Liberamente ispirato all’autobiografia di Robert Bae, ex agente della Cia a lungo impegnato nella lotta al terrorismo.
Bob Barnes, agente della CIA dislocato in Medio Oriente, comincia a scoprire la disturbante verità sul lavoro a cui ha dedicato tutta la vita. Bryan, un broker del petrolio, affronta invece una tragedia familiare (la morte di un figlio) trovando redenzione nella collaborazione con un idealista principe del Golfo, Nasir.
Il vero protagonista del film è “il petrolio”, i disastri e le strategie che genera.
L’opera si presta a diverse considerazioni interessanti, ma pecca anche di qualche ingenuità. Innanzitutto Bob (un George Clooney volutamente sotto le righe) è un agente segreto che opera nel mondo arabo, eseguendo azioni anche cruente, volte a togliere di mezzo delle persone scomode alle strategie americane; è ingenuo credere che il buon Bob si sia accorto tardi di quali crimini e misfatti ci siano dietro alcune significative strategie americane sull’oro nero.
E’ ingenuo altresì credere che sia realizzabile l’ideale di un mondo arabo sganciato dalle royalties (grandi mazzette) e dagli interessi americani, che però in modo autonomo intraprende la via della democrazia,
di una sana e moderata laicità, sostenuta dal riconoscimento dei diritti civili. E’ vero che una parte significativa degli USA vuole un mondo arabo filo-occidentale, amico degli americani e con il quale fare buoni affari in un quadro che assomigli ad uno scenario rassicurante per loro, ma non realmente libero e indipendente; ecco, gli americani vogliono quello scenario per poi fare i loro interessi, anche se sinceramente convinti che il sistema anglosassone sia il meglio per tutti e per tutto.
Noi occidentali crediamo questo, essendo figli di lotte costituzionali, della rivoluzione francese, ecc., ma gli arabi hanno una civiltà diversa e possono giudicare aspetti relativi all’assetto della società in modo completamente differente. In un certo senso il film auspica la nascita di un mondo arabo libero, orgoglioso delle proprie tradizioni, ma che va solidamente verso una democrazia partecipativa, vera e reale.
Noi tutti tifiamo questo, ma non è facile; ci sono di mezzo altri valori ed altre complessità.
Il film però ci va giù in modo deciso, non risparmia durezza verso le fallimentari (per il welfare del mondo) scelte yankee e non rinuncia comunque ad una visione equilibrata, “americana”, laica. Non si risparmiano critiche al mondo arabo, al suo coniugare aspetti viziosi e religiosi, pieni di opulenti privilegi accettando e facendo affari con i loro “pari” occidentali. E’ anche vero che le grandi fusioni societarie, dai quali nascono colossi economico-finanziari, poi cercano in ogni modo di dare contributi alla costruzione di strutture per la gente, strade, ospedali. Ammantano i loro loschi e oscuri traffici loschi di orpelli luminosi, che rispondono alla voce “marketing”. Rendersi buoni agli occhi degli altri, costruendo per esempio un ospedale pediatrico, non significa risolvere il problema della mortalità infantile, ma fare un’operazione di “restyling”, di “simpatia” agli occhi della gente, che poi diventerà “amica”.
I grandi petrolieri considerano gentaglia gli arabi.
I grandi petrolieri pensano che se la Cina avesse l’accesso a tutto il petrolio che vorrebbe viaggerebbe a velocità tripla rispetto a quella attuale già elevatissima.
In Iran non c’è libertà eppure gli americani non hanno operato nello stesso modo di altri perché vi era una convergenza di interessi. Gli studenti manifestano? E il giorno dopo vengono chiusi 50 giornali e interdette dalla vita sociale centinaia di persone (così il buon Bob davanti alla commissione americana).
Il film è duro.
Il film è vero.
Il film è fatto da americani che presentano una visione del mondo libera, senza “peli sui fotogrammi”. Un america libera che ci piace.
Gino Pitaro newfilm@interfree.it
Dopo Tim Robbins tocca oggi a George Clooney venire paragonato al grande Orson Wells. Sembra essere il destino di quegli attori – autori eclettici che, senza bavaglio, non lesinano attacchi ed imbarazzanti interrogativi al proprio Governo. Se con “Good Night and Good luck” l’ex medico di ER si era concentrato sul Maccartismo e sui problemi della libera informazione, in “ Syriana ”, in veste di attore e produttore, l’attenzione viene rivolta alle tensioni medio orientali e alla brama di petrolio degli Stati Uniti.
Molto liberamente tratto dal libro “ La disfatta della CIA ”, il film dell’esordiente Stephen Gaghan non convince appieno anche se si rivela di fondamentale importanza politica.
Il regista risente dei limiti stilistici ereditati dal suo maestro Steven Soderbergh, qui anche in veste di coproduttore.Tantissime location, stile patinato e intreccio difficile da seguire, quanto meno nella prima parte. Avendo sceneggiato “ Traffic”, Gaghan ne ripropone la struttura narrativa. Quattro storie parallele che hanno come sfondo non più la dipendenza ed il traffico di droga bensì l’interesse e la dipendenza americana dal petrolio. Oro nero e potere, sangue e profitto, corruzione e redenzione. Un agente della CIA che scopre quanto sia stato inutile e dannoso il proprio lavoro, un manager che perde un figlio e ritrova entusiasmo e voglia di vivere al fianco di un principe saudita liberale ed innovatore, un avvocato nero che sfrutterà l’occasione della sua vita mediando tra corrotti e corruttori, un giovane immigrato pakistano che abbraccerà la causa dei terroristi islamici.
Quattro modi diversi di rapportarsi alla ragione di stato, quattro differenti approcci ad un’altra vita, ad un altro mondo possibile senza l’assillo della richezza. Non mancano i luoghi comuni e la retorica nel film di Gaghan, ma nel finale risulta abbastanza toccante e riesce anche ad indignare. Il limite è forse quello di restare in sospensione tra il documentario e il film di inchiesta, quando si sarebbe potuto optare per una semplice e più efficace spy story.
Buona prova di Clooney, Matt Damon nella norma e William Hurt nuovamente sorprendente in un piccolissimo ruolo. Voto 6
Francesco Sapone