ESTASI DI UNA VISIONE
L’incipit del film è folgorante: il riflesso sull’acqua di un mondo incontaminato, mentre le parole dolci e femminili della protagonista introducono il tema portante dell’opera, quello della ricerca spirituale di un Sé, di una pace interiore estrinseca al reale e alla Storia. Il nuovo film di Terrence Malick non solo conferma la perfezione stilistico-poetica cui è giunto con La sottile linea rossa, ma sottolinea ulteriormente la necessità di un cinema diverso, unico nel suo genere, manieristico forse ma ricercato, particolare, finalizzato a sé e per sé.
La storia di Pocahontas che incontra l’esploratore John Smith e se ne innamora follemente, diventa simbolo di un incontro culturale di enormi proporzioni (peraltro già accennato in La sottile linea rossa nel rapporto che Witt instaura con gli autoctoni del luogo prima e dopo la battaglia). L’incontro/scontro diviene dialettica dicotomica di due mondi, di cui uno è destinato a morire. E sarà appunto quel new world a scomparire e con lui la purezza e la spiritualità che lo contraddistingue. Paradossalmente Malick riesce laddove Scorsese aveva parzialmente fallito con Gangs of New York, ovvero ritrae perfettamente la morte

di un mondo e la nascita (basata quindi sulla morte, quindi di per sé viziata) di una nazione destinata a cambiare le coordinate mondiali della Storia umana. Questo mondo trova incarnazione nella figura di Pocahontas, ingenua e perfetta creatura di un universo puro ed incontaminato, teso verso la ricerca del Sé più profondo. Una figura destinata a mutare, a soffrire e infine a morire. La parabola esistenziale di Pocahontas fa da parallelo a quella del mondo a cui appartiene. Per tutta la durata del film c’è un costante richiamo al riflesso (dalle acque limpide di fiumi inesplorati allo specchio su cui è riflessa la morte della protagonista), che tende appunto ad esaltare le immagini di un mondo ormai scomparso, pallido ricordo, astratta illusione.
Il film di Malick trasuda una spiritualità di immense proporzioni, fondendo al tempo stesso poesia e filosofia, affrontando contemporaneamente temi di valore universale. Alterna momenti magici, infiniti, in cui la voce fuori campo esalta una madre e un padre astratti ed elementi di riferimento, mentre le immagini divengono quadri di profonda bellezza, romantici e naturalistici insieme. Ma The new world, quarta fatica di un regista che in trent’anni di carriera ha concesso poco in termini di quantità ma molto sotto il profilo della qualità, non è perfetto come è stato La sottile linea rossa. La sceneggiatura in alcuni momenti tende più verso la prosa piuttosto che la poesia (una costante nel precedente lavoro del regista), prediligendo il narrato. James Horner evidentemente non è Hans Zimmer, e, sebbene con la sua colonna sonora tocchi alti momenti (come l’arrivo delle navi o il finale), cade in sequenze in cui inserisce pezzi al pianoforte che ricordano la musica classica ottocentesca. Ma sono difetti minimi, perdonabili ad un autore coerente e unico nel suo genere.
Le immagini di Malick sono di rara bellezza, ritraggono una natura incontaminata splendida e perduta. Sono quadri in successione. Il finale è qualcosa di perfetto, di indescrivibile nel montaggio, nella portata di significato, nella profondità, nella delicatezza, nell’emozione infinita che suscita. Solo nel finale la giovane protagonista troverà i suoi giorni del cielo.
Malick è tornato con nuovo capolavoro, ricordandoci il valore dell’immagine e del cinema. Il fatto che lo faccia così raramente nel tempo sottolinea ulteriormente l’importanza di ciò che trasmette. Noi non possiamo che cogliere queste perle di rara intensità.
VOTO: 9 ½
Andrea Fontana

