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Centraldocinema in diretta

dal Lido di Venezia

(2015)

vi seguiamo giorno per giorno durante il festival

con recensioni e commenti

di Luca Baroncini

Continua l’ormai classico appuntamento di Centraldocinema con il festival più famoso d’Italia. Anche quest’anno, infatti, cercheremo di mantenervi aggiornati su quello che succede al Lido negli unici dieci giorni in cui il Lido è al centro del mondo, perlomeno quello cinematografico.

Quest’anno soffia un vento calmo, molto calmo, troppo calmo. Il programma non sembra fare scintille, venire a Venezia costa parecchio e rischiano di essere più appetibili altre vetrine, come Toronto, che sovrapponendosi in parte a Venezia finiscono per schiacciarlo. Pensiamo a un film americano in concorso, tipo Birdman l’anno scorso: ha aperto il festival, è piaciucchiato, ma in tanti hanno storto il naso, e alla fine è uscito dalla competizione a mani vuote, senza nemmeno alcuni premi che parevano evidenti (tra gli interpreti c’era da tirare a sorte). Poi alla fine ha vinto quattro Oscar, i più importanti, su nove candidature. Non che l’Oscar sia sempre e comunque indice di suprema qualità, però non è nemmeno da sottovalutare. Come dire, Barbera ha visto giusto selezionandolo, ma la giuria, presieduta da Alexandre Desplat, si è lasciata un po’ intimidire dal ruolo ricoperto e alla fine ha premiato Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza (En duva satt på en gren och funderade på tillvaron) di Roy Andersson, che non è male ma nemmeno così eccezionale, e per la Coppa Volpi si è optato per Adam Driver e Alba Rohrwacher per Hungry Hearts, che sono intepreti adeguati, ma non lasceranno particolare traccia nell’immaginario con la loro prova, come nemmeno il film, pur interessante, di cui sono protagonisti. Forse un po’ più di coraggio da parte della Giuria avrebbe consentito di riconoscere le cose per ciò che sono e non per ciò che rappresentano. Tornando a bomba, tutto questo sermone per dire che sì, Venezia è ancora prestigiosa, ma se continua a tirarsela finirà per perdere quella credibilità conquistata in 70 e passa edizioni.

Detto questo, vediamo che succederà in questo 2015 che si preannuncia pacato, molto pacato, troppo pacato…l’ho già detto?

i primi giorni (da mercoledì 2 a giovedì 3 settembre)

La prima vera novità è rappresentata dallo slittamento in avanti di una settimana. Poteva essere l’occasione per evitare la sovrapposizione con Toronto, anche lui slittato avanti di una settimana, invece, probabilmente per favorire quei giornalisti che da Venezia vanno direttamente in Canada, anche al Lido si sono spostate le date del festival. E così anche quest’anno uno dei ritornelli ricorrenti a metà della prossima settimana sarà: “Ecco, guarda che deserto, sono già andati tutti a Toronto!

La seconda novità, che poi non è una novità, è la nuova madrina. Quest’anno ad aprire e chiudere le danze è Elisa Sednaoui. Per capire chi sia e cosa diavolo ci faccia al festival di Venezia anche ho dovuto consultare Wikipedia:

Elisa Sednaoui nasce a Savigliano da madre italiana e padre egiziano; appena nata si trasferisce coi genitori in Egitto, dove vive i suoi primi anni fra Il Cairo e Luxor. Torna in Piemonte nel 1994 per terminare gli studi; ottenuto il diploma di maturità presso il liceo linguistico “G. Giolitti” di Bra, decide di perseguire la carriera di modella. trasferendosi prima a Parigi e successivamente a New York nel 2006. L’anno seguente partecipa ai cataloghi di H&M e Victoria’s Secret. A luglio 2008 debutta sulle passerelle newyorkesi di Dolce & Gabbana per poi diventare, nello stesso anno, testimonial di Love Moschino, fotografata da Tom Munro. In seguito lavora anche per le campagne pubblicitarie di Emilio Pucci e Diane von Fürstenberg. Inoltre è comparsa sulle copertine dell’edizione francese, russa e serba di L’Officiel e nell’edizione tedesca di Vogue. Nell’aprile 2010 il sito web vogue.it nomina Elisa Sednaoui rising star (stella emergente). Nel 2011 è una delle modelle del Calendario Pirelli, fotografata da Karl Lagerfeld. Ripete l’esperienza nel 2013. Dopo gli studi di recitazione ha preso parte ad alcune produzioni cinematografiche: la prima volta nel 2010 col ruolo principale nel film Indigène D’Eurasie (Easter Drift) del regista lituano Šarūnas Bartas; sempre nel 2010 recita da protagonista in Bus Palladium, per la regia di Christopher Thompson; seguono i ruoli in L’amore dura tre anni di Frédéric Beigbeder e La leggenda di Kaspar Hauser di Davide Manuli, entrambi nel 2012. Nel 2013 partecipa a Les Gamins di Anthony Marciano e a Libertador di Alberto Arvelo. Nel 2014 ha interpretato il ruolo principale di Francesca nel film Soap opera, di Alessandro Genovesi. Nel 2010 è stata uno dei componenti della giuria del Paris Film Festival, nel 2011 della giuria della sezione Revelations al Festival di Deauville, nel 2014 ha fatto parte della giuria Cinecole al Marrakech Film Festival.

Ah, dimenticavo, È figlioccia di Christian Louboutin, sì, sì, il noto stilista che produce suole celebratissime color rosso scarlatto. E con questo direi che si può ritenere concluso il capitolo “valletta” e relativi misteriosi talenti.

Ma veniamo ai primi film. L’apertura, fondamentale per accendere i riflettori sulla manifestazione e agganciare cinefili e curiosi (non sempre in quest’ordine), e di solito una delle scelte che a Barbera viene meglio (vedi Gravity e Birdman), quest’anno non ha soddisfatto i più. Il film Everest sulla carta faceva scintille: storia tragica e vera (la spedizione sull’Everest del 1996), un impianto spettacolare imponente, un cast all star (Jason Clarke, Jake Gyllenhaal, Josh Brolin, Robin Wright, Michael Kelly, Keira Knightley, Sam Worthington, Emily Watson), la regia dell’islandese Baltasar Kormáku, ma l’insieme ha stordito i più senza convincerli. Non ho visto il film, ma uno dei commenti più divertenti che ho sentito è stato “Mah, guarda, saranno anche attori bravi e famosi, ma dopo un po’, quando infuria la tempesta e sono tutti bardati, non distinguevo più nessuno e vedevo solo piumini e giacche a vento!!

Ne risentiremo parlare agli Oscar, come spesso accade con i film che aprono Venezia? È un po’ presto per dirlo, del resto è adesso che bisogna dirlo, quindi diciamo che pare improbabile, ma la via degli Oscar è quanto mai bizzarra, quindi aggiungiamo “non si sa mai!”.

Il primo film del concorso che vedo è Looking for Grace di Sue Brooks. La partenza non è delle migliori.

Ecco la sinossi da catalogo

Grace, sedici anni, scappa di casa. Per ritrovarla i suoi genitori, Dan e Denise, si mettono in viaggio attraverso la cintura del grano in Australia Occidentale insieme a Norris, un investigatore in pensione. Ma la vita sembra disfarsi più velocemente di quanto loro riescano a tenerla unita. Grace, Dan e Denise imparano che la vita ti confonde ed è arbitraria, ma è meravigliosa. Looking for Grace parla di come troviamo un senso nel caos della vita e di che cosa questo significhi. È un film drammatico e sarcastico che parla di bugie, di segreti, di dolori grandi e piccoli, e di amore.

e la recensione

L’assurdità della vita. Gli intrecci del destino. La casualità degli eventi. La banalità del quotidiano. Di questo tratta il film di Sue Brooks, poco prolifica autrice australiana (l’opera precedente, Subdivision, è del 2009), che racconta una storia diversificando temporalità e punti di vista. L’idea in sé, non certo originale, potrebbe essere però interessante perché indagare ciò che si cela dietro le apparenze muovendo i fili di un destino impazzito riserva sempre sorprese. Ci sarebbe però stato bisogno di uno sguardo più ironico e meno greve. Invece il film si pone incerto tra dramma e commedia senza riuscire mai ad amalgamare gli estremi. Gli interventi comici finiscono così per cadere nel vuoto, il sarcasmo arriva stridente e la tragedia si consuma senza lasciare traccia. Più efficace l’ambientazione che gioca sul contrasto tra la vastità dei paesaggio desertico (la cintura del grano in Australia Occidentale) e l’asettico rigore di interni privi di personalità. Ma la sceneggiatura non trova il giusto ritmo, così come la messa in scena, i dialoghi sopra le righe e l’incastro degli eventi. L’ensemble cede purtroppo a un grottesco poco comunicativo. La ricerca di grazia suggerita dal titolo vorrebbe probabilmente evocare, oltre alla ricerca della protagonista scomparsa (che si chiama appunto Grace), anche la grazia nella vita, intesa come equilibrio tra bellezza, semplicità ed eleganza. Ma è proprio ciò che manca al film, afflitto da una coralità che finisce per girare fuori sincrono, e questo non sarebbe neanche un male, ma soprattutto a vuoto.

