“IN VINO VERITAS”
Considerato, a ragione, uno dei piu’ talentuosi autori della sua generazione (ha poco piu’ di quarant’anni), Alexander Payne torna a immergersi in una quotidianita’ poco appariscente. Il suo e’ un cinema di facce come tante altre, di scelte raramente vincenti, di pulsioni umanissime. Nelle sue sceneggiature, sem re calibrate e mai eccessive, i personaggi mettono in comune con lo spettatore un pezzo della loro esistenza e non si percepisce mai, nella fine scrittura, il senso fastidioso dell’indottrinamento. Nell’on-the-road tra Miles, scrittore frustrato appena uscito da un divorzio doloroso, e Jack, attore di effimero successo giunto a un passo dall’altare, ci sono
dialoghi belli ma non risolutivi. Manca la fregola della frase ad effetto, quella memorabile per la capacita’ di riassumere, con brillante sintesi ma poca aderenza al reale, un concetto in uno slogan. E non c’e’ nemmeno il classico percorso a ostacoli prima della presa di coscienza definitiva. Miracolosamente, infatti, il viaggio insieme riporta i due protagonisti al punto di partenza: dopo una settimana tra i vigneti della California, a degustare vini sofisticati, non sono diversi, ma sempre gli stessi, solo con un bagaglio di esperienza in piu’. Un pezzettino di vita con le sue accelerazioni, le curve e le brusche frenate. Il copione, sicuramente la cosa migliore del film, riesce con ironia e sensibilita’ – oltre a un riconoscibile cinismo di fondo (meno accentuato, pero’, rispetto ad “A proposito di Schmidt” e, oprattutto, “Election”) – a dare consistenza ai personaggi, donando loro una verita’ profonda e toccante. Si sorride, qualche volta si ride e ci si lascia stropicciare dalle pieghe di due vite lontane dai superlativi. Gli stereotipi sono nell’aria, a partire dai due protagonisti caratterialmente complementari, ma Payne riesce quasi sempre a evitarli, consentendo ai personaggi di non trovare facile rifugio in un unico aggettivo. Il racconto parla dell’amicizia, quando l’affe to ha s stituito la complicita’, del rapporto con i genitori, dell’amore nelle sue molteplici incarnazioni e della difficolta’ di sollevarsi da un torpore distruttivo. Ma sempre senza urlare, lasciando che siano gli eventi a indurre alla riflessione e mai il contrario. Gran parte del merito e’ anche degli interpreti: un perfetto Paul Giamatti, da parecchio tempo ai margini dello star system e finalmente in un ruolo in grado di riconoscergli le non comuni doti recitative, e Thomas Haden Church, che ha il grande difetto di assomigliare tremendamente ad Arnold Schwarzenegger e il pregio di non averne l’inespressivita’. Fa inoltre piacere incontrare nuovamente Virginia Madsen, promessa star negli anni ottanta e troppo in fretta dimenticata. Dopo un inizio in sordina, il lungometraggio riesce a prendere corpo e a farsi largo nelle emozioni dello spettatore, fino a un finale incisivo che pone l’accento su cio’ che conta. E il retrogusto, proprio come un vino di qualita’, ha un aroma persistente. Peccato solo per la patina “Sundance” (la scialba fotografia con eccesso di controluce) che rischia, grazie al cielo senza riuscirci, di vestire il film con l’abito dell’operina indipendente di maniera.
VOTO: 7,5

Luca Baroncini de Gli Spietati