Ci sarà un motivo se al riaccendersi delle luci in sala le uniche cose che si ricordano del film di Karyn Kusama (salita alla ribalta con “Girlfight”) sono la forma fisica di Charlize Theron, la zeppa porta-oggetti delle scarpe, le tutine super aderenti, il pigiama “perlato”, il caschetto nero e riccioluto, il gusto anni ’40 abbinato a un taglio XVIII secolo dei cappotti, lo stile Bauhaus delle scenografie (a Berlino e nella città di Potsdam in Germania), il design ricercato degli interni. La ragione è nel fatto che l’ennesima eroina in cerca di vendetta e di quieto vivere globale, mutuata da una serie di animazione creata da Peter Chung per MTV, non ha troppo da raccontare. Si limita a seguire tracce ampiamente percorse e non si distingue per originalità. Solo un aggiornamento all’attualità con la centralità del tema
clonazione, ma niente che sconvolga, pochi colpi di scena e nessuna vera dannazione ad ammantare di fascino sia i buoni che i cattivi. L’ordinarietà della narrazione e dei personaggi è supportata da una regia migliore della media, che sfrutta con innegabile resa visiva gli enormi spazi disponibili, non esagera con l’azione e conduce gli inevitabili scontri fisici rispettando la necessità dello spettatore di capire il “chi” e il “come”. Merito anche di un cast tecnico di tutto rispetto in cui fotografia, montaggio e scenografia si compenetrano con professionalità. Dal canto suo la Theron si conferma attrice di talento e, oltre a dimostrare al mondo intero di essersi perfettamente ripresa dalle fatiche fisiche (necessarie?) intraprese per “Monster”, conferisce alla donna guerriero che dà il titolo al film un’apprezzabile espressività. Il risultato sonnecchia nel limbo del superfluo, ma non manca di intrattenere. Meglio comunque, per restare nel campo delle guerriere di carta o di sintesi prestate al cinema, del vuoto pneumatico di “Tomb Raider” o della demenza senza appello di “Catwoman”.
Luca Baroncini de gli spietati