In concorso viene presentato anche Beasts of No Nation, il film sui bambini soldato di Cary Fukunaga, sì, sì, proprio lui, l’uomo a cui dobbiamo la serie televisiva “True Detective”. C’è molta curiosità intorno al film anche perché alla produzione e alla distribuzione c’è nientepopodimeno che Netflix, il più diffuso servizio di “internet tv” al mondo, con più di 65 milioni di abbonati. Si prospetterà una vera rivoluzione nella fruizione dei film o gli scenari paventati (film negli occhiali, la sala solo per gli eventi, lo streaming finalmente regolarizzato) resteranno fantascienza? È presto per dirlo, intanto non sottovalutiamo i piccoli passi che avvengono sotto i nostri occhi. Se finiranno per cambiare il nostro modo di vivere lo capiremo un po’ più avanti. Ma veniamo al film. Il pubblico lo ha adorato, la stampa ha storto un po’ il naso: “Costruito per gli Oscar! Spettacolarizza il dolore! Ricattatorio! Furbetto!”. Come spesso mi accade mi colloco nel mezzo. È vero, infatti, che utilizza tutta la retorica del racconto tipica del cinema americano mainstream, ma è anche vero che il pugno nello stomaco dello spettatore è ben assestato, e grazie anche a interpreti eccellenti e a una regia che mantiene costante la tensione, il film è di quelli che non si dimenticano. Quindi il fine giustifica in parte i mezzi, perché accende comunque i riflettori su una tematica purtroppo sempre attuale. Se sarà Oscar lo vedremo più avanti, intanto non esageriamo con l’entusiasmo, ma bacchettiamo il cinephile arroccato nella sua torre d’avorio e andiamo avanti.

Fuori Concorso viene presentato Spotlight di di Thomas McCarthy, con un super cast che include Mark Ruffalo, Michael Keaton, Rachel McAdams, Liev Schreiber, John Slattery e Stanley Tucci. Ad accompagnarlo al Lido, oltre al regista, ci sono Ruffalo e Tucci, molto disponibili con il pubblico e contenti, da caratteristi di lusso quali sono, di avere finalmente gli applausi tutti per loro. Il film racconta una vera e propria inchiesta giornalistica ed è tratto da una storia vera: lo smascheramento operato nel 2002 dal Boston Globe nei confronti degli atti di pedofilia compiuti da oltre settanta sacerdoti nella zona di Boston. Un film solido e compatto, come si usa dire, che sembra girato negli anni ’70, sicuramente ben scritto, ma un po’ troppo verboso e con pochi picchi. L’assenza di emozione probabilmente è voluta, perché pone l’attenzione sul’inchiesta, sulla sua costruzione e sui tanti ostacoli incontrati dai coraggiosi giornalisti, ma se il film si apprezza non suscita però particolari entusiasmi.

4 settembre 2015 (venerdì)

Con il primo venerdì si entra, come da tradizione, nella zona calda del festival. È infatti nel primo week-end che si giocano le carte migliori. Come perché!! Per fare in modo che la stampa se ne occupi, il lettore sia incuriosito e si fidelizzi (che brutto verbo!!) nei confronti della manifestazione. Se non se ne parla all’inizio, difficilmente i riflettori si accenderanno a festival in corso. Da notare, comunque, che i maggiori quotidiani nazionali riducono spesso le notizie relative ai festival a note di gossip. Si parla più del contorno che dei film. Ricordiamo, invece, che sono i film il cuore pulsante di ogni festival cinematografico degno di questo nome.

Un esempio di cosa diventa informazione oggi è il modo in cui è trattato Johnny Depp, protagonista assoluto, fuori concorso, di Black Mass. È vero, sulla carta era la scelta meno azzeccata per interpretare James “Whitey” Bulger, un criminale statunitense di origini irlandesi che negli anni ’70 mise a soqquadro la città di Boston per detenere il monopolio di spaccio di droga e gioco d’azzardo e fermare l’ascesa di una famiglia mafiosa rivale. Meno azzeccata perché Depp non è certo il tipico irlandese con l’incarnato chiaro e i capelli rossi, ma il miracolo del cinema si compie e per due e passa ore Johnny Depp diventa James “Whitey” Bulger ostentando un carisma che raramente ha avuto sulla scena. Un altro virtuosismo che deve molto al trucco & parrucco, quindi, ma, tornando a bomba, l’ennesimo caso in cui del film sui giornali si parla poco mentre il tema dibattuto è “ma quanto si è imbolsito Johnny Depp?”. Tutto vero, tra l’altro, e magari peculiare per un attore che oltre a essere una star è sempre stato un sex-symbol, ma costruirci interi articoli di magazine e quotidiani pare davvero esagerato. Comunque sia il film offre spunti di interesse e impiega un po’ a decollare, forse troppo, ma liquidarlo in fretta come “non necessario” pare, ancora una volta, esagerato.

Il Concorso propone poi Francofonia di Aleksandr Sokurov a Marguerite di Xavier Giannoli.

Sokurov torna al Lido dopo il Leone d’Oro per Faust e fa incontrare il direttore del Louvre Jacques Jaujard con il conte Franziskus Wolff-Metternich. Non ho visto il film e quindi mi limito a riportare sinossi e commento del regista da catalogo.

SINOSSI

Un altro secolo è passato nel Vecchio Continente… Enormi eserciti calpestano il cuore della civiltà e il fuoco dei cannoni sta nuovamente imperversando. Tra i massacri e le rovine, tutto quanto era maestoso, magnifico e sacro, tutto quanto aveva richiesto milioni di minuti e ore di ostinato lavoro per essere costruito, viene raso al suolo. Jacques Jaujard e il conte Franz Wolff-Metternich lavorarono insieme per proteggere e salvaguardare il tesoro del Museo del Louvre. Aleksander Sokurov racconta la loro storia, esplorando il rapporto fra arte e potere e chiedendo che cosa l’arte ci dica su noi stessi, al culmine di uno dei conflitti più devastanti cui il mondo abbia mai assistito.

COMMENTO DEL REGISTA

L’Europa mi è sempre sembrata una sorta di famiglia unita, una famiglia storica e solida, con le sue tradizioni. La cultura rappresenta la base o le fondamenta di questa famiglia. I paesi europei hanno creato una cultura grandiosa e illustre in cui la musica, l’arte e la letteratura sono, in certo modo, omogenee. E io nutro la ferma convinzione che la Francia e la Germania siano come… sorelle. Ognuna ha il suo carattere, a volte litigano e spesso i rapporti sono difficili. Il nostro film si incentra sugli aspetti riusciti della loro relazione. In questo periodo di conflitto, i nostri due protagonisti sono riusciti a trovare un’intesa”.

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Difficile raccogliere commenti sul film, il che lascia pensare che non abbia entusiasmato. I pochi che si espongono dicono che è inferiore a
Faust, ma nessuno si sbilancia maggiormente. A Venezia se parli male, o anche poco bene, di Sokurov, sei mediamente schifato. L’intellighenzia è in riunione e sta deliberando le linee guida per il cinephile che, ovviamente, le seguirà senza un fiato.

