Il Lemming è un simpaticissimo roditore che vive nel Nord della Scandinavia, ogni trent’anni compie migrazioni un po’ misteriose, anche a costo della propria vita si ostina a guadare fiumi che vanno oltre le sue forze, così una giovane coppia trova un Lemming che ostruisce una tubatura, e, per merito di lei, Bénédicte, viene rimesso in forze, ma cominciano anche i guai per la coppia di giovani innamorati. La visita a cena di Pollock, il datore di lavoro di Nicolas, ingegnere e marito di Bénédicte, con la sua consorte Alice, fa in modo che tutto non sia più come prima. La giovane coppia sarà oggetto delle attenzioni della moglie dell’industriale, la quale metterà in atto un piano di vendetta nei confronti di suo marito attraverso una sorta di “possessione” che si incarnerà nelle membra della dolce Bénédicte.
Cosa dire di questo thriller transalpino; la bravura e il fascino degli interpreti non si discute, così come pure lo stile e il gusto espressivo del film sia sotto l’aspetto scenografico che di regia. Felici anche alcune intuizioni allegoriche e metaforiche del film: il lemming che diventa una specie di segno che qualcosa irrompe della vita della giovane coppia; la ricerca della morte dei roditori che tale non è, ma solo un modo di perseguire un disegno diverso, ecc. Belli anche gli arredi di gusto moderno che ci ricordano un po’ un certo cinema “nouvelle vague” e di genere degli anni 60, il tutto ben immerso anche nella contemporaneità: Nicolas è un bravo ingegnere high tech (gagliardo il camcorder con elica incorporata). Ottimi anche i tagli delle inquadrature, i paesaggi, anche quelli apparentemente più anonimi che però ben disegnano l’anima e la cultura francese, un po’ come hanno saputo fare recentemente gli spagnoli con il loro cinema.
Quello che funziona di meno è questa idea di “possessione” interpretata da una Charlotte Rampling affascinante e splendida come sempre. Sembra un po’ qualcosa di forzato, nel senso che qui, questo concetto, perde quella forza di persuasione e credibilità a cui ci hanno abituato altri film della storia del cinema, e, seppur diversi, anche diversi recenti, come per esempio: “Le verità nascoste”, “The Ring”, ecc. Se è giusto dire che questo film è differente in tutto e per tutto e lo vuole essere dal thriller batticuore e dall’horror, è anche vero che perde quel patos e quella escalation di emozioni che ci fa prefigurare la credibilità dell’idea della “possessione”, invece qui il meccanismo “suicidio-possessione in altro corpo” è raccordato quasi si trattasse di un rapporto causa-effetto.
Al di là di questo, “Due volte lei”, che in qualche modo è debitore anche del cinema del Maestro Hitchcock, è un film godibile.
Il regista, Dominik Moll, con il suo precedente “Harry, un amico vero” ci aveva fatto gustare sfumature, ambiguità e brividi che questa sua nuova opera non riesce ad eguagliare.


Gino Pitaro
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