“SOTTO IL VESTITO NIENTE”
Una donna ha perso il figlio in un incidente aereo. Dopo quattordici mesi di dolore esorcizzato nel morboso attaccamento ai ricordi (le fotografie, i video), anche questi cominciano a sparire misteriosamente, facendo nascere il sospetto che la donna abbia inconsciamente inventato la scomparsa del figlio per giustificare il dramma di un aborto spontaneo. Quando anche il marito e la vicina di casa non la riconoscono più i dubbi diventano certezze. Ovviamente, non tutto è come sembra. Il film di Joseph Ruben parte con una certa onestà. Il soggetto non brilla per singolarità (l’eroina sola contro tutti che dovrà provare di non essere pazza) ma il copione innesta
presupposti appetibili lasciando presagire un solido percorso thriller con possibili venature horror. Purtroppo le premesse vengono presto disattese e, dopo una parte centrale che cerca mollemente di irrobustire il mistero moltiplicando gli interrogativi, lo sceneggiatore Gerald Di Pego, in evidente crisi di ispirazione, gioca il tutto per tutto (faccia inclusa) nella virata fantascientifica. Per giustificare l’assurdità della narrazione arriva a far dire a un personaggio “La verità è troppo inconcepibile per la mente di chiunque!”. Ma non basta l’ironia autoreferenziale di un dialogo per salvare il film dal fallimento. A peggiorare la situazione un finale sbrigativo, con personaggi che scompaiono dalla scena (il marito) e altri che non si capisce perché mai ci siano entrati (gli agenti della Sicurezza Nazionale). Nonostante il disastro della sceneggiatura, non tutto è da buttare. Julianne Moore è comunque una presenza di rilievo, capace di regalare sfumature a un personaggio che invece ne è privo; discorso analogo per Dominic West, nel ruolo ingrato della spalla maschile senza alcuno spessore, ma con la faccia giusta. Apprezzabile anche la scelta di mostrare una New York meno convenzionale del solito, con numerose sequenze salvate proprio dalla tangibile atmosfera metropolitana che regala il fascino e la verità assenti nel copione. Per il resto, il film è girato con professionalità, abusa un po’ di inseguimenti inconcludenti resi frenetici dalla macchina da presa a mano, eccede nell’idillio dolciastro dei troppi flashback, gode di qualche peculiare panoramica aerea e riesce almeno in un’occasione a cogliere di sorpresa lo spettatore (quando un’auto irrompe inaspettata nell’abitacolo della macchina dei due protagonisti in fuga). Anche il montaggio di Richard Francis-Bruce e la fotografia livida di Anastas N. Michos dimostrano l’impegno profuso per nobilitare inutilmente un soggetto da telefilm vestendolo con l’abito del grande cinema. Un vestito elegante e a tratti suadente che non riesce però a coprire il vuoto di idee in cui finisce per ammuffire il progetto.
VOTO: 4,5

Luca Baroncini de Gli Spietati