Il secondo film presentato in Concorso, Marguerite, è invece tratto da una storia vera davvero peculiare, quella della cantante lirica Florence Foster Jenkins, donna volitiva e ostinata, anche molto ricca va detto, che ha dedicato tutta la sua vita al canto. Peccato fosse stonata come una campana. Un soggetto davvero esplosivo che sposta l’azione dall’America alla Francia degli anni ‘20 e ripercorre gioie, ma soprattutto dolori della presunta cantante. Un film piacevole che non lascerà particolare traccia e si prenota un posto per le signore in visione pomeridiana, pre o post tea con dolcetto. Brava Catherine Frot, ma la Coppa Volpi sembrerebbe troppo. Già mi vedo, invece, Meryl Streep candidata agli Oscar 2017 come Migliore Attrice Protagonista per lo stesso ruolo con la regia di Stephen Frears. Che le idee siano davvero nell’aria?

5 settembre 2015 (sabato)

Ed eccoci nel vivo del week-end. Oggi ben tre film in Concorso.

Si comincia con L’attesa, opera prima di Piero Messina, già, tra le altre cose, assistente alla regia di Paolo Sorrentino nei film This Must Be the Place e La grande bellezza. E questa esperienza si vede e si sente. Sarà forse lui l’anima dei film di Sorrentino, oppure è stato in grado di assorbire la lezione e lo stile del regista napoletano? Inutile dibattersi su questioni perniciose, sta di fatto che un’affinità si sente. Dall’accoglienza alla proiezione per la stampa direi che non è piaciuto granché, invece ha un suo perché. Certo, probabilmente l’incontro con Juliette Binoche ha permesso di fare il film ma non deve essere stato facile il rapporto tra la diva francese e il regista. Qualcosa è trapelato anche in conferenza stampa, del resto un mostro sacro come la Binoche ha probabilmente un modo tutto suo di entrare nei personaggi e non deve essere semplice per un regista alle prime armi, come ha dichiarato lo stesso Messina, che ha ben chiare le sequenze che vuole girare e l’espressività che pretende dall’attore. Sta di fatto che la Binoche finisce per mangiarsi il film, e non è sempre un bene, perché il rischio di replicare Film Blu è dietro l’angolo. Comunque sia il soggetto, liberamente ispirato a “La vita che ti diedi” di Luigi Pirandello, è interessante, la recitazione è comunque intensa e alcune sequenze lasciano il segno. Basta pensare alla scena del ballo sulle note della bellissima “Waiting for the miracle” di Leonard Cohen, in cui la giovane e brava Lou de Laâge è contesa tra due spasimanti sotto gli occhi addolorati della madre del fidanzato. Uscirà subito nelle sale e non sembra destinato al successo di folla nonostante la spinta che Medusa pare intenzionata dare al film.

Il secondo film in concorso, The Danish Girl, è uno dei più attesi, perché vede il ritorno a un anno dall’Oscar per La teoria del tutto, di Eddie Redmayne, questa volta nei panni di Lili Elbe, il primo uomo che la Storia ricordi ad avere tentato l’operazione chirurgica per cambiare sesso. Come spesso accade nei festival internazionali, Venezia in primis, quando si parla di melodramma la critica storce il naso. E così è stato per un film che con grande cura, sensibilità e rispetto per i personaggi racconta una storia costruendo un grande affresco d’epoca e un intenso ritratto di personaggi. È un po’ la caratteristica di Tom Hooper quella di cercare il bello nella composizione delle inquadrature, e il gentile dove potrebbe esserci il ruvido, ma tutto ciò si traduce in un solido film che non si papperà un premio ma farà il suo dovere al botteghino. Eddie Redmayne si candida alla Coppa Colpi, nonostante qualche leziosità di troppo, ma molto difficilmente la vincerà, non è il contesto giusto. Avrà più chance agli Oscar. È piaciuta molto Alicia Vikander, moglie del protagonista, colei che in qualche modo lo ha spinto a cercare la sua vera natura, prima spaventata ma sempre complice e in grado di dargli il sostegno di cui aveva bisogno. Brava l’attrice svedese (l’unica nordica che sembra una messicana!!), ma con una fisicità troppo contemporanea per il ruolo, almeno così la vedo io.

E per finire la sezione Concorso, in serata è arrivato Equals di Drake Doremus con Nicholas Hoult e Kristen Stewart. Possiamo liquidarlo in fretta perché è un brutto tentativo di rinverdire i fasti della fantascienza romantica, ma nulla scalfisce l’indifferenza dello spettatore. Piuttosto antipatica la Stewart in conferenza stampa, in cui sembra sempre che faccia un piacere all’umanità a rispondere. Per ora il peggiore film visto in concorso. Difficilmente, se non per l’appeal commerciale della Stewart (ai minimi termini, comunque), troverà la strada della distribuzione.

Da segnalare, invece, un film nella sezione Orizzonti, la meno seguita del festival, una sorta di concorso di serie B che ha perso un po’ la sua anima sperimentale e propone quasi sempre film che non hanno l’appeal giusto per essere inclusi nel Concorso.

Si tratta di Mountain, co-produzione tra Israele e Danimarca di Yaelle Kayam.

Questa la trama da catalogo:

Un’ebrea devota vive con la sua famiglia nel cimitero ebraico sul Monte degli Ulivi a Gerusalemme. Durante il giorno, quando suo marito e i figli sono a scuola, lei resta da sola. Fa passeggiate nel cimitero cercando di sottrarsi agli interminabili lavori domestici. Di sera tenta di avvicinarsi al marito. Tra i due c’è una grande distanza. Una sera, per la frustrazione, esce di casa come una furia e si aggira nel cimitero. Allora assiste a una scena sconvolgente: un uomo e una donna stanno facendo sesso su una lastra tombale. Eccitata da questa visione, la donna comincia a esplorare questo nuovo mondo notturno e intanto cerca di mantenere una facciata di normalità nella sua routine quotidiana. Finché un giorno non ce la fa più.

Un’opera asciutta che lascia il segno per le domande che è in grado di suscitare e per il mistero di cui è permeata. Non capiamo fino in fondo cosa muove la protagonista e il perché delle sue scelte, ma entriamo in contatto con la sua solitudine e l’impossibilità di trovare un equilibrio nel soffocante contesto familiare in cui è prigioniera. Da vedere.

6 settembre 2015 (domenica)

Domenica è la giornata che il festivaliero non vede l’ora che passi. È, infatti, il giorno del delirio. Il Lido diventa il centro del mondo. Chi abita vicino coglie l’occasione per un bagno di folla, ma anche chi vuole venire per una semplice scappata, approfitta inevitabilmente del week-end per raggiungere il Lido e vedere quello che il festival propone. A tutto ciò si aggiunge l’immancabile regata storica che paralizza il traffico in laguna. Per muoversi nel modo più agevole possibile si decide quindi di seguire quasi esclusivamente le proiezioni previste per la propria tipologia dia accredito. Ah, ovviamente è l’ultimo giorno del primo week-end (vi ricordate il discorso fatto in precedenza sull’importanza di attirare i titoli dei giornali nei primi giorni?), quindi il piatto è mediamente ricco. Ma procediamo con ordine.

Si comincia con L’Hermine di Christian Vincent. Ecco la trama da catalogo:

Xavier Racine è un giudice molto temuto, presidente di corte d’assise. Lo chiamano “il giudice a due cifre”, perché le pene che infligge sono sempre di almeno dieci anni. Tutto cambia drammaticamente il giorno in cui Racine incontra Birgit Lorensen-Coteret, chiamata come giudice popolare nel caso di un uomo accusato di omicidio. È la stessa donna di cui si era innamorato Racine sei anni prima. Quasi in segreto. È forse la sola donna che abbia mai amato.