TM, TERRENCEMALICK, TRADEMARK DI TRASCENDENZA
Ci sono registi che fanno film ogni anno, ci sono registi che fanno film quando gli viene chiesto, ci sono registi che fanno film perché forse non potrebbero fare altro, ci sono registi che fanno film come si stessero spazzolando i denti, tre volte (o più) al dì.
Ci sono anche registi che fanno film come se non ci fosse domani, e per fortuna che ci sono pure (e soprattutto?) loro: Terrence Malick, texano, è uno di questi, se non il paradigma assoluto della formula generalista appena descritta.
Escludiamo le sceneggiature e i cortometraggi a cui è arduo risalire; dal 1973 a oggi, 2006, TM ha fatto solo quattro film, a coppie verrebbe da dire, e per tanti motivi. I primi due – La rabbia giovane (1973), I giorni del cielo (1978) – sono brevi nella durata (sui 90’, minuto più minuto meno), indipendenti nella realizzazione, autoriali nelle intenzioni e negli esiti. Entrambi narrano vicende retrodatate, immerse nel giallo della profonda provincia americana, individuali.
Poi vent’anni di silenzio, di buio cinematografico: un barbaglio nero, una dissolvenza esistenziale, un’ellissi creativa, così care a Malick e al suo cinema di personaggi, di luoghi, di oralità (la voce fuori campo, altro trademark malickiano) raccontate per immagini.
Rispunta, Malick, nel 1998, ed è La sottile linea rossa: il suo cinema è sempre quello – la ricerca di un senso mistico laddove le esperienze umane sembrano non averlo come poetica, l’arrocco oggettivo per affondare lo sguardo scevro da moralismi e da giudizi come forma -, ma qualcosa è cambiato. C’è pluralità (filosofica) di punti di vista, c’è coralità, c’è immersione ed emersione in un microcosmo che diventa epitome di un mondo e dei suoi sentimenti; il senso panico delle cose, così immanente nel cinema di Malick, diventa indagine assolutamente spirituale della natura come primordiale Eden perduto, a cui affidarsi tramite la memoria, il sogno, le sensibilità percettive. Il verde della speranza, e dell’eternità della vita, domina. Altri sette anni, quindi un breve lasso di tempo, e un nuovo film, con ulteriori assonanze da segnalare: non più l’America profonda ma l’America come Mito, come solennità da osservare in maniera etno-antropolgica; di nuovo un gusto per la durata magniloquente da kolossal; di nuovo una rarefazione sempre più crescente del narrato, per evidenziare – secondo la psicanalisi cognitivo-comportamentale, verrebbe da pensare – non i fatti, ma i pensieri, e le emozioni soprattutto, che hanno scatenato quei fatti.
Affidarsi a Malick, con cieca fiducia, diventa dunque un obbligo morale oltreché un piacere ardimentoso: il suo occhio curioso, ma mai invadente, ci culla e ci plana alla scoperta di un mondo inesplorato, ci rivela che il vero mondo nuovo è quello che tutti noi abbiamo dentro al cuore – amore puro, amore dantesco -, e, restando allo specifico della visione, giunge a un finale che strappa il cuore dal petto e tenta, riuscendovi a patto di non essere insensibili, di rianimarcelo, di farci di nuovo brillare, e a forza (la forza del suo stile, e della sua poesia), una speranza; la speranza.
Roberto Donati

 

