Centraldocinema in diretta
dal Lido di Venezia
(2016)
vi seguiamo giorno per giorno durante il festival
con recensioni e commenti
di Luca Baroncini
Continua l’ormai classico appuntamento di Centraldocinema con il festival più famoso d’Italia e tra i più autorevoli del mondo. Anche quest’anno cercheremo, come sempre, di mantenervi aggiornati su quello che succede nei dieci giorni più vitali del Lido di Venezia, quelli in cui gli alberghi vengono tirati a lucido, il passeggio si rinvigorisce, il tempo fa i capricci, i negozianti fanno affari d’oro e i pochi abitanti del Lido brontolano per il caos che interrompe il loro quieto vivere lontano dai riflettori.
Grandissime le aspettative dopo che il programma è noto. Sembra che il direttore Alberto Barbera abbia trovato la formula giusta per fare incetta di pubblico, accreditati e, soprattutto, cinema. Non era facile, considerando il proliferare di manifestazioni non troppo dissimili e spesso in contemporanea, ma probabilmente il richiamo del Lido è ancora forte per chi vuole provare a imporsi non solo nella solita nicchia di cinefili arrabbiati e maleodoranti, ma anche su una platea ampia. Occhi puntati sull’apertura. Tolto Everest, infatti, che si è rivelato un fuoco di paglia, gli altri film delle ultime edizioni (Birdman, Gravity) sono stati protagonisti assoluti della notte degli Oscar. Che ne sarà, quindi di La La Land? Personalmente ho adorato il trailer appena ho avuto al fortuna di vederlo a Ciné a Riccione, il consueto appuntamento estivo con esercenti e distributori per parlare dei film dell’autunno/inverno. Apertura a parte, che secondo me sarà con il botto, aspettative altissime anche per Denis Villeneuve con Arrival, sempre più lanciato e si dice assente perché sul set di Blade Runner 2, ma è attesissimo pure Nocturnal Animals di Tom Ford, che torna al Lido per la sua opera seconda dopo i fasti di A Single Man (Coppa Volpi a Colin Firth). Curiosità anche nei confronti di Mel Gibson che torna a ruggire con il war-movie Hacksaw Ridge. Grandi le aspettative pure per il prolifico Pablo Larrain con Jackie, incentrato sulla figura di Jacqueline Kennedy, che riporterà al Lido Natalie Portman in un ruolo che pare destinato ad attirare il voto dei membri dell’Academy ai prossimi Oscar. Più scetticismo verso l’Italia. Il trio Giuseppe Piccioni, Roan Johnson e Massimo D’Anolfi e Martina Parenti (li consideriamo insieme perché registi di un unico film) sembra bislacco, il che potrebbe anche riservare sorprese.
La curiosità di vedere come sarà quest’anno il festival è quindi tanta. Non resta che finire la valigia, documentarsi senza esagerare (arrivare preparati sì, saputi no) e andare in stazione per prendere il treno per Venezia. Lido arrivo!!!
Mercoledì 31 agosto 2016
L’arrivo a Venezia è ogni volta vagamente ansiogeno. Ti sembra sempre di poter perdere qualcosa di importante che non avevi capito o su cui non ti eri preparato in tempo. La sensazione è quella della paralisi delle opzioni: tante cose da fare, tutte sovrapposte, tra cui pare impossibile scegliere. Un lungo respiro consente di mettere ogni tassello al posto giusto e di trovare la giusta alchimia per poter affrontare con razionalità il succedersi dei frenetici eventi.
Appena sbarchi al Lido è l’odore che ti colpisce e ti riporta a quella parentesi dalla vita (vera e non cinematografica) dove immagini da ogni parte del mondo si sostituiscono per una decina di giorni alla realtà. Ma volete sentire parlare di cinema e dell’effetto madeleine suscitato dalle conifere lidensi di cui probabilmente poco vi importa? E allora, che cinema sia! Mentre in passerella sfilano Emma Stone e Damien Chazelle per La La Land (grande assente Ryan Gosling, anche lui sul set di Blade Runner 2), oltre al consueto circo italico in vetrina (come in tutte le aperture che si convengono), corro all’anteprima stampa di The Light Between the Ocean, il film con la coppia del momento (Michael Fassbender e Alicia Vikander) tratto dall’omonimo romanzo strappalacrime di M.L. Stedman e diretto da Derek Cianfrance, per molti (no, per me no!) un regista di culto.