Le parole del regista chiariscono perfettamente lo spirito del film:

Ho scritto e diretto L’hermine perché due anni fa il mio produttore mi ha chiesto di assistere a un processo in corte d’assise. Non sapevo nulla del mondo giudiziario e nel giro di cinque giorni mi sono reso conto che avevo sotto gli occhi uno stupefacente specchio della società. L’aula di un tribunale è un teatro, con un pubblico, degli attori, una drammaturgia e un dietro le quinte. È un ordine prestabilito che aspetta solo di essere capovolto. Ma prima di tutto è il luogo dell’oratoria, dove l’ascolto è fondamentale. Un posto dove alcuni padroneggiano la lingua e altri, a volte, non capiscono nemmeno le domande che vengono loro rivolte. In un processo penale c’è tutto. C’è l’angoscia umana, le riflessioni poetiche, i momenti di noia, l’incursione nella vita intima delle persone. A volte alla fine dell’udienza vince la verità. Ma non sempre. E comunque non lo sappiamo quasi mai con certezza. A quel punto mi mancava solo la storia: un giudice presidente di corte d’assise, che avrei potuto essere io se non fossi diventato regista… il fantasma di un amore passato che ricompare nei panni di un’anestesista. È come se alla fine il desiderio di vivere trionfasse sempre”.

Film in effetti molto piacevole, con uno scatenato Fabrice Luchini che si candida subito tra i papabili per la Coppa Volpi. Forse il genere di film che in un contesto movimentato come un festival rischia di perdersi, ma troverà di sicuro estimatori e il suo spazio.

Il film delle 19.30, quello della seratone per le sciure veneziane e politici e malati di protagonismo agghidati a festa, è A Bigger Splash di Luca Guadagnino. Il regista palermitano ha fama di essere amato all’estero e odiato in patria, e fa di tutto per ricordarlo. Il suo film, però, non piace quasi a nessuno, quasi perché esiste un gruppo, invero non nutrito, di contro-contro-bastian-contrari che, oplà, hanno trovato il loro nuovo nume da sostenere. Al di là delle polemiche sullo snobismo che impera al Lido, il film, ahimé, non funziona e si perde nel prillare a Pantelleria di un pugno di ricchi e antipatici che alla fine brontolano e si annoiano senza fare molto altro. Ci scappa pur il morto, ma poco importa, almeno allo spettatore. Ah, sarebbe un libero remake di La piscina di Jacques Deray. Fischi un po’ ovunque. Scatenatissimo Ralph Fiennes, sia sullo schermo che in conferenza stampa. Sempre gatta morta Dakota Johnson, patatone l’astro nascente belga Matthias Schoenaerts e come al solito totemica e splendida Tilda Swinton.

Per finire con il concorso è il giorno dell’argentino Pablo Trapero. Per avere El Clan in concorso Barbera ha fatto uno strappo alla regola. Il film, infatti, è uscito in patria con grande successo, quindi non si tratta di una prima mondiale, ma solo internazionale. Poco male, in effetti queste regole, non scritte ma tacite, aiutano la competizione tra festival ma non il cinema. E per fortuna che Barbera ha sovvertito l’ordine costituito perché il film è uno dei più belli visti finora.

Ecco la trama da catalogo:

Argentina, inizi anni ottanta: interno di una tipica villetta famigliare nel caratteristico quartiere di San Isidro, dove un oscuro clan vive di rapimenti e omicidi. Arquímedes, il patriarca, guida e pianifica le operazioni. Il figlio maggiore Alejandro è una star del rugby e gioca con il CASI, prestigioso club locale, e con i Los Pumas, mitico team nazionale argentino. Contemporaneamente, piegandosi alla volontà del padre, individua i possibili bersagli dei rapimenti, protetto dalla popolarità che lo tiene lontano da ogni sospetto. In varia misura, i membri della famiglia sono tutti complici di queste orrende imprese poiché beneficiano dei grossi riscatti pagati dalle famiglie delle loro vittime. Tratto dalla vera storia della famiglia Puccio, il film, pieno di suspense e intrighi, è ambientato negli ultimi anni della dittatura militare argentina, poco prima del ritorno alla democrazia.

Un’opera davvero riuscita, di grande impatto e tensione, girato benissimo e con una tematica forte. I desaparecidos e la dittatura militare sono solo sfiorati, anzi, il clima di terrore che si respirava in Argentina tra gli anni ’70 e gli anni ’80 viene proprio sfruttato dai protagonisti per compiere indisturbati i loro loschi traffici. Quello che scorre sullo schermo è soprattutto un dramma familiare che conferma la famiglia come covo di tutte le insidie. Stupefacente il protagonista Guillermo Francella, mattatore della commedia argentina, che si candida a concorrente, da non sottovalutare, di Fabrice Luchini per la Coppa Volpi come Migliore Attore. Alla proiezione per il pubblico grande ressa perché il giovane co-protagonista Juan Pedro Lanzani è fidanzato con Martina Stoessel, la Violetta della omonima serie televisiva e il Lido diventa terra di bambine assatanate in cerca della loro paladina. Per un attimo la sua celebrità oscura tutto e tutti, ma, per fortuna, è solo un attimo.

Nel pomeriggio Orizzonti ha proposto Man Down di Dito Montiel. Sono lontani i tempi dell’intenso Guida per riconoscere i tuoi Santi (era il 2006) e le opere successive del regista newyorchese da noi non sono mai arrivate. Come non arriverà questo suo nuovo pasticcio ambientato in un’America post-apocalittica dove realtà e ossessione si contaminano. Brutto senza appello. Alla fine della proiezione per il pubblico al Palagalileo, ora Sala Darsena, il protagonista Shia LaBeouf scoppia in lacrime. Povero, deve avere preso coscienza del filmaccio di cui è protagonista!!

7 settembre 2015 (lunedì)

Il contrasto tra ieri e oggi è palpabile e finalmente si può pronunciare la fatidica frase: “Ecco, guarda che deserto, sono già andati tutti a Toronto!

Il post week-end si fa quindi sentire, e anche il programma pare tarato all’uopo. Giornata, infatti, con pochi picchi. Salto Rabin, the Last Day, il film di Amos Gitai dedicato al Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin, perché ormai ho verificato una mancanza di intesa cinematografica con il regista israeliano (anche se Disengagement lo avevo apprezzato) e passo direttamente a un altro film in concorso, The Endless River del giovane scrittore e regista sudafricano Oliver Hermanus (classe 1983). Nel suo curriculum ha già una partecipazione al festival di Cannes con Beauty nella sezione “Un Certain Regard” ed è tornato dalla Croisette con la Queer Palm. La scelta di Barbera lo porta a essere il primo film sudafricano in lizza per il Leone d’Oro. Buon per il regista, ma la decisione si rivela un abbaglio. Questa la trama da catalogo:


Una giovane cameriera accoglie il marito che torna a casa nella cittadina sudafricana di Riviersonderend (Fiume Infinito) dopo quattro anni di detenzione. All’inizio sembra che i loro piani per una nuova vita insieme si stiano finalmente realizzando. Ma quando la famiglia di uno straniero che vive in una fattoria vicina viene brutalmente assassinata, la giovane e il vedovo in lutto cominciano a gravitare l’una verso l’altro. Fra i due, intrappolati in un circolo vizioso di violenze e spargimenti di sangue, si crea un legame improbabile nel tentativo di trascendere la rabbia reciproca, il dolore e la solitudine.

E questo il commento del regista:

Gilles e Tiny provengono da due mondi diversi. Lui è uno straniero che soffre e vive in una terra che gli è estranea e lei una modesta cameriera del posto che cerca di cominciare una nuova vita con il marito recentemente uscito di prigione. Collocati nella cittadina di Riviersonderend, questi due personaggi, persi nella loro sventura e solitudine e in cerca di una tregua dalle carte che il destino ha loro assegnato, si trovano infine a ingaggiare una battaglia tra vittima e carnefice, tra innocenza e colpa e, soprattutto, tra ciò che è stato perso e ciò che è stato trovato”.

Al di là delle intenzioni, il film parte intrigando ma prosegue tediando e non va a parare da nessuna parte, perdendo per strada, oltre all’interesse dello spettatore, le due solitudini che fa incontrare. La domanda finisce soprattutto per essere: ma che ci fa sto film in concorso? Unanime il riscontro critico: pessimo!

