di Sydney Pollack
con Nicole Kidman, Sean Penn, Catherine Keener

Recensione n.1

Voto (da 1 a 5): ***

Se la definizione di “regista classico” attribuita a Clint Eastwood ogni qualvolta esce un suo film è, appunto, così abusata, cosa dovremmo dire di Sydney Pollack?

PIPPONE ANALITICO:

“The interpreter” è il “classico” film di Pollack e già qui ci sarebbe di che parlare: questo mai troppo acclamato regista hollywoodiano non è ancora assurto alla gloria come altri suoi ben più acclamati colleghi (per lo più defunti, in effetti…), probabilmente per la sua ecletticità, per la sua coraggiosa scelta di spaziare tra i generi, magari rivisitandoli in chiave “umanitaria”. Tralasciando ulteriori approfondimenti, che equivarrebbero ad una tesina sul nostro, basti dire che i suoi sono lavori sui personaggi, più che sulle storie; Pollack sta addosso ai suoi attori-personaggi, non li lascia nemmeno un istante, studia a fondo il loro animo, lo analizza, allo scopo di evitare una bidimensionalità (quando va bene) tipica della maggior parte delle pellicole alle quali ormai siamo abituati. Ecco, forse anche questo significa, in un certo qual modo, essere un “regista classico”. Naturalmente c’è anche il rovescio della medaglia: il pubblico, ormai abituato più all’azione che ad altro, da un film come “The interpreter” non si aspetta certo tutta questa introspezione da parte dei protagonisti, scambiando questa anomalia per… “lentezza”.

DA TENERE:

Gli attori, indubbiamente. Ma come dimenticare la costruzione millimetrica della tensione nella scena clou del film, cioè quella dell’autobus?

DA BUTTARE:

Va bene, come dicevo nel pippone sopra il film gode di una direzione “classica”, ma anche “I tre giorni del Condor” (dello stesso genere e dello stesso regista) lo era, solo che i tempi erano altri: insomma, ciò che voglio dire è che la regia è ottima, gli attori pure, la sceneggiatura idem, ma che col soggetto qualche cosa in più si sarebbe potuta fare.

CONSIDERAZIONE FINALE:

Se siete amanti di un cinema che, purtroppo, non c’è più, se non bramate un colpo di scena ogni cinque minuti, se non siete ormai assuefatti alle sparatorie e alle esplosioni senza senso a tutti i costi, beh, questo è il film che fa per voi: una buona pellicola, anche se non propriamente eccelsa.

BenSG
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Recensione n.2

La solida regia di Sydney Pollack sostiene un thriller che, pur nei limiti di una narrazione non sempre equilibrata, prova a coniugare le ragioni del pubblico (azione e svago) con quelle dell’impegno (un messaggio all’insegna della fratellanza e dell’arricchimento tra culture diverse). Non è un caso che per la prima volta l’O.N.U. abbia concesso la propria sede a una fiction, vista la promozione all’efficienza e all’importanza internazionale delle Nazioni Unite portata avanti dal regista americano con discrezione e piglio quasi documentaristico. La spettacolarità dell’impianto trova nello scavo psicologico dei personaggi un riuscito contrappunto. Certo, l’agente federale fresco di trauma non è il massimo dell’originalità, ma perlomeno consente a Sean Penn di evitare gli eccessi da rockstar che lo hanno reso celebre e di giocare di sottrazione. Cosa che riesce benissimo anche a Nicole Kidman, ancora una volta perfetta nella misura con cui rafforza la sofferenza del suo personaggio. Il confronto tra i due, il dolore comune che li rende simili nella diversità, la tenerezza di un rapporto che non scade mai in un facile sentimentalismo, ammantano di verità il racconto, almeno fino a quando le ragioni dell’intreccio vagano nell’incertezza. La necessaria resa dei conti, infatti, pur supportata con vigore da Pollack, lascia più di un conto in sospeso con la logica. Cosa che peraltro avviene anche in altre sequenze (l’attentato sul bus a Brooklyn, i ripetuti agguati casalinghi, la stessa “soffiata” iniziale su cui si basa il film), efficaci nella resa visiva, meno verosimili tenendo conto delle motivazioni dei personaggi e delle informazioni in loro possesso. La sensazione, che non nuoce all’intrattenimento ma ne limita la portata, è di una sceneggiatura che insegue l’accumulo, gioca con il mistero, ma finisce per lasciare più confusi che appagati. Merito comunque a Pollack di avere evitato l’abusata commistione di effetti speciali digitali, inseguimenti rocamboleschi e azione a più non posso, e di essere rimasto fedele a un modo personale, in fondo tradizionale, di fare cinema, in cui la tensione deriva dalla padronanza del mezzo cinematografico e dalla non scontata capacità di valorizzare l’alchimia di personaggi e interpreti. Il messaggio pacifista non guasta, ma non aggiunge molto al buon senso e a quanto già detto in merito.

Luca Baroncini de Gli Spietati