La trama consentiva lacrime & riflessioni, combine spesso pericolosa:
Nell’estremo lembo dell’Australia occidentale un reduce traumatizzato della Prima guerra mondiale si dedica al suo nuovo lavoro come guardiano del faro, cercando pace nella solitudine dell’isola. La sua intenzione di rimanere solo svanisce il giorno in cui conosce una vivace ragazza che abita dall’altra parte della baia. Malgrado gli ostacoli, nasce l’amore. I due si sposano e sperano di creare una famiglia, ma il fato interviene. Quando il mare porta a riva una barca con un uomo morto e una bambina a bordo, innesca una serie di decisioni che porteranno a conseguenze devastanti.
Purtroppo il risultato non convince: troppa fretta di arrivare al dunque, troppi schematismi, troppe coincidenze, troppe corsette di Alicia Vikander, troppa rigidità di Michael Fassbender, troppo urlato il dolore dei personaggi, troppo grossolana la sceneggiatura. Un film che probabilmente accontenterà il pubblico in cerca di lacrime facili, ma che nel complesso non funziona. È un po’ l’outlet della commozione. Poco alchemici anche i due protagonisti. Per me è un NO senza appello. Capisco comunque la necessità di inserirlo in programma, due star sono sempre due star, forse un Fuori Concorso risultava però più appropriato.
Giovedì 1 settembre 2016
Giornata di grande fermento che comincio con il recupero del film di apertura. Ho zittito ogni commento di chi lo ha visto per farmi un’idea il più possibile vergine, ma ovviamente si parte sempre con un sentore di fondo. La saggezza sta nel non adattare tale sentore al film ma nel metterlo tra parentesi, in stand-by, in attesa di essere, più che confermato o smentito, soprattutto dimenticato. Comunque sia, La La Land è bellissimo. Omaggia il musical dei tempi d’oro ma non si ferma alla mera citazione e riesce a rendere i protagonisti vivi e pulsanti grazie alle dinamiche contemporanee in cui li inserisce. E poi le canzoni sono meravigliose, il piano sequenza iniziale sembra una dichiarazione di intenti e ti stordisce, “City of Stars” non puoi smettere di fischiarla anche dopo ore, “Audition” ti commuove, “Someone in the Crowd” è colore e speranza, “Planetarium” è sogno e il rewind finale è davvero struggente. Una fusione di musica e immagini che ti prende il cuore e lo frulla. Che dire poi dei due protagonisti. Emma Stone interpreta il ruolo della vita, quello per cui sarà ricordata negli anni a venire, e riesce a trovare la grazia del personaggio. Ryan Gosling ha una parte meno sfumata, ma è il personaggio a essere un po’ fossilizzato nelle sue convinzioni. Insieme, comunque, sono davvero carini ed è ciò che viene loro richiesto. Tra l’altro il loro impaccio nel ballo e nel canto (minimo, vorrei averlo io!) è perfetto perché dona verità ai personaggi e li toglie dall’aura del mito. Ma la vera novità del film, quello che ti fa dire “Oh! Finalmente!” è che, “Oh! Finalmente!”, è tornato il “campo lungo”. Negli ultimi anni i pochi musical e film musicali funzionavano grazie a un montaggio che rendeva gli attori bravi e il ritmo incalzante. Penso a quel tritatutto che è Moulin Rouge, un vero e proprio coito interrotto, e sempre sul più bello. In La La Land, invece, si possono vedere gli attori cantare e ballare senza il supporto di tagli o aggiustamento. O, meglio, se ci sono, e probabilmente ci sono, non si vedono! E la regia consente sempre di avere una visione d’insieme che appaga l’occhio ma anche il cuore. “Oh! Finalmente!”, aggiungo!
Bene, per me Venezia si chiude qui!! Ah Ah, quando vedi un film che secondo te rimarrà nella storia del cinema e del costume ti sembra che il resto possa solo essere peggio! Vedremo! Intanto sto raccogliendo i primi commenti (questa volta li ascolto) sul film e mi sembra che tutti abbiamo trascorso le due ore e passa di film nell’incanto.