La giornata prosegue intrecciando percorsi differenti. Prima si incappa in Non essere cattivo, presentato Fuori Concorso e per molti, a cui non mi accodo, meritevole della competizione principale. È il terzo e ultimo film di Claudio Caligari, morto a maggio 2015 quando il film doveva ancora essere finito e ultimato grazie all’intervento e alla determinazione di Valerio Mastandrea. L’opera conclude la trilogia cominciata nel 1983 con Amore tossico e proseguita nel 1998 con L’odore della notte. Perché secondo me è un ni? Mah, forse dovrei rivederlo, sarà che l’argomento malavita romana trucida ha per me esaurito ogni possibile interesse? O che mi sembra che la storia intorno al film sia più interessante del film stesso e abbia finito per condizionarne l’impatto? Chissà… Sta di fatto che ne riconosco il cuore, l’umanità, il dramma, ma mi sembra un cinema che ha esaurito le sue potenzialità e con poco da aggiungere al noto. Tra l’altro con ben poche possibilità di aprirsi un varco tra gli spettatori al di fuori del raccordo anulare…e non perché gli spettatori siano per forza superficiali o in cerca di blockbuster americani!

Un film che invece non avrebbe affatto sfigurato in concorso è Wednesday, May 9 di Vahid Jalilvand, presentato invece nella sezione Orizzonti. Sembra davvero che ci sia una new-wave iraniana, capitanata da Asghar Farhadi (regista di Una separazione e Il passato) che non si limita alla denuncia, ma prova ad abbinare una fotografia della società iraniana con il racconto di una storia.

Questo il soggetto del film

Un uomo chiamato “Jalal” pubblica un insolito annuncio in uno dei giornali del mattino di Teheran per donare 10.000 dollari a una persona bisognosa. L’annuncio colpisce l’attenzione di un gran numero di persone. Al termine del giorno, riceve molte richieste e quindi decide di sceglierne una a caso. Tutti quelli che hanno fatto richiesta sottolineano che quella sarebbe l’unica soluzione ai loro problemi. La polizia interviene per calmare la folla e poi mandarla via. Ma due donne non rinunciano, Setareh, una diciannovenne incinta, e Leila, l’ex fidanzata di Jalal.

Un racconto a incastri dove tre differenti urgenze narrative si intersecano con uno sfalsamento temporale nell’impostazione della sceneggiatura che mantiene viva l’attenzione e dosa abilmente interrogativi e relativi scioglimenti. Sentendo in giro i commenti direi che l’apprezzamento è stato abbastanza unanime.

Le Giornate degli Autori hanno proposto invece una co-produzione tra Cile, Spagna, Argentina e Germania: La Memoria del Agua di Matías Bize. Tema non certo nuovo, l’elaborazione di un terribile lutto familiare, affrontato con sensibilità ma incappando negli stereotipi del dolore. Comunque sia da non sottovalutare per la capacità di rendersi comunicativo. Un po’ troppo bellocci i due protagonisti, anche se piuttosto espressivi.

8 settembre 2014 (martedì)

Continua la sensazione di vuoto da giorno feriale, anche se il programma di oggi probabilmente riuscirà a stanare un po’ di curiosi spingendoli verso il Lido.

É anche il giorno dell’attribuzione del Leone d’Oro alla Carriera a Bertrand Tavernier, con la presentazione di una delle sue opere più significative, La vita e niente altro.

Il Concorso offre invece una tripletta degna di interesse.

C’è grande attesa nei confronti di Marco Bellocchio, ma il suo Sangue del mio sangue è un compendio del suo pensiero, non manca di suggestione, ma non convince: troppe svolte improbabili che l’aggettivo naif non riesce più a giustificare. La seconda parte, infatti, sprofonda più che nel grottesco, nel ridicolo, non si sa fino a quanto volontario. Nota di demerito per Filippo Timi, utilizzato come spesso accade, in modo caricaturale. Vi starete chiedendo, ma la trama, almeno il soggetto, qualcosa di più…no, niente, potete andare direttamente a vederlo nelle sale perché esce proprio domani in tutti (beh, non proprio tutti, ma abbastanza) i cinema italiani.

Il secondo film in Concorso è Anomalisa di Duke Johnson e Charlie Kaufman. Opera di grande fascino che per una volta utilizza l’animazione a passo uno per un film per adulti e non per bambini. La storia è semplice semplice ed è incentrata su un oratore motivazionale in viaggio per lavoro che vede la sua vita cambiare grazie all’incontro con una ragazza, in grado di mutare la sua prospettiva sulle cose. Il film si gioca su un’idea molto forte, perché tutti i personaggi hanno la stessa faccia del protagonista e parlano con la stessa voce asettica, a dimostrazione della sua incapacità di andare oltre a se stesso nel rapportarsi con gli altri, in fondo semplici specchi della sua personalità. Per trovare una persona con cui stabilire un vero rapporto di scambio, dovrà incontrare Lisa, che per la sua anomalia darà il titolo al film. Un’idea semplice e originale che prende vita grazie alla tecnica utilizzata. Se un appunto si può fare al film è quello di non andare troppo oltre l’idea di partenza, che sembra gonfiata per consentire un minutaggio lungo, ma il film offre sicuramente spunti non banali di riflessione. Alla conferenza stampa, oltre ai due registi, anche Jennifer Jason Leigh, che presta la voce al personaggio femminile.

E per restare al concorso si termina la giornata con uno dei film subito battezzato come prossimo al Leone, il meno potente del previsto Ablika (Frenzy), di Emin Alper. Ecco la trama da catalogo, che, come ogni tanto accade, aiuta a fare chiarezza sul film dopo la visione:

Istanbul è in preda alla violenza politica. Hamza, un alto ufficiale di polizia, offre a Kadir una libertà condizionale dal carcere. Per uscire di prigione, l’uomo deve accettare di lavorare nella nuova unità di operatori ecologici che raccolgono informazioni per i servizi segreti. Kadir accetta e comincia a raccogliere rifiuti nelle baraccopoli, controllando se contengano materiali collegati alla produzione di ordigni esplosivi. In una di queste zone, Kadir incontra suo fratello minore, Ahmet. Il giovane lavora in una squadra comunale responsabile dell’abbattimento dei cani randagi. La riluttanza di Ahmet a stabilire un legame fraterno con Kadir, malgrado le insistenze di quest’ultimo, induce Kadir a inventarsi ipotesi di complotto per spiegare la distanza del fratello.

Ma per capire ancor maglio il film è di grande aiuto il commento del regista:

Abluka racconta di come il sistema politico trasformi gli “uomini semplici” in parti del suo meccanismo violento fornendogli autorità e strumenti di violenza. Che questa sia rivolta contro i cani randagi o contro i terroristi, gli uomini ubbidiscono agli ordini, per realizzare i loro sogni o anche solo per guadagnarsi da vivere. Nel farlo, restano indifferenti agli effetti delle loro attività, ma di fatto questa ignoranza è una loro scelta. L’elemento tragico della storia è determinato sia dalle condizioni politiche che dalle scelte personali dei personaggi. Tuttavia, quegli stessi strumenti si rivoltano contro di loro, come conseguenza della loro paranoia”.

Un film che è sicuramente in grado di colpire per l’atmosfera di catastrofe imminente e di prossimità al delirio in cui gravitano i personaggi, ma che alla fine resta un po’ prigioniero delle sue invettive e finisce per girare a vuoto e non essere molto comunicativo. Il Leone può ancora attendere.

Nelle sezioni collaterali ho invece pescato da Orizzonti e dalla Settimana della Critica, quest’anno particolarmente snobbata.

In Orizzonti ho tentato la carta del greco Interruption di Yorgos Zois. Parte bene, con una rappresentazione teatrale ad Atene interrotta da uomini armati e vestiti di nero che obbligano il pubblico a diventare parte dello spettacolo. Idea non certo nuova che poi si sviluppa senza sorprese, cioè avvitandosi su se stessa, ma incapace di andare fino in fondo nel trasformare la vita nel palco più grande del mondo.

