Regia: Omar Naim
Sceneggiatura: Omar Naim
Fotografia: Tak Fujimoto
Montaggio: Dede Allen, Robert Brakey
Musica: Brian Tyler
Interpreti principali: Robin Williams, Mira Sorvino, James Caviezel
Produzione: Lions Gate Films, Final Cut Productions, Cinerenta Medienbeteiligungs, Industry Entertainment
Distribuzione: Eagle Pictures
Origine : Canada / Germania, 2004
Durata: 105’ Colore

Alan Hackman è il miglior montatore di “Rememory”, un genere di ‘chip’ inventati dall’industria Zoe Tech che permettono di mostrare ai cari del defunto una sequela di immagini che lo ricordano. Alan vive una vita alienante, il suo lavoro lo assorbe completamente, e cerca in ogni modo di non farsi coinvolgere da ciò che vede. Fino al giorno in cui, mentre sta rimontando la memoria di un alto funzionario della Zoe Tech, scopre un’immagine della propria infanzia che lo perseguita da sempre…
Il montaggio è la capacità di sintesi, è la scrittura per immagini, è l’arte invisibile. Ma il montaggio è anche molto di più: è lo strumento che permette di manipolare la realtà e che permette di mostrare attraverso sequenze di immagini soltanto ciò che si vuol mostrare. Così nella realtà visiva (quella che riguarda film e video) il montatore si eleva a divinità, diviene l’occhio che osserva tutto e che filtra le immagini attraverso il proprio sguardo, diviene possibilità di deformazione del reale. Quando le possibilità del montaggio si scontrano con una realtà tecnologica avanzata, deformare la realtà può essere molto pericoloso. E’ questo l’originale input che propone Omar Naim con il suo The Final Cut (titolo che non a caso ha il nome di un noto programma di montaggio). Tecnologia impiantata nel corpo umano che registra ogni attimo della nostra vita, dalla nascita sino alla morte. Le immagini della nostra vita scorrono attraverso ciò che noi abbiamo visto, attraverso le esperienze che abbiamo vissuto e le persone che abbiamo incontrato.
Ma è giusto togliere all’uomo la possibilità di ricordare, anche a modo suo, le proprie esperienze? E’ giusto rendere partecipi della propria intimità tutte le persone che assistono ad un patetico rememory per ricordare il defunto? E’ un problema vecchio, quello del rapporto tra modernità e tecnologia. Un problema che è stato affrontato con originalità, nel bene e nel male. Omar Naim trova un input assolutamente originale, e in modo altrettanto originale lo getta via.
Alan Hackman (Robin Williams) è un montatore che offre ai cari il ricordo falsato della vita del singolo defunto, un montaggio che elimina ogni neo, ogni impurità, ogni verità, anche la più scomoda. E’ il piacere di voler ricordare soltanto i momenti belli e allo stesso tempo richiamare quello che normalmente si fa, e cioè il non ricordo di tutto ciò che di brutto appartiene alla vita di un defunto. Santificare il morto è qualcosa di antico, ma la tecnologia permette ora di farlo in maniera plateale e del tutto nuova. E allora le sequenze iniziali mettono in discussione il rapporto con la memoria, quella più tradizionale, di coloro che rifiutano una tecnologia spietata e che non rispecchia la realtà. Al contempo è un’ottima confezione che a livello visivo gioca con il montaggio, ripescando tecniche video anni ottanta oggi in disuso, come l’uso di finestre.

Poi improvvisamente Omar Naim lascia la sceneggiatura a metà e va a prendere un caffè.
Il film non sa da che parte pendere. Potrebbe diventare un thriller, invece cerca un goffo risvolto drammatico e struggente. Pretende di divenire sperimentale dopo aver inserito nell’impasto una serie di ingredienti tipicamente hollywoodiani. La storia si ferma in un ricordo sbiadito dell’infanzia di Alan, in una storia d’amore conclusa a metà con Delila (Mira Sorvino), in una scontata rivalità con Fletcher (James Caveziel). I personaggi vanno in crisi perché forse risentono della crisi del regista. Lo spettatore si muove dalla sedia, è stanco, non capisce cosa stia passando per la testa di un “artista” impazzito.
Il film si spegne lentamente, nella maniera più scialba e insulsa, e non ha neanche la capacità di lasciare l’amaro in bocca perché lo spettatore non è riuscito sentire sapori.
Se The final cut voleva essere un film sperimentale non è dato saperlo, ma è certo che l’arte del montaggio questa volta avrebbe dovuto tagliare fuori dal film il regista stesso. Voto: 3

Endrio Martufi