Regia di Gus Van Sant
con Michale Pitt, Lukas Haas, Asia Argento, Harmony Korine
Recensione n.1
Last days racconta gli ultimi giorni di vita della rockstar Blake. Egli passa il tempo in una vecchia villa decadente fuori città, con lui ci sono due amici anch’essi musicisti e due ragazze; altre persone entrano ed escono dalla casa, ma è soprattutto Blake a girovagare dentro e fuori seguendo l’istinto distruttivo di un misterioso male di vivere che lo conduce in breve alla morte.
Sulla scia di Elephant (anche se qui il regista ricorre meno alle sperimentazioni temporali e quasi per niente a quelle visive), Gus Van Sant torna ancora una volta con un film non conciliante, con una storia di disperazione interiore a cui fa da perfetto contraltare la decadenza della villa, l’indifferenza della natura e un interessante uso del sonoro in cui i suoni, non diegetici alla scena, è come se ci introducessero nella depressa e dissennata mente di Blake.
Anche se il film è meno incisivo e sorprendente di Elephant, ad ogni modo il regista raggiunge, con la sua scelta stilistica, il proprio scopo. La normalità circostante (quella reale dell’ambiente naturale e quella apparente degli amici di Blake, non meno “fatti” di lui) è un continuo contraltare motivante del disagio del protagonista. C’è tanta indifferenza intorno a lui: chi ha bisogno di Blake in fondo lo cerca solo per ragioni professionali, e anche l’accenno a sua figlia, unica nota che potrebbe donargli un po’ di serenità, in pratica non serve a nulla. Le persone che condividono con lui la casa non fanno minimamente caso alla sua condizioni (e, anzi, a morte avvenuta, se ne lavano le mani) e l’indirivieni di sconosciuti all’interno della magione non denota minore indifferenza. Insomma, se Montale spesso il male di vivere ha incontrato, Blake ce l’ha continuamente sotto gli occhi.
Lo stile visivo parco, con riprese lunghe e scarsi movimenti di macchina, unito alla piccola sperimentazione sonora, fanno sì che il film stesso si ammanti di quell’apatia di cui è affetto forse lo stesso Blake. Tuttavia, benché Last days non conceda nulla sul piano spettacolare, non mancano nel film scene di sicura bellezza. È il caso della scena in cui Blake è solo nella stanza degli strumenti musicali e noi spettatori vediamo quello che suona restando fuori dalla stanza (e dalla casa), mentre la musica cresce creando una sorta di brano, forse improvvisato, eppure molto coinvolgente e simbolico dello stato mentale confuso di Blake. Analogamente va ricordata la scena in cui si vede Blake morto, ancora una volta con la macchina da presa all’esterno: un corpo esanime da cui ad un certo punto si stacca un’anima nuda e, in qualche modo, vitale.
Nota di merito all’attore Michael Pitt, perfettamente calato nella parte di Blake.
Last days, che si ispira in qualche modo alla fine di Kurt Cobain, pur non raccontandola affatto, è un film di indubbio spessore. Certamente difficile, non per tutti i gusti, ma nemmeno così radicale da non poter essere in qualche modo apprezzato anche da un neofita del cinema più personale di Gus Van Sant.
Sergio Gatti
Recensione n.2
Last Days rievoca delle immagini bibliche, delle immagini di resurrezione dal dolore, di espiazione di una colpa collettiva. Gus Van Sant descrive il dolore umano, il singolo incompreso malessere interiore facendo parlare le immagini, rilegando le parole in secondo piano in perfetto stile cinematografico.
Il film sembra attraversato continuamente da una linea rossa di tensione, da uno spazio neutro tra le immagini e la visione che permette di riconoscere l’isolamento e la solitudine e di capire cosa deve essere davvero finirci dentro.
Possiamo dividere il film in tre fasi: la prima che culmina nel primo festino organizzato dagli amici-fantasmi di Blake (lo pseudonimo di Cobain, che ovviamente non partecipa a quest’ultimo) che con la musica dei Velvet Underground iniziano a danzare in piena notte nella tetra casa nel bosco dove è ambientato pressoché tutto il film; la seconda parte che culmina nel momento delirante e forse più emozionante di tutto il film in cui, da una inquadratura distante dalla finestra attraverso i cui vetri vediamo muoversi la figura di Cobain, Blake crea da solo un pezzo musicale, inizia con la chitarra poi canto poi passa alla batteria ed i suoni sembrano armonizzarsi e non interrompersi nel silenzio ossessivo del bosco fuori. La terza ed ultima parte inizia con l’ultimo pezzo suonato dal ragazzo biondo, lento solo voce e chitarra, e termina con lo spettro del suo corpo nudo che vola via dalla silhouette del suo corpo naturale, e non privato, steso a terra inerme. Tutte e tre le parti fino all’epilogo sono solo immagini con splendida fotografia di un corpo che si aggira nei sentieri dell’animo umano, profondi ignoti ed inesprimibili se non attraverso il buio e la luce, ed un grido strozzato.
In tutto il film solo la Natura partecipa del dolore della solitudine, il protagonista ha raggiunto una tale armonia con la sua esistenza che i monologhi interiori sembrano preannunciare la totale libertà nella scelta compiuta e che inevitabilmente porterà ad una fine annunciata.
Entrare nello spaccato di un siffatto dramma ha permesso al regista anche uno sguardo sulle ansie giovanili, sull’abbandonarsi ad una esistenza in cui le risposte rimangono vaghe ed indefinite, sulla ricerca spasmodica di ogni forma di libertà e spontaneità da parte dei ragazzi; con impliciti riferimenti alla società del consumo, al successo mediatico, ai valori dell’irrazionale individualismo nella civiltà del benessere, e delle merci immateriali.
Rimane un ragazzo che è stato lasciato solo, che non ha nessuno che gli parli, così incompreso che gli altri temono di infastidirlo se gli parlano o provano a non perderlo d’occhio, le cui frasi sono solo rivolte ad aspetti esistenziali completamente fuori senso, tipo gli si avvicina un “amico” solo per chiedergli il parere rispetto all’urgenza di aver un condizionatore di aria calda nella casa-castello tetra e dimenticata, ed evidentemente fredda.
Rimane sullo sfondo la visionaria metafora della piccola casetta, di fronte alla grande dimora, con gli attrezzi da giardino, dove l’angosciata Rock-Star va a stendersi prima dell’ultimo monologo interiore…come nella piccola casetta di fronte alla propria casa natia a Seattle.
Vito Lopriore