I rapporti tra una madre e una figlia sono invece al centro del turco Ana Yurdu (Motherland). Se tutti i conflitti familiari sono già stati rappresentati, la differenza la fa come sempre il come. E nella visione di Senem Tüzen ci sono tracce di verità e di dolore a fior di pelle. I contrasti sono noti: la grande città contro il villaggio, la scoperta del mondo rispetto alla chiusura nell’unico mondo che sembra possibile se si mette a tacere ogni curiosità. L’amore di una madre si dimostra viscerale, ambivalente e soffocante, in grado di schiacciare una personalità forte come quella della protagonista. Un rapporto familiare che si fa specchio della società turca, scissa anch’essa tra tradizione e modernità. Una via di mezzo in cui abbracciare il nuovo non dimenticando il vecchio non sembra, purtroppo, ancora possibile.

9 settembre 2015 (mercoledì)

Giornata di particolare tranquillità al Lido. Sembra davvero che siano andati via tutti. Tutto sommato non è male, perché si riesce a godere maggiormente del festival, vedendo i film con calma senza troppi spintoni o timori, però è anche la morte di quel brivido in grado di rendere l’impresa epica. Se tutto è troppo facile alla fine c’è meno mordente. Certo che questi cinefili non ce l’hanno mai pari!!

Comunque sia la giornata pacata si risolve con due film in concorso che alla fine non sono affatto male.

Il primo è Heart of a Dog di Laurie Anderson. Ricordo che la vidi cantare in un concerto molto sperimentale nella suggestiva cornice di Piazza Santo Stefano a Bologna e fu un’esperienza interessante ma anche piuttosto ostica, di non semplice fruizione. La sua opera non si può definire un film, ma nemmeno un documentario, è una sorta di flusso di coscienza che tocca la morte, lo scorrere del tempo, la tristezza del vivere, ma anche la gioia delle piccole cose quotidiane. Paradossalmente mi aspettavo un approccio greve e sentenzioso, invece trovo un mettersi a nudo con sincerità in modo semplice, apparentemente disordinato, in realtà seguendo un ordine interiore dove tutte le cose trovano il posto giusto. C’è un po’ di tutto nella sua visione, e si resta ammaliati ad ascoltare e guardare. Piacevole.

Il secondo è invece 11 Minutes del polacco Jerzy Skolimowski, uno di quei registi molto amati ai festival, un po’ meno al di fuori. Nulla di nuovo nella sua visione, ma uno di quei soggetti che può diventare un virtuosismo, e in parte ci riesce. Tutto accade, infatti, dalle 17, alle 17.11 di un giorno qualunque. Alcuni personaggi sono destinati, in questo breve frammento di tempo, a interesecare le loro esistenze. Il tempo si rivela quindi una variabile quanto mai soggettiva e viene dilatato all’inverosimile analizzando ogni frammento da punti di vista differenti. Il gioco è adrenalinico e divertente, ma anche fine a se stesso, perché porta al virtuosismo ma non a una sorta di punto di arrivo a cui i personaggi e lo spettatore possono giungere insieme con la medesima soddisfazione. Piacevole, ma decisamente superfluo.

Il resto della giornata è dedicato alla scrittura ma anche a una bella passeggiata. Per sopravvivere a un festival occorre ritagliarsi anche dei momenti extra-cinematografici e oggi pare essere la giornata più adatta per fuggire dalle sale per poi tornarci con la voglia di sedersi davanti al grande schermo per assorbire nuove storie e visioni.

E così accade.

In serata l’appuntamento è di quelli da non perdere. Al mitico Brian De Palma viene infatti consegnato il premio Jaeger-LeCoultre Glory to the Filmmaker 2015, dedicato a una personalità che abbia segnato in modo particolarmente originale il cinema contemporaneo.

Queste le motivazioni del premio spiegate dal direttore Alberto Barbera: Figlio di un’epoca artistica (gli anni Settanta) carica di fermenti innovativi, Brian De Palma si è affermato come uno dei registi più abili nel costruire con grande libertàcreativa perfetti meccanismi narrativi, sperimentare nuove soluzioni tecniche, tradire le regole classiche del linguaggio, abbandonarsi a virtuosismi estetici, celebrare autori amati. Di fronte a un film di Brian De Palma si torna spettatori di grado zero. Gli occhi bene aperti per non cadere nella trappola, sapendo benissimo di finirci dentro. Perché quello di De Palma è cinema ludico all’ennesima potenza, piacere per gli occhi e al contempo gioco che solletica il cinéphile. La sua prerogativa principale, che consiste nel non aver mai perso la curiosità dello sperimentatore in grado di reinventare il già visto, fa di De Palma – in fatto di costruzione dell’immagine e della sua manipolazione – uno più grandi innovatori cresciuti all’ombra della New Hollywood”.

Per l’occasione viene presentato il documentario De Palma di Noah Baumbach e Jake Paltrow, nato dalla frequentazione dei due registi con Brian De Palma per oltre dieci anni. Una sorta di conversazione personale tra addetti ai lavori che diventa lo spunto per raccontare la carriera sessantennale di uno dei registi che hanno inciso maggiormente sull’immaginario contemporaneo. Un’opera pacata e lineare che lascia spazio all’artista rappresentato e che fa venire una voglia matta di rivedere in sequenza tutti i film di De Palma, e di recuperare i pochi che ancora mancano all’appello. La serata si conclude quindi con una fame di cinema..e non è affatto una spiacevole sensazione!!

10 settembre 2014 (giovedì)

Ci si avvicina verso la fine di questo festival sonnecchiante. Cose interessanti finora se ne sono viste, ma nessun colpo di fulmine. Pare sempre più difficile trovare materiale cinematografico per riempire una kermesse di 10 giorni 10 di film ininterrotti. Troppa concorrenza di sicuro. Un tormentone che ricorre tra una fila e l’altra è ”Non vorrei essere nella giuria perché non saprei davvero chi premiare!” A proposito di giuria, ne abbiamo già parlato? Mi sembra di no. E allora ecco qui i nomi degli artisti con cui dovrete farvela per le scelte, inevitabilmente discutibili perché giustamente soggettive, dei premiati.

Cominciamo con il CONCORSO. A presiedere la Giuria il regista, sceneggiatore, produttore cinematografico e montatore messicano Alfonso Cuarón, definito dalla rivista TIME nel 2014 come una delle 100 persone più influenti del mondo. A condividere con lui gioie e dolori dei film in concorso Elizabeth Banks, Emmanuel Carrère, Nuri Bilge Ceylan, Hou Hsiao-hsien, Diane Kruger, Francesco Munzi, Pawel Pawlikowski e Lynne Ramsay. Una giuria quasi esclusivamente di registi, scelta curiosa no?

Per quanto riguarda ORIZZONTI, la sezione teoricamente più sperimentale, alla guida del gruppo troviamo nientepopodimeno che Jonathan Demme e i suoi discepoli sono Anita Caprioli, Fruit Chan, Alix Delaporte e Paz Vega.

Come sempre verrà valutata anche la migliore OPERA PRIMA. Presidente di Giuria il regista Saverio Costanzo e membri della Giuria Charles Burnett, Roger Garcia, Natacha Laurent e Daniela Michel.

Per VENEZIA CLASSICI il Presidente è invece Francesco Patierno.

Ad aprire la giornata è il venezuelano Desde allà scritto e diretto da Lorenzo Vigas, ma da un soggetto dello stesso Vigas con Guillermo Arriaga. Il regista, con all’attivo un cortometraggio presentato a Cannes nel 2004, ha una formazione bizzarra: figlio di un pittore, ha studiato biologia molecolare in Florida e poi cinema all’Università di New York. Il suo film passa e va. Non è male, nel senso che apre interrogativi, mantiene una certa curiosità verso il destino dei personaggi, ma il ritmo lasco non favorisce il coinvolgimento e si caratterizza per la difficoltà di imprimersi nella memoria. Forse ha bisogno di essere metabolizzato, o rivisto in un contesto meno frenetico.

