Recensione n.1
Per sempre Amélie
Non deve aver dormito sonni tranquilli Jean-Pierre Jeunet dopo il successo trionfale della sua Amélie. Con il nuovo una lunga domenica di passioni raccoglie capitale in America, conferma la sua eroina Audrey Tautou, ma cerca di abbandonare figurativamente un certo buonismo (stucchevole?) del film precedente. L’operazione riesce solo in parte. La vicenda segue Mathilde che non si rassegna a credere morto il proprio giovane fidanzato in trincea nella prima guerra mondiale. La protagonista (zoppa per una poliomielite giovanile) indaga. Raccoglie indizi interrogando preti e prostitute, militari e politici, spinta dalla speranza e dall’amore. Il lavoro più affascinante compiuto da Jeunet nella pellicola è anche quello che più lo distacca dalla fiaba Amélie, la ricostruzione realistica della guerra di trincea. Attraverso il consueto uso del digitale le scene di guerra sono fotografate con toni grigi e marroni, con una forte carica materica. Non vengono risparmiati dettagli di mani mozzate, esplosioni di corpi, ferite e grida in un universo di fango e pioggia. L’inferno delle trincee è vicino a quello descritto mirabilmente da Kubrick in orizzonti di gloria. Per contrasto la casa di Mathilde sembra uscita da una favola, immersa in una Bretagna dai colori pastello. Forse Audrey Tautou, secondo Jeunet, deve sempre essere Amélie, con il suo corollario di mossette e ammiccamenti. Così quando vediamo sulla scena Mathilde immaginiamo Amélie. In fondo anche le tecniche di narrazione sono simili alla pellicola precedente: la voce ossessiva fuori campo, il ricorso a giochi con le parole nei dialoghi interiori della protagonista. A complicare poi il puzzle si mette anche una non precisa scelta di registro narrativo in una sceneggiatura che continuamente deambula fra la detective story, la pellicola romantica e quella di guerra. In ogni caso è da apprezzare, anche se non riuscita pienamente, la scelta di distaccarsi da alcuni stereotipi del film precedente. Resteranno nella memoria alcune magnifiche scene di guerra figurativamente esaltanti. Per il resto, una lunga domenica di passioni, segue l’ondata francese di kolossal da esportazione come Il quinto elemento e Vidocq, con un occhio puntato sul mercato americano. Per Jean-Pierre Jeunet una pellicola interlocutoria.
Paolo Bronzetti
Recensione n.2
Il nuovo film di Jean-Pierre Jeunet, poeta contemporaneo dell’immagine, è un ibrido che funziona solo in parte. La storia di Mathilde, che comincia una ricerca apparentemente assurda del suo fidanzato caduto durante la guerra del ‘15-’18, è la storia di un amore, raccontato mescolando generi. L’ambientazione è quella di un film bellico (in questo, il nuovo Jeunet funziona perfettamente, nel suo rappresentare la guerra di trincea e gli orrori della corte marziale- ricordiamoci il Kubrick di Orizzonti di gloria), l’essenza è quella di un film d’amore, la struttura recupera quella del giallo. Le immagini, riprese dalla bellissima fotografia di Bruno Delbonnel, sono accompagnate dalla musica di Angelo Badalamenti, che si distrae un po’ e dimentica le torbide ossessioni lynchiane. Jeunet dà forma ad un film che riprende il linguaggio di Amèlie, ma che non trova una soluzione formale compiuta, poiché se nel precedente film del regista francese, il taglio quasi trasognato funzionava perché era sostenuto da una trama adeguata, l’idea di fondere la drammaticità e l’orrore della guerra con l’occhio ingenuo della discreta Audrey Tatou, rende il tutto un po’ forzato e artificioso. L’opposizione fra queste due sponde si risolve nel contrasto cromatico fra le scene di guerra (fotografia sporca, che dà su grigio) e quelle dove Mathilde è protagonista (i colori virano verso un giallo ocra splendido). Ma non solo, anche nelle parole: “la guerra non è mai leale”, “basta che non si mettano a giocare ai soldati”, sono frasi di chiaro stampo pacifista e antimilitarista, in linea con tutto il cinema sulla Prima Guerra Mondiale. Insomma, la morte è sempre dietro l’angolo.
È come vedere la guerra, la morte e i suoi orrori con gli occhi di un bambino che prende tutto per gioco (basti pensare al momento del ghigliottinamento). Jeunet ci sobbalza di qua e di là, ci dona momenti di ilarità poetica con altri di tragica sofferenza, senza mai trovare una sintesi hegeliana. Ma Una lunga domenica di passioni vanta qualche sequenza indimenticabile, come quelle al fronte, o quella dell’esplosione all’interno dell’ospedale.
Un po’ retorico nel finale e contorto nella parte centrale.
Andrea Fontana