Certo, passare da un film leggero e dedito al bello come La La Land a uno cerebrale e un po’ saputo come Les Beaux Joues d’Aranjuez di Wim Wenders è causa di inevitabile spaesamento. Ma vediamo la trama del film di Wenders, che ho avuto la fortuna di vedere in Sala Grande alla presenza del cast al completo:
Un bel giorno d’estate. Un giardino. Una terrazza. Una donna e un uomo sotto gli alberi, con una dolce brezza estiva. In lontananza, nella vasta pianura, la silhouette di Parigi. Comincia una conversazione: domande e risposte tra la donna e l’uomo. Riguardano le esperienze sessuali, l’infanzia, i ricordi, l’essenza dell’estate e le differenze tra uomini e donne, riguardano la prospettiva femminile e la percezione maschile. Sullo sfondo, nella casa che si apre sulla terrazza, sulla donna e sull’uomo: lo scrittore, nell’atto di immaginare questo dialogo e di scriverlo. O forse è il contrario? Forse sono i due personaggi, lì in fondo, che gli dicono cosa mettere sulla carta: un lungo e definitivo dialogo tra un uomo e una donna?
Mentre il testo di riferimento di Peter Handke, incentrato sulle differenze tra uomo e donna, pare un bel po’ datato, colpisce la regia di Wenders e l’utilizzo originale del 3D, in grado di rendere al meglio i suoni della natura e le differenti profondità, non solo di campo, in cui si muovono i personaggi. Il film, però, è di quelli destinati a non uscire dalla Sala Grande, in cui molti degli applausi scroscianti sono partiti da chi, durante la visione, ronfava profondamente.
E mentre il pubblico in passerella si mangia con gli occhi la coppia più glamour del momento, Michael Fassbender e Alicia Vikander, in realtà un po’ troppo low-profile, il ritmo incessante delle proiezioni pone davanti a una scelta: il film in concorso El Cristo ciego o l’inaugurazione del Cinema in Giardino, la neonata sezione nel nuovo cinema tutto rosso a lato dell’ex Casinò creata prevalentemente per il pubblico e che propone opere trasversali di generi differenti? La scelta, in realtà, non si pone perché pare che accedere, soprattutto di sabato e soprattutto per Muccino, al Cinema in Giardino sia piuttosto complicato, occorreva munirsi di apposito bollino. Meglio così, tanto il film esce subito dopo il festival in tutta Italia. Buttiamoci quindi nella co-produzione franco/cilena di Christopher Murray. Ecco la trama:
Michael è convinto di aver avuto una visione divina nel deserto. I vicini non gli credono e lo considerano folle. Una sera un suo amico d’infanzia subisce un incidente in un lontano villaggio. Michael abbandona ogni cosa per intraprendere a piedi nudi un pellegrinaggio nel deserto con l’intento di guarire l’amico mediante un miracolo: sarà un viaggio che attraverserà la disperazione di una società bisognosa di fede.
Ed ecco le intenzioni del regista:
“El Cristo ciego è un film su come la fede possa essere un modo per sopravvivere in una società a rischio. La storia di Michael è ambientata nel deserto del Cile settentrionale, area caratterizzata da una forte religiosità e da una drammatica realtà sociale, due aspetti prodotti dall’arrivo di grandi compagnie che hanno sfruttato iniquamente le risorse minerali esistenti, privando le comunità locali del diritto di vivere come meritano“
Non poteva mancare, o forse sì, il film dal Sud del mondo con derive cristologiche. Uno di quei prodotti che paiono costruiti per compiacere le platee festivaliere e lì restare.
In conclusione di serata un altro film che molti hanno già visto ma che scelgo di godermi nella proiezione ufficiale in Sala Grande. Si tratta di una delle opere più attese: Arrival di Denis Villeneuve.
