Regia di Martin Scorsese
con Leonardo Di Caprio, Cate Blanchett, Ian Holm, Kate Beckinsale, Gwen Stefani, Alec Baldwin, Jude Law
Recensione n.1
Capolavoro o film deludente? Probabilmente nessuna di queste due definizioni si sposa alla grandiosità imperfetta di The Aviator. Candidato a 11 Oscar, vincitore del Golden Globe come Miglior Film, l’ultima pellicola di Scorsese sembra ormai essere il film più importante dell’anno americano, ma questo non significa che effettivamente lo sia. Certo, resta uno dei biopic più maestosi degli ultimi mesi, ma nel cuore e soprattutto nello stomaco abbiamo ancora l’imponenza e il vigore di Gangs of New York, di un personaggio come Bill Il Macellaio, della commozione davanti ad un indimenticabile skyline conclusivo. The Aviator, diametralmente diverso dalla penultima opera di Scorsese, fallisce nell’emozionare altrettanto, adattandosi più ad una dimensione minore fatta di lustri e ombre, in maniera molto più soft rispetto alle brutali violenze dei Five Points. La biografia imparziale (si coprono vent’anni della sua storia) del magnate-produttore- playboy-aviatore Howard Hughes è sicuramente meritevole di una visione, per godersi un affresco storico su un tempo ormai perso, su una personalità che sognava in grande e
vinceva tutte le sue battaglie, ma anche pieno di fantasmi nella sua esistenza afflitta da agorafobia che lo costrinse a vivere in isolamento negli ultimi anni della sua vita. I nostri occhi sono spesso affascinati e attratti, specialmente quando la regia di Scorsese davvero si fa percepire nella sua maestria, come nelle adrenaliniche sequenze di volo o le brevi incursioni nella malattia di Hughes, e The Aviator è innegabilmente un buon film, che però viene avvilito da una seconda parte non sempre all’altezza delle straordinarie sequenze della prima e decisamente ripetitiva, mancando di coesione narrativa e non riuscendo ad incantare lo spettatore. Colpa anche di una sceneggiatura dispersiva, superficiale a tratti, che sembra limitarsi a narrare gli avvenimenti principali della vita di Hughes senza approfondire la sua personalità, i suoi sentimenti, la sua anima, tant’è che alla fine la sensazione è quella di aver assistito ad un racconto episodico e non ad un incursione nel carattere e nella mente di una persona tanto influente. Con le sue imperfezioni quindi The Aviator non si candida ad essere uno dei film più belli del rinomato Maestro, ma rappresenta comunque una delicata operazione in un’importante parte della storia americana, che spesso anche se non sempre convince e conquista. Gran parte dei meriti positivi del film vanno soprattutto ad un grandioso cast di all-star, che conta in piccoli ruoli attori come Alan Alda, mai più lontano dai suoi personaggi Alleniani, Jude Law, ben incarnato in Errol Flynn, Gwen Stefani, fisicamente aderente alla sensuale Jean Harlow, Ian Holm e John C. Reilly, che prestano le migliori interpretazioni secondarie, e infine Kate Beckinsale, abbastanza somigliante all’immortale Ava Gardner e carica di sex appeal. Ma il film, inevitabilmente, appartiene a due bravissimi attori che probabilmente regalano le loro migliori interpretazioni: Cate Blanchett è semplicemente travolgente (e le sequenze dedicate a lei ed Hollywood sono le più emozionanti del film), con la sua vitalità sprigiona forza e imponenza in ogni singola inquadratura, e vince la sfida di riportare sullo schermo la leggendaria Katharine Hepburn, grazie ad un’immedesimazione straordinaria che la rende sorprendentemente somigliante al difficile personaggio ma allo stesso tempo capace di farlo suo, superando inoltre sé stessa in una versatilità d’espressioni rare da rendere con tanta efficacia. Leonardo Di Caprio è perfetto, sembra nato per il ruolo di Howard Hughes, e recita con anima e corpo un personaggio pervaso di contraddizioni e complessità, concedendo un’interpretazione mai vista nel corso della sua carriera e assolutamente vincente per dedizione, amore e intensità. Se il cast, le scenografie (ennesimo applauso al nostro Dante Ferretti), la fotografia e tutto il reparto tecnico è ineccepibile, quello che manca al film è forse l’anima Scorsesiana, ciò che rendeva l’imperfetto Gangs Of New York un film eccezionale, che qui è invece presente in modo discontinuo, e se l’operazione è comunque riuscita e non rappresenta una delusione, i difetti che si riscontrano in molti punti non ci permettono di definire The Aviator un capolavoro. Voto: 8
