Regia di John Maybury
con Adrien Brody, Keira Knightley, Kris Krisfferson

Recensione n.1

Jack è un reduce della guerra del Golfo, ritornato in patria dopo un ferimento che l’ha quasi ucciso. La sorte però è contro di lui: viene ingiustamente accusato di omicidio, e a causa di problemi d’amnesia è anche giudicato incapace di intendere e di volere e quindi rinchiuso in un manicomio. Qui viene trattato con droghe sperimentali, legato con una camicia di forza e chiuso dentro un cassetto da obitorio. Il trattamento gli procura sprazzi confusi di memoria e allucinazioni estremamente realisitiche che lo portano in una dimensione spazio-temporale lontana dal presente che gli consente di sapere qualcosa sulla fine a cui è destinato, ma anche di compiere un gesto importante nei confronti di alcune persone.
Il film di John Maybury, prodotto da George Clooney e Steven Soderbergh, s’insinua in un filone post-moderno che ha i suoi predecessori più illustri in Strade perdute di David Lynch e in Donnie Darko di Richard Kelly. Rispetto però a questi film, The Jacket, pur non fornendo spiegazioni all’illogicità degli eventi, conferisce loro una sorta di insolito realismo. Manca quindi al film il senso di confusione, suggerito invece dagli altri due titoli sopra citati. Questo può essere un pregio e un difetto allo stesso tempo. Indubbiamente, seguendo questa tendenza, ci si dovrebbe arruffianare più facilmente uno spettatore impreparato (e in sala lo erano praticamente tutti), ma di fatto The jacket lascia anche più amaro in bocca dei film di Lynch e Kelly. Inoltre il film crea anche molte aspettative “chiarificatrici”, almeno su alcuni punti, che rimangono inevitabilmente frustrate.
Il film convince molto di più nella prima parte, nella descrizione dell’ambiente in cui viene rinchiuso Jack e nel senso di agghiacciante impotenza e claustrofobia di cui diviene vittima il protagonista. Efficaci, soprattutto per l’uso di una luce essenziale e avvolgente, le riprese all’interno dei “cassetti”, in cui non stonano nemmeno gli abbondanti effetti speciali che portano il protagonista dentro le sue “allucinazioni”. Non sempre opportuna è invece la rappresentazione dell’altro tempo. Se si considera che questo secondo ambito temporale è inesistente rispetto al presente, è curioso che la realtà del 1992 sia molto più allucinata dell’irrealtà del futuro in cui Jack viaggia a caccia di informazioni su se stesso e sulla sua imminente fine.
Interessanti sono gli attori, particolarmente Adrien Brody (Jack) e Kris Kristofferson (il dottor Becker). Brody è fisicamente adatto a vestire i panni di personaggi provati e, grazie alla sua “concreta” discesa nell’assurdo, riesce a rendere plausibile nel personaggio la quasi totale assenza di paura nei confronti della propria morte. Sofferente e luciferina è invece l’interpretazione di Kristofferson, che col suo sguardo enigmatico rende il suo personaggio meno malvagio di quel che potrebbe sembrare ad un giudizio superficiale. Meno efficace è invece la presenza di Keira Knightley. L’attrice interpreta, nel futuro “visto/vissuto” da Jack, la versione adulta di una ragazzina incontrata casualmene nel 1992. Il personaggio ha un aspetto dark e, anche in questo caso, vagamente sofferente e un po’ disilluso, ma il tutto presenta una maggior routine rispetto alle interpretazioni di Brody e Kristofferson.
The jacket è, nell’insieme, un film non efficacissimo, che anziché premere potentemente sul pedale dell’assurdo, preferisce rilassarsi inadeguatamente su un mancato equilibrio tra convenzionalità e sperimentalismo narrativo. Indubbiamente il film non manca di trasmettere qualche piccola angoscia, ma la conclusione apparentemente positiva finisce col creare e accentuare squilibri inadeguati ad una storia che poteva davvero osare di più.