Non è il capolavoro che tutti si aspettavano, ma un film di fantascienza filosofica interessante che parla di linguaggio e comunicazione, in questo caso tra alieni e umani. La storia verte sull’arrivo di alcune astronavi in varie parti del mondo, astronavi davvero spettacolari nel loro essere sospese su un’umanità in attesa. Una esperta linguista viene reclutata per capire le intenzioni degli alieni. La linguista è Amy Adams, attrice che ha il potere, non comune, di parlare con lo sguardo. Visivamente il film è molto sofisticato, il parlare extra-terrestre prende la forma di macchie di colore e la loro resa è davvero efficace. Convince meno tutta la parte action, che pare buttata un po’ lì per non perdere del tutto il pubblico dei multiplex, così come non convincono le caratterizzazioni un po’ binarie di alcuni personaggi (vedi Forest Whitaker). L’insieme, però, regge e gronda fascino e il colpo di scena finale, che molti dicono di avere ampiamente previsto, mi ha invece colto completamente impreparato. Non sapendo granché di paradossi temporali e della teoria di Sapir–Whorf, mi fermo qui, in superficie. All’atmosfera perturbante (termine odioso perché di gran moda, lo so) contribuiscono di sicuro le note minimaliste di Jóhann Jóhannsson, che ricordiamo insieme a Villeneuve già in Sicario e Prisoners.
Chiacchierando con un amico è emerso un imbarazzante parallelismo. E se Arrival fosse il remake di L’arrivo di Wang dei Manetti Brothers? Ipotesi inquietante, perniciosa, ma anche irresistibile.
Venerdì 2 settembre 2016
Come sempre accade ai festival, soprattutto a quelli ricchi di frutti gustosi, dopo solo due giorni sembra di essere lontano dalla routine casalinga già da un lustro o due. Invece il festival è appena iniziato e sta per cominciare il primo week-end, quello più importante perché in grado di accendere i riflettori sulla manifestazione che può quindi definitivamente decollare o precipitare invece nell’oblio. Diciamo che dopo la strepitosa apertura con La La Land ogni oblio pare remoto, ma è pur vero che un festival come quello di Venezia dura dieci giorni, quindi la strada è ancora lunga!
Oggi giornata anche molto glamour. Una delle passerelle più attese è quella di Nocturnal Animals, con Amy Adams, già ieri in laguna per presentare Arrival e in odore di Coppa Volpi. Con lei Jake Gyllenhaal, Michael Shannon, l’astro nascente Aaron Taylor-Johnson e, soprattutto, l’acclamato Tom Ford. Molta attesa anche per una delle coppie più amate dal pubblico, gli inossidabili Liev Schreiber e Naomi Watts, insieme anche sul grande schermo nel film The Bleeder di Philippe Falardeau.
Ma accantoniamo il glamour e fiondiamoci nel buio della Sala Darsena dove sta per cominciare Nocturnal Animals.
Per la trama mi faccio aiutare dal catalogo:
Dal regista e sceneggiatore Tom Ford, un inquietante thriller romantico, che esplora il sottile confine tra amore e crudeltà, vendetta e redenzione. Susan Morrow, una mercante d’arte di Los Angeles, conduce una vita agiata ma vuota insieme al marito Hutton Morrow. Durante un weekend, mentre Hutton è via per un viaggio di lavoro, Susan trova un pacco inaspettato nella cassetta delle lettere. È un romanzo intitolato Nocturnal Animals, scritto dal suo ex marito, Edward Sheffield, con cui Susan non ha contatti da anni. Insieme al manoscritto c’è un biglietto di Edward che incoraggia Susan a leggere il libro e a chiamarlo durante la sua visita in città. Sola nel suo letto, di notte, Susan si immerge nella lettura. Il romanzo è dedicato a lei… …ma il contenuto è violento e devastante. Susan è molto colpita dalla scrittura di Edward e non può fare a meno di ricordare i momenti più intimi della loro storia d’amore. Cercando di guardare dentro se stessa oltre la superficie patinata della sua esistenza, Susan vede sempre più chiaramente come quel libro sia il racconto di una vendetta, che la costringe a rivalutare le scelte fatte e risveglia in lei una capacità di amare che temeva di aver perso, mentre la storia procede verso una resa dei conti che riguarderà sia l’eroe del romanzo che lei.