E’ con più di qualche timidezza ed imbarazzo che ci si accinge ad analizzare questo film di Terrence Malick, da parte di chi, come il sottoscritto, ha la ventura di occuparsi di cinema e immagine per professione: troppo alto è il rischio di scontrarsi, in caso di critica feroce, con l’intellettualismo visivo di certuni, pronti ad accettare ciecamente, nel terrore di sembrare insipienti e poco ricettivi, le opere di un mostro sacro come Malick: ma non è con l’intoccabilità e la deferenza che si dimostra onestà intelletuale. The New World non è e non può essere un film da recensire ed analizzare coi mezzi consueti, parlando di componenti cinematografiche più o meno riuscite come sceneggiatura, fotografia, montaggio o regia. Non è proprio possibile etichettare il film con un voto finale, tanto è palese l’intenzione del regista di proporre una riflessione sul linguaggio cinematografico, anzi di destrutturarlo e, forse, distruggerlo. Il ritmo del film (se ritmo esiste) segue schemi improponibili in un’opera cinematografica, il montaggio propone soluzioni raramente viste e, forse, tollerabili, la recitazione è gelida ed il pathos è delegato agli estenuanti voice over dei protagonisti. E qui mi fermo, perchè non vi è motivo di proseguire nell’analisi di un film che non è un film, che appare in alcuni frammenti un documentario, un’opera di videoarte, una prova di forza con la volontà masochista dello spettatore. Malick travalica, anzi ignora volutamente, tutti gli schemi e i paradigmi dell’estetica cinematografica: passioni rarefatte, emozioni raffreddate, immagini estenuanti; si ha l’impressione di un film fatto più per le tesi di laurea di studenti di accademia del cinema che per un pubblico di sala (che, effettivamente, rumoreggia tra gli sbadigli dall’inizio alla fine). Viene da chiedersi se è cinema quello in cui lo spettatore applaude sui titoli di coda non per le emozioni provate, ma per il sollievo della fine del calvario. Un dubbio, questo, che farà drizzare i capelli in testa ai critici più intellettuali, ma che comunque mi pare avere dignità di esistenza se, come dice Scorsese, un cineasta deve essere un “manager delle emozioni del pubblico”. L’impressione è che Malick abbia scelto di provocare in grande stile proprio utilizzando la storia, popolarissima in America, di Pocahontas: per fare un parallelo sarebbe come cercare di abbattere i paradigmi della lingua e letteratura italiana attraverso la manipolazione de “I Promessi Sposi”.
In conclusione l’unica avvertenza ai potenziali spettatori è questa: preparatevi, comperando il biglietto di The New World, ad una difficile esperienza durante il film e soprattutto dopo, quando, agli sbadigli sguaiati della maggioranza, dovrete opporre qualche ragionamento di illuminismo cinematografico per giustificare la spesa sostenuta al botteghino. Buon dibattito!
VOTO: S.V.


Andrea W. Castellanza

Castellanza@actionzone.it

 

Per chi non si dimentica che il cinema è fatto di emozioni ed autentiche suggestioni, quelle che talvolta non trovano spazio e possibilità sulla letteratura e nelle altre arti, ecco che il film (ed il cinema) di Malick ci rammentano con vigore come la settima arte possa dare emozioni sconosciute alle altre discipline (e ovviamente anche le altre arti hanno le loro peculiarità). The New World ci fa sentire gli umori e gli odori del nuovo mondo; noi sentiamo quello che sentono Smith e gli altri compagni di brigata, abbiamo lo stesso timore e grande trepidazione al contatto con i primi indigeni indiani, pensiamo davvero di vedere loro nello stesso modo e con gli stessi sentimenti dei primi coloni, e riusciamo anche a sentire le sensazioni e i pensieri della tribù del luogo. Abbiamo freddo e fame come gli inglesi, vediamo e sentiamo la stessa umida e lussureggiante natura; pensiamo davvero di vedere e scrutare i pensieri di Pocahontas come se fosse lei in persona e questo fosse davvero un viaggio a ritroso nel tempo.
Il film ha il ritmo adeguato per farci entrare nel nuovo mondo, come se le sequenze siano giustamente romanzate, ma profondamente aderenti al vero; ci fa assaporare momenti in cui la natura è agitata dal vento, vediamo l’incresparsi dell’acqua cristallina e pensiamo davvero di vedere con gli occhi di chi per primo ha visitato quelle terre e come si presentavano agli inizi del 1600.
The new world: il nuovo mondo dei coloni, di chi cerca nuovi orizzonti, di chi va a caccia di fortuna, di chi ha la terra che gli scotta sotto i piedi e cede alle lusinghe del mare e dei suoi misteriosi orizzonti.
La storia del ribelle Smith si intreccia con l’amore per la nobile indiana, ma gli eventi e le scelte personali li divideranno. La giovane donna indigena conoscerà superficialmente quello che per lei è il nuovo mondo: l’Inghilterra.
Il mare, sempre il mare come crocevia di cultura, incontri epocali e denaro: chi va incontro al mare va incontro al mondo. Chi domina il mare, domina il mondo. Dio protegga le nostre rotte, sia di benevola bolina come clemente nella tempesta tropicale, sperando che la cambusa e la stiva siano accoglienti….e chi non sputa almeno dieci piedi controvento non merita un rancio abbondante!