Sergio Gatti

Recensione n.2

Dopo essere stato ferito alla testa durante la prima guerra del Golfo, Jack Starks soffre di un grave amnesia, che lo porta in un manicomio, dove subirà esperimenti illegali.
Il film di John Maybury ha spaccato la critica: Giulia D’Agnolo Vallan di Ciak lo odia (senza addurre alcuna giustificazione degna di questo nome, peraltro), Roberto Nepoti di La Repubblica lo ama. La mia impressione è che entrambi, come al solito, si sono lasciati trasportare da un’ideologia politica che imperversa oggi, specialmente in Italia, che funge da carta d’identità, dimenticando come il cinema debba essere al di fuori delle parti, per lo meno nel giudizio di un film. In The Jacket ci sono palesi riferimenti all’attuale guerra in Iraq (perché la guerra non è mai finita), con prese di posizione anti-Bush (c’è una frase, ad incipit, dello stesso Brody/soldato: “Niente è affare nostro qui [in Iraq, nda]”), sottilmente velate e per nulla urlate. Ma questa è una chiave di lettura forzata, e noiosamente politica, che impoverisce il film del suo reale valore. Il film di Maybury è un buon film. Conta una recitazione attoriale di alto livello, in cui spicca il sempre bravo Adrien Brody, un inedito Kris Kristofferson e una Kira Kneightley alla sua migliore performance. La regia non è virtuosa, piuttosto “classica” nei movimenti, ma sfrutta un montaggio un po’ videoclip, veloce a lancinante, che però risulta decisamente funzionale. La musica, per lo più elettronica, è di Brian Eno, che ben esalta le atmosfere nevrotiche create dal regista. La storia sa un po’ di già visto, basti pensare ai debiti che ha con il Gilliam di L’esercito delle 12 scimmie (il manicomio, i viaggi nel tempo, l’amore impossibile); si ricalcano gli stereotipi del genere, ma senza esagerare. D’altronde l’obiettivo del film non è quello di imporsi come rivelazione dell’anno, come capolavoro assoluto del cinema contemporaneo, ma come semplice opera di intrattenimento, con elementi concettuali interessanti e non superficiali. Il primo tempo avvince, nel suo giocare con il vero e il sogno, con il reale e le immagini distorte della mente, e vanta una sequenza tra le più angoscianti degli ultimi anni (la prima volta che Brody subisce l’esperimento); il secondo cambia tono e prospettiva, assestandosi dalle parti del thriller tradizionale. Il risultato finale non dispiace, lascia quel tanto di malinconia in fondo al cuore che non guasta, perché The Jacket affronta un discorso che riguarda un po’ tutti, ossia il tempo come elemento intangibile, come testimone del nostro invecchiare, come accusatore del nostro essere indifferenti, del non approfittare degli eventi. Verso la fine del film si dice: “Quando si muore c’è solo una cosa che si vorrebbe: tornare indietro”. È questo che spiega quel “Quanto tempo abbiamo?” finale, poiché è una frase che ci si deve fare sempre, in continuazione, per non veder dissolvere le cose più care, i momenti più belli, per poter sfruttare ogni momento di quella cosa affascinante ed evanescente che chiamiamo vita.
VOTO: 7 ½