Piaciuto molto invece Remember, di Atom Egoyan, con un eccezionale Christopher Plummer. Ho sentito qualcuno pronunciare la fatidica frase Un altro film sull’Olocausto? Basta!”. In realtà l’Olocausto resta una delle più grandi tragedie del secolo scorso ed è ovvio che continui a ispirare opere cinematografiche. La novità introdotta da Egoyan è quella di abbinare a una tematica classica il genere thriller. Sì, perché Remember è una sorta di Memento della terza età. Il protagonista è infatti un quasi novantenne affetto da demenza senile che, pur non ricordando le azioni che compie, si mette sulle tracce del criminale nazista che gli ha sterminato la famiglia. Una ricerca che porterà alla luce non poche sorprese. Per me uno dei migliori visti finora in Concorso, proprio per la capacità di narrare fatti noti attraverso una nuova luce. Straordinario Plummer, che si candida direttamente alla Coppa Volpi. Dai commenti captati in giro mi sembra invece che sia stato accolto con una certa sufficienza. Non ne capisco il motivo, se non con il fatto che Egoyan non è un regista molto considerato dai cinefili che lo snobbano da tempo. Probabilmente è ub autore discontinuo, ma un critico deve anche essere capace di non generalizzare e di capire il valore di un film indipendentemente dal filone in cui è inserito. Comunque sia resta tutto soggettivo, quindi inutile prolungare questo tedioso sermone anti spocchia.

Oggi, quindi, giornata partita in sordina che si rivela invece molto soddisfacente. Fuori Concorso viene poi presentato La calle de la Amargura, di un regista programmaticamente disturbante come Arturo Ripstein. Un bianco e nero splendido, personaggi che calamitano l’attenzione per la loro sgradevolezza, una storia di meschinità e squallore, un risultato perturbante capace di porre domande ma soprattutto di colpire per il contrasto tra la bellezza della luce che attraversa le inquadrature e ne ammanta la composizione e il disagio messo in scena. Questa la trama da catalogo:

Sono le prime ore del mattino e due anziane prostitute tornano alle loro stamberghe. Non sono stanche per il lavoro. Sono stanche perché non hanno lavorato. Una ha dei problemi a casa con la figlia adolescente e il marito travestito; l’altra, con la solitudine. Quella sera però hanno un appuntamento per festeggiare la vittoria di due lottatori di wrestling, due gemelli nani mascherati. Nell’albergo a ore, per derubare i due dei loro guadagni, li drogano con delle gocce oculari. Ma la dose si rivela fatale. Senza volerlo li uccidono. Impaurite e confuse, decidono di nascondersi dalla polizia, scappare insieme e continuare a vivere, come hanno sempre fatto, in calle de la Amargura. Vengono arrestate.

E questo il commento del regista:

C’è una misteriosa aura di prestigio attorno ai film che si rivelano essere tratti da storie vere. Il mio film è tratto da una storia vera, ma questo non viene dichiarato. E non è un caso. Perché preferisco l’invenzione ai fatti. La realtà è un’occorrenza passeggera. La verosimiglianza è, ai suoi massimi livelli, eterna. E` questa la mia aspirazione. La storia, i personaggi, l’atmosfera, la struttura del film sono più veri che mai, perché pur essendo nati dalla realtà sono diventati, grazie al cinema, una meravigliosa finzione”.

Uscirà mai nelle sale? Dubito, ma se vi capita è sicuramente da vedere.

Così come l’ultimo film di Vincenzo Marra, La prima luce, questo però nelle sale del nostro paese tra poco, a partire dal 24 settembre. Il film racconta quello che può succedere all’interno di una coppia quando uno dei due (in questo caso la donna) viene da un paese straniero. La coppia ha un figlio, non va d’accordo, la separazione è nell’aria e la ragazza fugge all’estero portando via il figlio e rendendosi irrintracciabile. Per il padre che rimane in Italia un fulmine a ciel sereno e l’impossibilità di ritrovare la moglie, ma soprattutto il figlio, di colpo privato di una figura di riferimento determinante. Quando le colpe dei genitori ricadono sui figli. L’approccio di Marra è quasi documentaristico, non gli interessano tanto ragioni e torti, quanto il disagio di un bambino senza alcuna colpa, se non quella di trovarsi bene sia con la mamma che con il papà. Un film che punta all’emozione e arriva a creare uno stato di empatia molto forte con il bravo Riccardo Scamarcio che interpreta il padre alla ricerca dei sentimenti perduti. La commozione arriva, ma tutt’altro che gratuita, attraverso un film che pone l’accento su un tema di grande attualità affrontato con sensibilità. Non perdetelo nelle sale, anche se temo distribuzione limitata e poco appeal commerciale. Ogni tanto bisognerebbe rischiare di più come spettatore e affidarsi all’incognito piuttosto che al noto, spesso deludente perché carico di aspettative disattese.


11 settembre 2015 (venerdì)

Il day before potrebbe fare la differenza, almeno per quanto riguarda la Coppa Volpi, per alcuni anche per il Leone d’Oro, ma spero proprio di no. Andiamo per ordine, però.

Il penultimo film in Concorso è ancora italiano. Si tratta di Per amor vostro, di Giuseppe M. Gaudino, regista soprattutto di documentari ma con un lungometraggio, Giro di lune tra terra e mare del 1997, molto acclamato dalla critica. Nel nuovo film al centro del racconto c’è Anna Ruotolo, una donna che cerca di aggrapparsi al positivo nonostante il grigiore in cui è immersa, soprattutto per il rapporto conflittuale con un marito manesco e manigoldo. Per fortuna ci sono i figli (due figlie e un figlio sordo), ma la quotidianità finisce per essere sempre più schiacciante. Un raggio di luce viene dal lavoro come gobbista in una fiction locale, dove per Anna nasce una simpatia con il protagonista belloccio e piacione Michele Migliaccio. Al di là del soggetto, alla fine anche un po’ scombiccherato, ciò che colpisce e l’approccio visionario di Guadino, la commistione di tecniche differenti, di colore e bianco e nero, di suoni e musiche stravaganti, di rimandi ancestrali, di una Napoli dove passato, presente e futuro si mescolano in modo viscerale. Ma il film è soprattutro il ritratto di una donna cui Valeria Golino dona tutta se stessa, diventando essa stessa uno strumento comunicativo nelle mani sapienti di Gaudino. Se la prima parte è folgorante, poi la visionarietà straborda e finisce per mangiarsi il film, ma resta comunque un’esperienza cinematografica unica e a suo modo comunicativa di un disagio, ma anche di un ottimismo e di una determinazione a rinascere dalle proprie ceneri. Protagonista trasversale la città di Napoli, non solo cornice geografica ma cuore pulsante del film. Probabilmente non conquisterà la giuria, ma la Coppa Volpi per Valeria Golino è assicurata, sia perché non è mai stata così brava, ma anche perché le rivali sono pochine. Marguerite e Catherine Frot possono attendere.

Ultimo film in Concorso è invece un documentario co-produzione tra Cina e Francia: Beixi Moshuo (Behemoth) di Zhao Liang.

Questa la trama da catalogo:

Sotto il sole, la celestiale bellezza delle distese erbose sarà presto consumata dalla polvere delle miniere. Tra le ceneri e il frastuono causati dalle pesanti attività minerarie, i pascoli si riducono e ai pastori non resta che partire. Al chiaro di luna le miniere di ferro sono illuminate a giorno. I lavoratori che azionano le trivelle devono rimanere svegli. È una dura lotta, contro le macchine e contro se stessi. Nel frattempo, i minatori sono occupati a riempire di carbone i camion. Con indosso una maschera di polvere, diventano creature simili a fantasmi. Un’infinita coda di autocarri trasporterà i minerali di ferro e di carbone alla fonderia, dove è intrappolata un’altra folla di anime che brucia all’inferno. All’ospedale, il tempo si accumula, sospeso nelle mani dei minatori. Dopo decenni passati a respirare la polvere di carbone, la morte è dietro l’angolo, e loro vivono un’esistenza da purgatorio. Ma alla fine non ci sarà nessun paradiso.

E queste le parole del regista a commento della sua opera:

Il comportamento umano si contraddistingue per follia e assurdità. Non siamo mai riusciti a liberarci dall’avidità e dall’arroganza, così il viaggio a spirale della civiltà si viene a riempire di deviazioni e regressioni. Sembra di essere posseduti da una forza mostruosa e invincibile, invece siamo noi a creare questa bestia invisibile. È la nostra volontà; siamo al tempo stesso vittime e carnefici. Nella Divina Commedia, Dante attraversa in sogno l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. In Behemoth mi sono ispirato a Dante e ho descritto un’enorme catena industriale, in cui i colori rosso, grigio e blu rappresentano rispettivamente i tre regni danteschi. Attraverso lo sguardo contemplativo del film, analizzo le condizioni di vita dei lavoratori e l’insensato sviluppo urbano. È la mia meditazione critica sulla civiltà moderna, in cui si accumula ricchezza mentre l’uomo perisce”.