Il commento del regista, sempre dal catalogo, è un valido supporto:
“Nocturnal Animals è un racconto che esorta a confrontarsi con le scelte che facciamo nel corso della vita e sulle conseguenze delle nostre decisioni. In una cultura sempre più “usa e getta”, dove tutto, incluse le relazioni, può essere facilmente buttato via, questa storia parla di lealtà, dedizione e amore. È una storia sul senso di isolamento che tutti proviamo, e sull’importanza di dare valore ai rapporti personali che ci sostengono nella vita“.
Ed ora, un paio di stimoli alla rinfusa e, soprattutto, a caldo:
– i titoli di testa sono la sequenza shock del festival e hanno lo scopo di attirare l’attenzione del pubblico;
– non ho letto il romanzo “Tony & Susan” di Austin Wright da cui il film trae origine e che mi dicono avere un finale diverso, più chiaro nell’esplicitazione dei conflitti;
– tre i piani narrativi che si intersecano e che Tom Ford porta avanti con chiarezza espositiva ed efficace intrico: la realtà, e cioè Susan che legge il libro mandatole dall’ex-marito; la fantasia, e cioè il libro di Hutton, una storia truce di violenza a una famiglia in viaggio; i flashback della protagonista, utili soprattutto per chiarire a noi spettatori ciò che è accaduto nel passato;
– l’incedere è accattivante, lo scioglimento di classe, in mezzo, però, troppe derive poco utili allo sviluppo narrativo e troppi dettagli di una storia nella storia che in fondo serviva più che altro come metafora di un rapporto finito male;
– Jake Gyllenhaal come icona di mediocrità è scelta fin troppo facile e un po’ usurata;
– Aaron Taylor-Johnson come sadico e violento omicida è un po’ troppo figo
– Amy Adams può fare ciò che vuole perché è una brava attrice, ma come icona fashion forse è un po’ borderline;
– il mondo della moda un po’ ridicolizzato arriva un po’ stonato, della serie “Tom! Non sputare nel piatto in cui hai mangiato e mangi, non sei credibile!”
– molto evocativa la colonna sonora di Abel Korzeniowski;
– il film arriva a turbare, forse è un po’ disequilibrato, ma lascia l’amaro in bocca e ciò è cosa buona.
Ancora ammaliati dalla vendetta sottile e perturbante (lo so, termine odioso perché inflazionato!) di Jake Gyllenhaal ritorno in sala Darsena, questa volta per The Bleeder. Le uniche informazioni che ho a disposizione sono che nel cast c’è la coppia Liev Schreiber e Naomi Watts, mentre in regia troviamo Philippe Falardeau.
Questa la trama:
The Bleeder è la storia vera di Chuck Wepner, venditore di alcolici del New Jersey che resistette 15 round contro il più grande pugile di ogni tempo, Muhammad Ali. La sua storia ha ispirato la serie Rocky, che ha registrato incassi record di miliardi di dollari. Nei suoi dieci anni sul ring Wepner subì due K.O., otto rotture del naso e 313 punti di sutura. Ma le sue lotte più dure furono fuori del ring, dove condusse una vita epica fatta di droghe, alcol, donne spregiudicate, incredibili successi e drammatiche cadute.
E questo il commento del regista:
“The Bleeder non è un film sul pugilato, è un film che ha un pugile come protagonista. Il suo climax non è sul ring, anche se penso che abbiamo fatto un buon lavoro sul ring. E credo che al pubblico tutto questo piacerà: è entusiasmante, è divertente. Ci sono tanti punti della trama che rispecchiano la vita reale. È davvero un grande viaggio negli anni settanta. Durante le riprese, eravamo consci che gli anni settanta erano essi stessi uno dei protagonisti: la musica, il design, gli abiti allora di moda. Tutto ciò rende sexy il film. Alla fin fine, The Bleeder è un’opera sull’ascesa, sulla caduta e sulla redenzione, cioè mitologia classica estremamente raccontabile“.
Che altro si può aggiungere?
Beh, che è un film onesto, ben fatto e coinvolgente, con un soggetto bizzarro, che però dubito in molti vedranno. Forse non è più tempo di Rocky!
Dopo un pranzo al volo e una pausa per fissare alcuni punti sui film visti, necessari per evitare di sovrapporre immagini e titoli e volti, è il momento del nuovo film del prolifico François Ozon, ormai un veterano del Lido e del concorso. Il film è l’enigmatico Frantz.