Gino Pitaro
       newfilm@interfree.it

 

“ Buio dalla luce, conflitto dall’amore : sono il frutto di una sola mente, i tratti di un solo volto ? Oh anima mia, fai che io sia in te adesso; guarda attraverso i miei occhi, guarda le cose che hai creato. Tutto risplende “. Sono andato a vedere quest’ultimo film di Terrence Malick con ben in mente le parole e le immagini de “ La sottile linea rossa “ ( film peraltro tratto da un’opera dello scrittore James Jones ), cercando di capire dove poteva arrivare il regista nella sua ricerca ( ma, sottintendendo un graal chiamiamola pure “cerca”). Non credo sia, questo “ The new world “, un film perfetto, però devo ammettere la coerenza di Malick nel tentativo di oltrepassare la postmodernità, e parliamo anche di una categoria del cinema attuale, e la compressione spaziotemporale che ad essa si accompagna. E se ne ” la  sottile linea rossa ” questo superamento era soltanto il portato della psiche di ciascuno dei marines nei momenti di vuoto strappati fra un’istante di guerra e l’altro ( quando i tempi rallentavano e la realtà diveniva pensiero ) in questo film avviene nell’incontro fra Smith e gli indiani. Che, fuori dal tempo umano del divenire, esistono nel campo del puro spirito, eterni in un tempo eterno. Mi ricordano quindi, a tratti, gli angeli del “ Cielo sopra Berlino “. Smith, novello Adamo, ha accesso a questo sopramondo grazie alla principessa indiana di cui tutti abbiamo ammirato la bellezza, ma sprecherà, corrotto portatore di una modernità collocata in un tempo e in uno spazio precisi ( da qui le sue domande a lei “ dove vivremo, nel bosco, su un albero.. ), in pratica in un processo decisionale umano, questa possibilità di aderire all’increato, alla purità, al divino. Smith è l’occidente conquistatore, che viaggia soltanto geograficamente, che si muove con sforzo e molta sofferenza nello spazio ( non era ancora tempo di viaggi organizzati e strutturati come catene di montaggio come nell’attuale turismo ), gli indiani invece nel tempo e nello spazio sembrano galleggiare senza sforzo. Ma ad un uomo una donna apre questa dimensione arcana ( l’indiana del film, la sposa di cui l’innamorato soldato rievoca il corpo  e l’eros ne “ La sottile linea rossa ) e qui ci si chiede se, viste le attuali virago, Malick non voglia illuderci tutti ( noi maschietti intendo ) con un donativo che si presentifica, che sembra trasferire un altro mondo con le sue creature nel nostro, schizofrenico e decostruito. In questo senso lo ritengo, come il precedente in maniera più scoperta, un film religioso: l’indiana come una Maria cristiana che conduce l’uomo al divino, che egli paradossalmente rifiuta, non potendo rinunciare alla propria superba identità. E qui la stanchezza mi impone di chiudere questa breve pseudo – critica cinematografica.
Carlo Dentali

 

The new world, ultimo film di Malik, è un racconto epico sulla conquista del Nord America. Tre navi inglesi approdano sulle coste lussureggianti di un’ America incontaminata ed incontrano la selvaggia prateria dominata dalle tribù indiane. Uno dei loro capi si innamora di una principessa indiana, il cui stile di vita non riesce del tutto a strapparlo dal desiderio di esplorare e conquistare i territori americani sotto la bandiera inglese. La trama del film è piacevolmente scontata: il tormetato amore fra i due viene interrotto dall’egoismo di lui e dallo scontro fra il popolo indiano e i coloni inglesi. Ma il dono più interessante nel vedere questo film lo si riceve attraverso le immagini, superiori per forza evocativa a qualsiasi altro film storico che abbia tentato di catturare il panteismo della natura. La forza di queste immagini è così coinvolgente che per un affascinante processo inconscio ne vieni in qualche modo inglobato fino a dimenticare il confine fra visione e percezione.
Il lavoro di Malick, che conoscevo solo attraverso il film “La sottile linea rossa”, incarna un sentimento intenso e struggente sulla pervasività della natura nel tragico svolgersi della storia dell’uomo, in cui il violento determinismo della passione smuove profondamente il rapporto fra la natura e il suo ospite:l’ uomo.
Fulvio Caporale

http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=56594
Malick in Usa ritira il film per tagliarlo di 17 minuti, per venire incontro ai gusti del pubblico medio, vista la lunghezza. In Europa stiamo vedendo la versione integrale.

Terrence Malick: il ritorno del re (del cinema)

Tavola rotonda sul film, a cura degli esaltati redattori di Centraldocinema!