Una di quelle opere che in un festival trova parecchi estimatori, ma che difficilmente supererà la prova del pubblico. E non perché il pubblico sia sempre stordo e voglia solo scemenze, ma perché non riesce a rendersi sufficientemente comunicativo e contamina un disagio inequivocabile con svolazzi estetizzanti di dubbio gusto. Gli aggettivi più gettonati nel post-visione sono: Necessario! Sublime! Ineffabile! Magnetico!” Peccato che circa a metà della proieizione per la stampa ho contato intorno a me almeno 6 cinefili incalliti in preda a un sonno ristoratore e profondo, anche un tantino rumoroso nei suoi picchi. Ma anche questo è il bello di Venezia.

A concludere la giornata un’opera Fuori Concorso di indubbia bruttezza: Go With Me di Daniel Alfredson, con Anthony Hopkins e Julia Stiles. Una truce storia di vendetta e soprusi dove tutto avviene nei tempi e nei modi più prevedibili. Nelle intenzioni probabilmente un film duro e rude, alla prova della visione l’assenza di qualunque vertigine. Non un’idea una a supporto dei personaggi, dell’azione, della sceneggiatura, della regia. Un vero e proprio buco nell’acqua.

È la sera finale, quella prima del verdetto della Giuria. Mi sembra che in giro non ci sia nemmeno tanta curiosità di sapere chi vincerà, e questa la dice lunga.

12 settembre 2015 (sabato)

Ecco tutti i premi del festival, al centro dell’ultima giornata di festival:

LEONE D’ORO per il miglior film a: DESDE ALLÁ (FROM AFAR) di Lorenzo Vigas (Venezuela, Messico)

LEONE D’ARGENTO per la migliore regia a: Pablo Trapero per il film EL CLAN (Argentina, Spagna)

GRAN PREMIO DELLA GIURIA a: ANOMALISA di Charlie Kaufman e Duke Johnson (USA)

COPPA VOLPI per la migliore interpretazione femminile a: Valeria Golino nel film PER AMOR VOSTRO di Giuseppe Gaudino (Italia)

COPPA VOLPI per la migliore interpretazione maschile a: Fabrice Luchini nel film L’HERMINE di Christian Vincent (Francia)

PREMIO MARCELLO MASTROIANNI a un giovane attore emergente a: Abraham Attah nel film BEASTS OF NO NATION di Cary Joji Fukunaga (USA)

PREMIO PER LA MIGLIORE SCENEGGIATURA a: Christian Vincent per il film L’HERMINE di Christian Vincent (Francia)

PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA a: ABLUKA (Follia) di Emin Alper (Turchia, Francia, Qatar)

LEONE DEL FUTURO – PREMIO VENEZIA OPERA PRIMA “LUIGI DE LAURENTIIS” a: THE CHILDHOOD OF A LEADER di Brady Corbet (Regno Unito, Ungheria) (ORIZZONTI)

nonché un premio di 100.000 USD, messi a disposizione da Filmauro di Aurelio e Luigi De Laurentiis, che saranno suddivisi in parti uguali tra il regista e il produttore.

PREMI ORIZZONTI

il Premio Orizzonti per il Miglior Film a: FREE IN DEED di Jake Mahaffy (USA, Nuova Zelanda)

il Premio Orizzonti per la Migliore Regia a: Brady Corbet per THE CHILDHOOD OF A LEADER (Regno Unito, Ungheria)

il Premio Speciale della Giuria Orizzonti a: BOI NEON (NEON BULL) di Gabriel Mascaro (Brasile, Uruguay, Paesi Bassi)

il Premio Orizzonti per la Miglior Interpretazione a: Dominique Leborne nel film TEMPÊTE di Samuel Collardey

Premio Orizzonti per il Miglior Cortometraggio a: BELLADONNA di Dubravka Turic (Croazia)

Il Venice Short Film Nomination for the European Film Awards 2015 a:

E.T.E.R.N.I.T. di Giovanni Aloi (Francia)

PREMI VENEZIA CLASSICI

La Giuria presieduta da Francesco Patierno e composta da studenti di cinema provenienti da diverse Università italiane: 25 laureandi in Storia del Cinema, indicati dai docenti di 12 DAMS e della veneziana Ca’ Foscari, ha deciso di assegnare i seguenti premi:

il Premio Venezia Classici per il Miglior Documentario sul Cinema a:

THE 1000 EYES OF DR. MADDIN di Yves Montmayeur (Francia)

il Premio Venezia Classici per il Miglior Film Restaurato a:

SALÒ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA di Pier Paolo Pasolini (1975, Italia, Francia)

Leone d’Oro alla Carriera 2015 a:

Bertrand Tavernier

Jaeger-LeCoultre Glory to the Filmmaker Award 2015 a:

Brian De Palma

Persol Tribute to Visionary Talent Award 2015 a:

Jonathan Demme

Premio L’Oréal Paris per il Cinema a:

Valeria Bilello che hanno caratterizzato l’ultima giornata di festival.

Un Leone d’Oro quanto mai inaspettato. Alla lettura del verdetto della Giuria non sono state poche le facce con un punto interrogativo stampato sopra. Primo problema: capire quale film fosse. Eh, sì, perché nella bolgia del festival è stata una di quelle opere passate in sordina senza lasciare particolare traccia. I primi sbisci lasciano trapelare qualche favoreggiamento dovuto al fatto che il presidente della Giuria è sudamericano come il premiato, a dimostrazione di una tesi che lo vuole non così imparziale nella valutazione delle opere in gara.

Tutti contenti, invece, per El Clan, uno dei pochi titoli passati in competizione in grado di accendere l’entusiasmo di pubblico e critica. E generale apprezzamento anche per la decisione di premiare Anomalisa e Abluka, nella rosa dei papabili fin dalla loro presentazione.

Troppa grazia per il discreto L’Hermine, con addirittura un doppio premio (Idris Elba per Beats on No Nation non avrebbe sfigurato), e invece la conferma di averci visto giusto nel non avere alcun dubbio nei confronti della strepitosa Valeria Golino, anima e cuore di Per amor vostro.

Si conclude un’edizione non memorabile, con tracce di buon cinema ma nessun colpo di fulmine.

Anche per quest’anno cala il sipario sul Lido e mentre gli addetti ai lavori smontano gli stand ed è tutto un via vai verso l’imbarcadero, auguro a tutti i lettori di Centraldocinema un anno di cinema, buono e ristoratore, in sala ovviamente.

Buone visioni, quindi, a tutti!!

 

VENEZIA 2015: media voti 6,75 contro 6,39 dell’edizione 2014! netta crescita

Venezia 2015: i voti di Centraldocinema!

WEDNESDAY, MAY 9 9
EL CLAN 8
FRANCOFONIA 8
DE PALMA 8
L’HERMINE 7,5
RABIN, THE LAST DAY 7,5
11 MINUT (11 MINUTES) 7
ABLUKA (FRENZY) 7
BEASTS OF NO NATION 7
ANOMALISA 7
MARGUERITE 7
REMEMBER 7
SANGUE DEL MIO SANGUE 7
THE DANISH GIRL 7
BLACK MASS 7
SPOTLIGHT 7
PECORE IN ERBA 7
THARLO 7
DESCONOCIDO 7
EQUALS 6,5
PER AMOR VOSTRO 6,5
LA PRIMA LUCE 6,5
A BIGGER SPLASH 6
BEIXI MOSHUO (BEHEMOTH) 6
DESDE ALLÁ (DA LONTANO) 6
HEART OF A DOG 6
LA CALLE DE LA AMARGURA 6
MADAME COURAGE 6
THE CHILDHOOD OF A LEADER 6
ITALIAN GANGSTERS 6
MOUNTAIN 6
MAN DOWN 6
MATE-ME POR FAVOR 6
THE ENDLESS RIVER 5,5

EVEREST

Desconocido