La trama è molto intrigante:
Al termine della Prima guerra mondiale, in una cittadina tedesca, Anna si reca tutti i giorni sulla tomba del fidanzato Frantz, morto al fronte in Francia. Un giorno incontra Adrien, un giovane francese anche lui andato a raccogliersi sulla tomba dell’amico tedesco. La presenza dello straniero nella cittadina tedesca susciterà reazioni sociali molto forti e sentimenti estremi.
Il commento del regista, preso come sempre dal catalogo, aiuta di sicuro nell’interpretazione del film:
“In Frantz si ritrovano molte delle mie ossessioni. Ma il fatto di affrontarle in un’altra lingua, con attori differenti, in luoghi diversi dalla Francia, mi ha costretto a reinventarmi e spero che questo abbia dato nuova energia e una nuova dimensione a quei temi. In questo film ci sono state molte sfide entusiasmanti. Prima di realizzarlo non avevo mai girato film di guerra o scene di battaglia, né avevo mai filmato una piccola città tedesca, Parigi in bianco e nero, in tedesco… Per me è stato molto importante raccontare questa storia dal punto di vista tedesco, dalla parte dei perdenti, attraverso gli occhi di coloro che furono umiliati dal Trattato di Versailles, in modo da poter illustrare come la Germania di quel tempo fosse terreno fertile per la diffusione del nazionalismo. Volevo anche giocare con temi tipicamente melodrammatici come la colpa e il perdono, per poi virare verso la desincronizzazione dei sentimenti“.
La sensazione è che Ozon, qui più che mai, giochi con le aspettative del pubblico dando priorità al disattenderle. Crea quindi false piste, solletica dubbi e/o ipotesi per poi cambiare rotta e spiazzare. Tutto anche affascinante, a partire da un utilizzo del bianco e nero che solo in poche sequenze diventa colore (anche in questo caso evitando accuratamente una facile leggibilità), ma alla lunga un po’ fine a se stesso.
A concludere la giornata è l’ennesima provocazione dell’austriaco Ulrich Seidl che in Safari ripropone lo stile asciutto e crudo per cui è diventato famoso per documentare le azioni di un gruppo di turisti a caccia di animali. Ecco la sinossi ufficiale:
Africa. Turisti tedeschi e austriaci in vacanza per cacciare nelle distese selvagge, dove antilopi, impala, zebre, gnu e altre creature pascolano a migliaia. Guidano nel bush, si appostano, braccano le loro prede, sparano, singhiozzano per l’eccitazione e si mettono in posa davanti agli animali che hanno catturato. Un film sulle vacanze che parla della pratica di uccidere, un film sulla natura umana.
Ed ecco il commento al film dello stesso Seidl:
“Con Safari non mi interessava tanto mostrare i ricchi, gli aristocratici, gli sceicchi e gli oligarchi che praticano la caccia grossa in Africa, quanto il cacciatore comune. Da molti anni ormai, cacciare in Africa è diventato alla portata del cittadino medio occidentale. Volevo scoprire e mostrare cosa spinge queste persone a cacciare, e perché ne possono addirittura diventare ossessionate. Ma strada facendo è diventato anche un film sulla pratica di uccidere: uccidere per piacere, senza mai affrontare il pericolo, uccidere come una sorta di liberazione emotiva“.
Come al solito il regista giudica i personaggi e si fa beffe di loro per esplicitare il suo punto di vista che non mira tanto a capire o sviscerare, quanto a distruggere. E ci riesce benissimo. Beffardo, fastidioso e provocatorio. Ne abbiamo davvero bisogno? In mezzo a tante voci che fingono di dire le stesse cose e credere negli stessi valori probabilmente sì, ma è uno sguardo come al solito viziato, pernicioso e ambiguo.
Difficile andare a dormire dopo essere stati torturati da Seidl, forse ci vuole una birra!!