Claudia Scopino
Recensione n.2
La sceneggiatura di John Logan su Howard Hughes, è noto, avrebbe dovuto essere diretta da Michael Mann, che poi si è limitato a produrre The Aviator. E’ legittimo constatare come Martin Scorsese sia intuitivamente più adatto del regista di Collateral e del biopic Alì a raccontare la storia “bigger than life” di Hughes, per un semplice motivo: Scorsese è Howard Hughes, e il film ha un latente autobiografismo che lo rende gigantesco, titanico e, soprattutto, sentitissimo. Oltre a questo primo rispecchiamento si rinviene, scavando a fondo, un secondo livello mimetico: pensando al bellissimo documentario Un secolo di cinema, in cui Scorsese dichiara il suo amore e la sua profonda conoscenza del cinema americano, è facile vedere i contorni dell’eccezionale operazione, in bilico tra archeologia e una sorta di museo delle cere animato, con cui Martin ricrea la hollywood degli anni che furono, dando vita, anima e corpo, alle sue passioni, e collocandocisi al centro.
Si diceva che Scorsese è Howard Hughes; egli, non dimentichiamolo, è il regista di una tragedia shakespeariana, imperfetta quanto straordinaria, sul cuore di tenebra dell’american way of life che, tra mille travagli, ha richiesto due anni di lavorazione nel gigantesco set romano allestito da Dante Ferretti (Gangs of New York); di uno straordinario film su un Gesù atipico condannato al rogo ancora prima di essere girato (L’ultima tentazione di Cristo, da un romanzo di Kazantzakis) che resiste all’ultima umanissima tentazione di vedersi in una vita normale, sposato e con figli; egli è il grandioso fotografo che da più di trent’anni ritrae New York (New York, New York) e le sue perversioni (Taxi Driver, Aldilà della vita), la mafia (Quei bravi ragazzi) e le sue contraddizioni (Casino), l’America e i suoi falsi miti (Toro Scatenato); demistificatore per eccellenza, fastidioso anticonformista anche nel più “blockbuster” dei conformismi (si veda Cape Fear), mal visto dall’Academy Awards, che non gli ha mai riconosciuto un premio.
Un autore che rischia molto anche nel ruolo di produttore, “di innamorato del cinema pronto a investire piccole fortune per la conservazione del patrimonio cinematografico, di appassionato collezionista. E se talvolta la sua irruenza, la sua frenesia narrativa e la sua crudezza rendono impegnativo il rapporto con il suo mondo, non si può non restare in ammirazione davanti al suo cinema, alla potenza di costruzione e al superbo artigianato dei suoi film, alla grandezza della sua visione” (Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996).
Con queste dovute premesse, sgomberiamo il campo da un equivoco: non si può assolutamente considerare The Aviator un film “su commissione”. E’ in realtà un film ispiratissimo, sentito, sinfonico, eccessivo e personalissimo, da vedersi proprio attraverso la lente di questo duplice rispecchiamento.
Innanzitutto, rileviamo come il racconto della vita del più eccentrico tycoon della storia americana inizi, con prepotenza, in medias res e sul set di Hell’s Angels, tralasciandone infanzia e adolescenza, e si concluda con una sublime sospensione più di vent’anni prima della sua morte, quasi all’inizio dell’oblio degli ultimi anni di Hughes.
Il taglio che Scorsese dà al suo biopic è, quindi, ben delineato, ed è tutto teso ad evitare banali spiegazioni pseudo-freudiane e psicanalitiche, in un quadro in cui rimane fuori fuoco tutto ciò che ruota intorno al folle titano Hughes e tutto ciò che potrebbe spiegarlo. A Scorsese interessa l’azione, la frenetica tenacia iper-cinetica di Hughes, i suoi avveniristici progetti aeronautici, le sue megalomani e strafottenti imprese cinematografiche, i suoi amori impossibili, eccessivi, maniacali.
