Carlos Reygadas nasce in Messico nel 1971, fa varie esperienze formative, compresi gli studi di diritto internazionale, e poi comincia a lavorare presso l’ufficio messicano degli affari esteri presso le Nazioni Unite a New York, in seguito, verso la fine degli anni 90, va a Bruxelles e comincia a dedicarsi al cinema. In due anni Reygadas mette insieme un gruppo di amici dell’INSAS, l’Istituto Nazionale delle Arti dello Spettacolo (più o meno come il nostro DAMS), e realizza il suo primo lungometraggio: Japòn. Il film viene selezionato dai festival di Rotterdam e Cannes. E da qui in poi entra stabilmente a far parte dei giovani registi di talento del sud america e del mondo. Il suo secondo film, cioè Battaglia nel Cielo, ottiene apprezzamenti dappertutto.
Non si può fare a meno di tifare per Carlos Reygadas e il suo cinema, per tanti motivi: fa parte di una cinematografia emergente, ma ancora con pochi titoli, come quella messicana, ben presente attraverso i suoi pochi titoli in tutto il mondo. E’, assieme ad altri, un rappresentante di un fenomeno che possiamo definire quello delle “cineband”, cioè gruppi di amici e di persone che si riuniscono attorno ad un progetto di cinema e realizzano le loro opere, facendo così fronte ad una cronica insensibilità di tanta industria cinematografica verso il nuovo, anche se minore nei paesi in via di sviluppo e in paesi che tendenzialmente hanno una struttura dell’ “industria culturale” importante e incisiva.
Il film però presenta, nonostante le acclamazioni ai vari festival, qualche pecca di troppo nonostante sia un’opera sicuramente interessante.
Il difetto maggiore è quello di voler ostentare una poetica d’autore che ben si concilia con crudezze e presunte “scabrosità”.
Il film comincia con una “poetica fellatio” telefonata per sintonizzarsi su un pubblico esclusivamente “da festival”, avido di presunti o veri pugni nello stomaco.
Così in parte sembra l’idea di accostare la bella figlia del capo di Marcos, alla quale, grasso e brutto, fa da autista e con la quale ha un rapporto sessuale e la “famosa fellatio”; così sembra l’esibizione di corpi obesi e grondanti di sudore e grasso, come la moglie di Marcos; così sembra l’idea di legare la figura della ricca Ana all’idea che si prostituisca, e per giunta lo faccia per hobby, per passione. Insomma Carlos Reygadas realizza una serie di ossimori (la “celebrazione del brutto ma bello” che fa parte di una certa tradizione ispanica), che seppur emozionali e interessanti, sembrano costruiti un po’ apposta per coinvolgere un certo tipo di pubblico intellettuale, e forse stanco degli stereotipi che troppo spesso vengono registrati sulla celluloide delle pellicole di tutto il mondo.
L’autista, che lavora anche come alzabandiera, però ha un complesso di colpa, cioè ha rapito insieme alla moglie il nipote della benestante Ana, il quale accidentalmente morirà. Ana viene a sapere questo, ma vive alienata, e la luce di Città del Messico ci ricorda un po’ quei pomeriggi d’estate dove ci si sveglia privi di pensieri, sentendosi magicamente un po’ fuori dal mondo, così è Ana.
La tragedia prenderà il sopravvento, tra esplosione di passione sanguinosa e malata, religione intrisa di misticismo sociale, con un affresco del Mexico, con il suo traffico, le sue contraddizioni, dove il cattolicesimo ha un grande valore spirituale, ma soprattutto sociale. La moglie di Marcos si chiede: perché non peccare e poi pentirsi in seguito come fanno tutti?
Traffico, sangue, rapimenti, vite occulte, la voglia di raccontare la vita della metropoli attraverso i silenzi, i rumori di fondo, le facce della metropolitana, il tempo reale che scorre con le sue casualità e l’estemporaneità dei vari avvenimenti. Marcos non è obbligato a compiere un rapimento ed a chiedere un riscatto: non è ricco, ma ha un lavoro, un guadagno e una casa; è così…capita.
Reygadas non rivela la sceneggiatura ai suoi attori non professionisti. I suoi interpreti vivono il personaggio un po’ come la vita: non sai di sicuro cosa ti capita appena ti alzi ed esci fuori da casa, in questo modo si ha il privilegio di far provare emozioni contingenti agli attori e di sorprenderli, nel bene e nel male, come fa la Vita nei confronti di tutti.
Il regista sembra ancora un piccolo seguace, anche se non privo di personalità, del maestro americano Robert Altman e l’ormai affermato Alejandro Gonzàlez Inàrritu.
Gino Pitaro