Andrea Fontana

Recensione n.3

Ancora una sciocchezza dagli U.S.A. vestita a festa per attrarre il pubblico globale: sforzi economici di piu’ paesi, storia thriller dalle possibili venature horror, interpreti glamour e quel tanto d’attualita’ che non guasta. Eppure l’unione delle forze produce un risultato privo di interesse, impersonale nella confezione e pessimo negli sviluppi. Si comincia senza troppi preamboli con il protagonista che muore confessando al pubblico “avevo 27 anni la prima volta che sono morto”. Dal prologo-trailer si passa a un eterno videoclip in cui e’ un continuo entrare e uscire da una cella frigorifera andando avanti e indietro nel tempo. Si pensa alla routinaria presentazione caotica di personaggi e situazioni per poi trovare un filo narrativo in grado di dare ordine, o perlomeno fascino, alla scansione degli eventi, invece i minuti si succedono paradossalmente lenti mentre il racconto corre a perdifiato. Lo spettatore finisce cosi’ per essere sballottato tra il 1992 e il 2007 senza un degno motivo. Il ritmo incalza, succedono un sacco di cose, tutte improbabili (dai metodi curativi di uno scienziato da fumetto alla appiccicata liason tra i due protagonisti), ma scarseggia il collante di un copione in grado di distribuire ruoli intensi e snodi narrativi ben congegnati. Ad ispirare l’azione pare essere unicamente il riciclo nella variante scopiazzatura (per una volta, grazie al cielo, niente citazioni): da “L’esercito delle 12 scimmie” a “Butterfly effect”, non dimenticando “Memento” e ricalcando soprattutto il bellissimo “Allucinazione perversa” di Adrian Lyne. Ma le implicazioni politiche (gli esperimenti dell’esercito durante la guerra del Golfo) restano un mero pretesto, i personaggi di contorno un puro riempitivo e la ragione per cui tutto accade l’unico mistero degno di menzione. Il punto piu’ basso e’ di sicuro l’ennesima rappresentazione della pazzia attraverso tic e nevrosi tutte hollywoodiane (terribile la “maniera” della sequenza in cui la riunione dei matti sfocia nella rissa); l’aspetto migliore l’interpretazione degli attori, un po’ carichi ma comunque convinti: da Adrien Brody alla graziosa Kira Knightley (anche se non basta bere e fumare in continuazione per conquistare il titolo di reginetta dark), non dimenticando la faccia da sequoia di Kris Kristofferson. A garanzia dell’anonimato, la fotografia desaturata di Peter Deming, il montaggio frenetico di Emma E. Hickox e alcune scelte opinabili di regia, come il passaggio tra realta’ differenti attraverso la prolungata alternanza di fotogrammi colorati. Uno stratagemma vuoto di contenuto, povero nell’effetto e datato anche per un episodio di “Spazio 1999”. Nella pura superficie in cui tutto accade si invoca il rapido giungere della conclusione, che arriva con il chiaro intento di spiazzare ma priva di effettivo stupore. Nonostante infatti la seconda parte abbia comunque maggiore mordente, e’ tutto troppo approssimativo e gratuito per coinvolgere davvero. Nella miriade di domande senza risposta mosse dalla visione, una si affaccia con prepotenza: perche’ nei vari passaggi temporali nessuno pare riconoscere il protagonista? Ma, soprattutto, perche’?

Luca Baroncini (da www.spietati.it)

Recensione n.4

Alzi la mano chi non subisce il fascino dei paradossi temporali! Come?? Tu hai alzato la mano??? …bene, ora tornerò indietro nel tempo e sferrerò un calcio secco sui maroni di tuo padre prima che i suoi spermatozoi possano fare danni, così poi vedremo chi alzerà ancora il braccino…

Ecco, quello era un paradosso temporale. Più o meno.

Bisogna riconoscere che lo spettatore questo “più o meno” lo deve sempre accettare quando è intento a seguire un racconto di viaggi nel tempo; tutti, ma proprio tutti, vanno a finire lì, nello stesso identico punto. Oltre non vado perché si è a rischio di spoiler, in ogni caso chi ha dimestichezza dei vari “Ritorno al futuro” o delle sue più attuali filiazioni, come “The Butterfly Effect”, avrà già capito. L’unica differenza con i film di qualche anno fa, nei quali era la tecnologia ad aiutare i salti temporali, è che recentemente le pellicole presentano gente mentalmente instabile che riesce a fare la stessa cosa fissando foto o restando rinchiusa in angusti loculi. Se non altro costa meno, un po’ come prenotare l’aereo in un’agenzia viaggi oppure su Internet…

“The Jacket”, però, vuole essere un prodotto non solo d’intrattenimento, ma anche un po’… “autoriale”, se mi si passa il termine (sì che mi si passa, l’ho messo tra virgolette apposta!); forse sarà per la produzione di Steven Soderbergh & George Clooney, ma la differenza con i film precedenti la si nota, nel bene e nel male. Per nostra fortuna la scelta degli attori è caduta sul “naso con attaccato un bravo attore”, cioè Adrien Brody e su “la sempre più graziosa, ma dopo Natalie Portman (si assomigliano molto, vedere “Star Wars – La minaccia fantasma” nel quale film si scambiavano i ruoli)” Keira Knightley: sono entrambi bravi e convincenti nei rispettivi ruoli e Brody, pur non essendo certo un figaccione come il suo produttore (non Soderbergh, l’altro, il Principe del Lago di Como…), ha un fascino molto particolare che ci porta subito a fare il tifo per lui.

La morale del film:

se hai una Beetle Volkswagen la tua vita dev’essere per forza migliore.

Nota per i Voyeur:

Keira, ad un certo punto, mostra fugacemente il proprio seno. Ma ne ho decisamente più io, perciò, se v’interessa, scrivetemi che vi comunico le mie coordinate bancarie per un bonifico; seguirà foto autografata.

Sito del film:

www.thejacket.it

BenSG – dal buio del suo (lo)culo