Da Hell’s Angels, quindi, a Scarface, dalla nascita dell TWA alla RKO, dalla scollatura sfrontata de Il Mio Corpo ti Scalderà fino allo scontro con lo stato per smantellare il monopolio della Pan Am sui voli transoceanici, la vita di Hughes secondo Scorsese, squarciata da più di un lampo di follia, si ferma prima del tracollo finale “nazi-mormonico”, con i vent’anni di auto reclusione tra le maglie della germofobia che rimangono nel buio dello sfondo nero su cui si chiude il film, e tra le ossessive parole “Il mezzo del futuro”, pronunciate, follemente, dal tycoon nell’ultima sequenza. La germofobia, nell’iperrealismo onirico di Scorsese, si carica di rimandi simbolici, moltiplicando il significato che i tanto temuti “batteri”, in un’epoca di maccartismo e di caccia alle streghe, per un oltranzista nazistoide com’era Hughes, possono assumere.
La cifra stilistica con cui Scorsese sostanzia la propria lettura del “suo” personaggio è quella, fiammeggiante, che si colloca in bilico tra il pertinente omaggio al cinema dei tempi che furono e la travolgente ed esplorativa mobilità di macchina che ne caratterizza da sempre le prove più ispirate.
L’omaggio ai bei tempi passati hollywoodiani, il secondo livello mimetico, si rende subito evidente nella sbalorditiva cavalcata cromatica che attraversa la pellicola, dai posticci colori da bianco e nero colorato della prima parte all’incontenibile simil-technicolor della seconda, e prosegue con l’adozione di procedimenti ottici e illumino-tecnici wellesiani. Già, Welles. Banale ricordare come Charles Foster Kane fu disegnato dal regista de L’Infernale Quinlan proprio tenendo presente la vicenda personale di Howard Hughes: ovvio, quindi, l’omaggio di Scorsese a Welles. Eccessivo sarebbe, tuttavia, definire The Aviator il Quarto Potere di Scorsese, dal momento che l’impronta autobiografica che caratterizza l’ultimo arrivato, ammantato di consapevolezza e meno barocco, porta con sè alcune conseguenze che creano immediatamente distanza. E’ vero che, a nostro giudizio, a differenza di quanto rilevato da molti, e di quanto, con tutta probabilità, ha constatato l’Academy Awards, assegnandogli 11 nominations, The Aviator, come si prefiggeva di fare Quarto Potere, prende a sportellate il sogno americano, inscatolato dentro una schizofrenica paranoia senza spiegazioni, riflesso in una fila di bottiglie di latte piene di urina. Interessante la linea di coerenza che lega Gangs of New York a The Aviator, nel segno di una messa in discussione di miti e valori americani.
Esattamente come in Gangs of New York, sbalordisce in The Aviator la direzione delle scene d’azione: le sequenze “aeree” sono assolutamente spettacolari, e ha dell’incredibile quella del terribile incidente aereo di Hughes.
La calligrafia rimane sempre molto bella e sorvegliata, soprattutto nella sopraccitata tendenza archeologica, quando si fa splendido calco. Questa tendenza alla ricostruzione, che si concretizza anche su altri livelli, dalla musica, la solita, splendida ininterrotta colonna sonora che si fonde con perfettamente con il resto dei suoni, alla mimesi attoriale, quasi sempre riuscita (poco pertinente solo la splendida Kate Beckinsale, tanto bella quanto fuori parte), porta con sé l’unico vero limite del film, una punta eccessiva di compiacimento, che prende, talvolta, il sopravvento. Si ha la sensazione che l’omaggio al cinema americano della golden age si trasformi, a volte, in un irrefrenabile divertimento, in un gioco intellettuale e cinefilo non per tutti e soprattutto per Scorsese stesso, che sembra in estasi, finalmente protagonista anche di ciò che ha sempre e solo ammirato. Perdonabile.
