Recensione n.1

Chi come me si era emozionato molto vedendo Dogville non poteva fare a meno di vedere il secondo capitolo della “trilogia americana” di Lars Von Trier.
Manderlay come Dogville ci ripropone il gusto paradossale e logico del cinema del grande cineasta danese. Le sue riflessioni sulla società, il mondo, la Storia, sono improntante ad una sorta di “pessimismo ineluttabile”. Ciò che capita è solo ciò che può e deve capitare perché l’ordine (e il disordine) portano a delle conseguenze inevitabili, che sono tali proprio perché dettate da circostanze, giuste o no che siano, immodificabili.
In Dogville, la protagonista Grace credeva in una comunità regolata da buoni valori, da accoglienza, civismo, ma, ben presto, la naturale propensione al male delle persone ha la meglio e si accanisce di più su quelli che fanno della disponibilità e dei valori civili la loro bandiera, finché la vittima si trasforma in carnefice.
In Manderlay il presupposto è lo stesso. Grace decide di sostare in una comunità regolata da rigidi codici razzisti, ma le leggi che segregano i neri sono decadute. Grace si fa quindi paladina di una rinnovata comunità agricola dedita alla coltivazione del cotone che viene iniziata ai valori della libertà, della doviziosa iniziativa e della democrazia, ma in modo inaspettato dovrà rendersi conto duramente che questi valori, se non sono supportati da adeguati anticorpi e strutture interiori, non generano gli effetti sperati. Il padre gangster è il primo a “capire”, ricordando a Grace, quando bambina liberò un uccellino che teneva in gabbia, ma il volatile della libertà non sapeva che farsene e molto volentieri sarebbe rimasto nelle “sbarre” perché è lì che aveva sempre vissuto; infatti, non appena fu costretto a lasciare la sua “casa” morì stecchito dal freddo e dagli stenti.
Lars Von Trier, da grande autore qual è, ci ricorda che aldilà del facile buonismo, la libertà e la democrazia sono valori, che per attecchire necessitano di un terreno ben arato.
E’ poi anche vero che i neri d’america sono stati “creati dagli americani”, come ricorda il film fino ad una delle ultime battute sarcastiche finali. Gli americani hanno generato i “neri d’america”, nel male, e poi nel bene con la crescente integrazione della gente di colore nel tessuto sociale e produttivo degli Stati Uniti. Negli States c’è ancora molto razzismo, ma è innegabile che in larghe fasce della popolazione sono stati fatti progressi enormi. Ed è certo che nessun nero americano se tornasse in Africa si sentirebbe a casa sua!
La cosa che riesce al maestro danese è rendere la narrazione forte e verosimile utilizzando scenografie volutamente simboliche. Un cinema non artefatto nei movimenti di camera e nella recitazione, che vuole ostentare la finzione delle sue scenografie risultando tremendamente profondo e potente.
Io direi che è un’opera non pessimista nella sua visione, ma bensì realista e non depressiva.
Tra i film recentemente usciti anche “Dear Wendy” di Vinterberg (con sceneggiatura dello stesso Lars Von Trier) ci propone una riflessione sulle origini dell’america.
Con la dovute eccezioni e con la complessità che hanno caratterizzato le origini degli Stati Uniti, è giusto dire che gli americani non sono solo quelli che nel mondo di origine hanno sognato un nuovo mondo o si sono trovati nella necessità di sperare in un nuovo mondo perché quello di origine era insoddisfacente, edificando quindi un’altra nazione; gli americani sono anche coloro che questa nazione l’hanno edificata perché costretti o vi si sono trovati contro la loro volontà….ma se ci si pensa bene queste due americhe, che oggi sono una, hanno in comune tanto: a parte i proprietari terrieri e le persone che gestivano rapporti con i grandi interessi che garantivano profitti all’occidente europeo, questi due mondi avevano in comune di non far parte radicalmente del mondo ricco e agiato. Non è poco.

Gino Pitaro newfilm@interfree.it

Recensione n.2

In concorso a Cannes 2005.
Dopo Dogville, dove attraverso le storie di Grace e suo padre, si analizzavano i temi dell’ipocrisia, del perdono, dell’arroganza e della violenza, ora con Manderlay, in una sorta di prequel, il regista esplora il razzismo nell’America del sud degli anni ’30. Entrambe le pellicole sono attraversate da un unico filo conduttore: l’evoluzione della personalità della protagonista Grace a cui prestava il volto una splendida Nicole Kidman che a causa di alcuni diverbi con l’ormai temuto Lars Von Trier, ha deciso di non partecipare alle pellicole successive, sarà sostituita da una nuova leva del cinema americano, la “capuccetto rosso”, per via dei suoi capelli, Bryce Dallas Howard già apparsa in due pellicole del pluripremiato papà Ron Howard e nel thriller “The Village” dove la vedevamo nei panni di una tenera ragazza pronta a sfidare le forze del male pur di salvare il suo amato Joaquin Phoenix.
La scelta è stata motivata in quanto la giovane Bryce, come sostiene Lars, “ha una personalità radiosa e prevedo per lei un grande avvenire”.
Le riprese si sono svolte, come per Dogville, negli studi di Trollhattan in Svezia dove è stata ricreata la scarna scenografia “che questa volta non sarà disegnata con strisce bianche sul pavimento nero ma al contrario con strisce nere su fondo bianco, in perfetta sintonia con i dettami del cinema-fusionale di Lars” come ha dichiarato la produttrice Vibeke Winderlov e a proposito di produzione, Manderlay, è una coproduzione tra Francia, Svezia, Germania, Inghilterra e Olanda, tutte nazioni, che hanno offerto al film un budget di 86 milioni di corone circa 11 milioni di euro, speriamo che questi spiccioli siano sufficienti anche per sostenere le spese legali necessarie per difendere Lars Von Trier dalle numerose persone del cast e non solo che pochi giorni dopo l’inizio delle riprese hanno deciso di denunciarlo o accusarlo di violenza sugli animali e sugli attori, scegliete voi se ci sia differenza tra le due categorie, e di non ottemperanza agli obblighi contrattuali avendo, nel secondo caso, già licenziato parte degli interpreti.

Valentina Castellani

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