostituisse, per convenienza, allo stato. E così, intorno al cadavere di Don Puglisi, le macchine e i passanti transitano senza fermarsi, la gente chiude le finestre, solo Suor Carolina (ben interpretata da Alessia Goria) corre e piange disperata 3p. Sarebbe bello pensare, oggi, a dieci anni di distanza da quei terribili tempi in cui la mafia sferrava il peggior attacco allo stato che la storia ricordi, siano passati, e che il magistero morale di Don Puglisi non sia stato vano. Accontentiamoci di pensare che questo film, con durezza, regali il suo sacrificio a tutte le generazioni successive, e lo renda pulsante materia di indignazione.
Una nota di demerito alla pessima post-sincronizzazione del film, sorprendentemente evidente in moltissime sequenze.

Simone Spoladori