Simone Spoladori
Recensione n.3
Per volare bisogna osare
Howard Hughes ha fondato la casa di produzione Rko e ha prodotto il primo kolossal ante litteram Angeli dell’inferno), sfidando gli studios. Ha intuito le potenzialità del trasporto aereo e creato una colosso come la TWA, vendendo anche importanti aerei militari (Hercules) all’aviazione USA. Ha avuto relazioni sentimentali turbolente con star come Katharine Hepburn ed Ava Gardner. Howard Hughes è l’ennesima metafora scorsesiana della vita al limite, fra intuizione e provocazione, genio e follia. Il regista americano nel suo affresco sembra attratto sopra ogni cosa dalla cornice. Il sistema hollywoodiano degli anni d’oro (30 e 40) che ha sopportato prima, incensato poi e dimenticato infine il figlio del sogno americano Hughes. La ricostruzione dell’epoca, sfarzosa e dorata è incredibile. Perfetta nel mostrare le contraddizioni dell’affermarsi della cultura massmediatica del Novecento. Martin Scorsese è forse il più grande narratore contemporaneo. La parabola di Hughes, estesa nel tempo, che conduce l’eroe dall’ascesa al declino è un ghiotto piatto per il regista americano. Gli offre la possibilità di far rivivere frammenti di cinema che il cinefilo Scorsese venera. Qui troviamo il limite di un opera come The Aviator, perfetta nell’interpretazione di Di Caprio (sempre più maturo), della Blanchet e nella scenografia di Dante Ferretti ma troppo timida nella regia. Il regista americano invidia maestri al servizio degli studios come Preston Struges, George Stevens, Nicholas Ray. Il suo sogno utopico è di riportarli in vita e con loro riportare la grandezza del cinema su commissione dell’epoca. Quasi che l’invisibilità della regia torni ad essere il collante perfetto per la macchina cinema. L’annullamento delle ambiguità e delle scelte poetiche personali del regista rendono invece la pellicola didascalica e manierista. Corretta e precisa (lontana anni luce dalla mediocrità di Ray) ma anche algida e senza anima. Perfetta per il (doveroso) tributo dei membri dell’Academy ma troppo poco scorsesiana per affascinare i fans del regista. Essendo fra questi ultimi spero che in futuro l’arditezza dello Scorsese autore prevalga sulla razionalità del cinefilo “malato di cinema” Martin Scorsese.
Paolo Bronzetti
Recensione n.4
Il nuovo film di Martin Scorsese è la biografia di Howard Hughes, dall’inizio delle riprese di Hell’s angels (anni ’20) e i primi anni del secondo dopoguerra.
L’aspetto “bigger than life” del film e soprattutto del personaggio che si tratteggia, fa di The aviator il Quarto potere (con le dovute differenze, s’intende) di Martin Scorsese. Hughes giganteggia costantemente lungo il film, sia nei momenti di sobrietà che in quelli di follia, e il ritratto che costruisce Scorsese (con lo sceneggiatore John Logan) rende piena giustizia ad un individuo di rara complessità.
Lo stile di Scorsese, pur con enormi mezzi a disposizione, non si fa mai inglobare nel compiacimento delle esibizioni di altri film del genere e, con una gran massa di possiblità a sua disposzione, il regista crea un amalgama in cui tradizione, virtuosismi, uso sapiente degli effetti digitali e di alcuni film di repertorio abilmente truccati, si sposano amabilmente tra loro. Da segnalare è senz’altro la scena dell’incidente aereo di Hughes, ma anche la lunga sequenza di uno dei momenti più deliranti della vita di Hughes (quando si chiude nudo in ufficio). Quest’ultimo esempio è estremamente significativo dell’evolversi psicologico del personaggio, sempre in bilico tra rinascita e nuova perdizione (cosa che anche il finale sospeso presagisce) e ogni dettaglio è assolutamente necessario. Addirittura il dettaglio ironico ed esagerato di un’interminabile fila di bottiglie di latte rimepite d’urina,acquista significato e rende in modo curioso ed efficiace il senso del tempo trascorso da Hughes in balia di sé stesso. Potrebbe sembrare assurdo che egli possa avere trascorso così tanto tempo da solo, ma se considerate che nella realtà Hughes trascorse gli ultimi trent’anni di vita senza praticamente uscire di casa, nulla nel film è mai davvero fuori luogo.
L’eccentrico e disturbato Hughes diviene ancora più gigantesco quando si occupa dei suoi progetti aeronauti. Le progettazioni e le realizzazioni tecniche, ben più che i suoi film e i suoi amori, ritraggono al massimo il titanismo e le debolezze del personaggio, ed è senz’altro qui che Scorsese da il meglio di sé (è in questa parte di film che si collocano le due sequenze sopra citate). La tutto sommato semplice scena del processo, alternata col seguente successo relativo alla costruzione e al funzionamente di un aereo di proporzioni gigantesche, sono anch’esse – soprattutto grazie a questa interessante alternanza di montaggio – esemplificative della sapienza con cui Scorsese e Logan hanno saputo tratteggiare Hughes.
Lodevolissimo Leonardo Di Caprio, anche vagamente somigliante a Hughes. Tra tutti gli attori che hanno, in varie occasioni, portato sullo schermo il personaggio-Huges, l’interpretazione di Di Caprio è assolutamente al di sopra di tutte. Meno convincenti le signore, sopratutto per una non molto indovinata somiglianza con i personaggi di cui vestono i panni. Naturalmente il professionismo delle loro interpretazioni è eccellente, ma danno di più pochi minuti di Jude Law nei panni di Errol Flynn, che non la lunga presenza di Cate Blanchett che interpreta, senza somigliarle molto, Katharine Hepburn. In ogni caso, come dicevo, somiglianze a parte, gli attori sono tutti più che bravi e, a riguardo, vanno ricordati anche Ian Holm, Kate Beckinsale e Alec Baldwin.
Scorsese vola come sempre in alto (è il caso di dirlo), con una biografia efficace sotto molti punti di visti e godibile da un pubblico piuttosto eterogeneo, anche se magari certe raffinatezze (finale compreso) non saranno comprese e apprezzate da tutti.
Sergio Gatti
Recensione n.5
“SULLE ALI DEL MITO”
Sarà anche il film meno personale di Martin Scorsese, quello più finalizzato al riconoscimento di Hollywood (desiderio solo in parte soddisfatto nel rito degli Oscar) e forse non il titolo migliore della sua densa filmografia, ma nella biografia del magnate Howard Hughes si respirano momenti di grande cinema. La prima parte è folgorante e dimostra la totale padronanza di Scorsese nell’assemblare in modo armonico il proprio punto di vista con gli elementi della tessitura cinematografica: il montaggio epico di Thelma Schoonmaker, la creatività nei costumi di Sandy Powell, la fotografia accurata di Robert Richardson e le sontuose scenografie di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo. L’età d’oro di Hollywood è ritratta con un brio al limite della “maniera”, e alcune gag hanno forse il sapore dell’interpretazione di un’epoca a posteriori, ma lo schermo riesce ad accendersi sul sogno dando concretezza all’immaginario collettivo. Del resto la scelta di Scorsese è di puntare sull’evocazione e non sulla mera riproduzione. A partire dal protagonista (e produttore) Leonardo Di Caprio, bravissimo interprete delle due facce del mito, entrambe a un passo dalla follia: quella fobica e quella megalomane. In apparenza il divo americano non ha nulla in comune con il vero Hughes: non gli assomiglia fisicamente ed è molto più giovane (il lungometraggio si sviluppa nell’arco di un ventennio e a fine film Hughes “dovrebbe” avere più di quarant’anni), ma Di Caprio non si affida all’imitazione (come, ad esempio, Jamie Foxx nel ruolo di Ray Charles) e va al cuore del personaggio, dando voce, corpo e anima alle sue contraddizioni, la baldanza abbinata alle profonde paure. È proprio grazie alla sua vigorosa interpretazione che si riesce a credere nel personaggio, perché il copione non offre grandi appigli e limita la psicologia di Hughes al rapporto con la madre in un prologo banalotto (poi ripreso con poca fantasia nel finale). Le stesse maniacali fissazioni vengono riproposte con poche varianti senza sviscerarne le dinamiche e la seconda parte si impaluda nello scontro, non proprio irresistibile, tra il miliardario e il senatore corrotto (un bravo Alan Alda), fino allo scontato processo risolutore. Non è solo grazie al carisma di Cate Blanchett rispetto al bel visino di Kate Beckinsale che Katharine Hepburn annulla totalmente Ava Gardner. È proprio a livello narrativo che la tanta carne al fuoco perde progressivamente vigore, fino a un epilogo che lascia più mogi che soddisfatti. Nonostante questo disequilibrio nella sceneggiatura, il film riesce comunque a trasmettere la suggestione di un periodo storico e la determinazione di un uomo incapace di venire a patti con le proprie pulsioni. E alcune sequenze (non solo quelle spettacolari degli incidenti aerei) valgono il prezzo del biglietto. Una per tutte: il “Ti presento i miei” a casa Hepburn. VOTO: 7
Luca Baroncini de Gli Spietati