Sabato 3 settembre 2016
“It’s another day of Sun” si canta nello strepitoso piano sequenza iniziale di La La Land, ma Brimstone dell’olandese Martin Koolhoven, il primo film del mattino in Sala grande, promette un risveglio crepuscolare. Tuoni e fulmini, altro che sole! Ad annunciare cupezza è la sinossi del catalogo:
Una trionfale epopea di sopravvivenza, ambientata nelle terre selvagge del vecchio West americano. Un racconto di potente femminilità e resistenza contro la spietata crudeltà in un inferno terrestre. L’eroina è Liz, plasmata dalla bellezza delle lande desolate, di grande cuore e coraggio, perseguitata da un vendicativo Predicatore – un diabolico fanatico, che si trasforma nella sua nemesi. Ma Liz è una sopravvissuta, non una vittima – una donna di impressionante forza, che risponde con stupefacente coraggio al desiderio di una vita migliore, che sia lei sia sua figlia meritano di vivere. Senza paura, perché la vendetta è vicina.
Che dire “Wow!”. E sì, perché l’opera di Koolhoven, che non mi sembra sia piaciuta granché, è un solido western fatto di contrasti forti, dove l’atavica contrapposizione tra Bene e Male (non casuale la maiuscola) trova sfogo in una forma cinematografica controllata e consapevole. Il regista, infatti, ricorre a tutti i cliché del western, ma li contamina con l’horror e soprattutto con dinamiche contemporanee, incentrate sulla difficoltà di comunicazione negli affetti e nei rapporti sociali, nella sfiducia nei confronti delle istituzioni, e in un approccio tutt’altro che conciliante con la religione, oppio per i popoli e scusa per giustificare derive personali non propriamente edificanti. Prima parte strepitosa, poi, a mano a mano che il film si srotola (l’andamento è a ritroso) gli eccessi prendono il sopravvento. Ma è grande cinema.
Dalla grevità olandese alla bellezza italica il passo può essere breve. Non occorre nemmeno cambiare sala (in realtà è obbligatorio uscire comunque). Alle 11.30, infatti, sempre in Sala Grande, sono previste le prime due puntate della nuova serie tv targata Sky di Paolo Sorrentino. Sontuoso il cast: Jude Law, Diane Keaton, Silvio Orlando, Scott Shepherd, Cécile de France, Javier Cámara, Ludivine Sagnier. E vediamoci questo The Young Pope.
Ecco la sinossi ufficiale:
The Young Pope racconta in dieci episodi la storia di Lenny Belardo, alias Pio XIII, il primo papa americano della storia. Giovane e affascinante, la sua elezione sembrerebbe il risultato di una strategia mediatica semplice ed efficace del collegio cardinalizio. Ma, com’è noto, le apparenze ingannano. Soprattutto nel luogo e tra le persone che hanno scelto il grande mistero di Dio come bussola della loro esistenza. Quel luogo è il Vaticano, quelle persone sono i vertici della Chiesa. E il più misterioso e contraddittorio di tutti si rivela Pio XIII. Scaltro e ingenuo, ironico e pedante, antico e modernissimo, dubbioso e risoluto, addolorato e spietato, Pio XIII prova ad attraversare il lunghissimo fiume della solitudine dell’uomo per trovare un Dio da regalare agli uomini. E a se stesso.
Ecco le intenzioni del regista (dal catalogo):
“I segni evidenti dell’esistenza di Dio. I segni evidenti dell’assenza di Dio. Come si cerca la fede e come si perde la fede. La grandezza della santità, così grande da ritenerla insopportabile. Quando si combattono le tentazioni e quando non si può fare altro che cedervi. Il duello interiore tra le alte responsabilità del capo della Chiesa cattolica e le miserie del semplice uomo che il destino (o lo spirito santo) ha voluto come pontefice. Infine, come si gestisce e si manipola quotidianamente il potere in uno Stato che ha come dogma e come imperativo morale la rinuncia al potere e l’amore disinteressato verso il prossimo. Di tutto questo parla The Young Pope“.
Impossibile esprimere un giudizio assennato senza avere visto l’intera opera. Le prime due puntate sono un Sorrentino al 100%. Le immagini che scorrono sono infatti molto ricercate, curate, sovraccariche, ridondanti e la narrazione procede bislacca ma accattivante. I dettagli, come al solito, diventano protagonisti. Per me è un sì, ma occorre, come dicevo, il pacchetto completo per farsi un’idea davvero significativa.
La giornata procede con approfondimenti e chiacchiere, perché un festival è anche un momento di incontro dove il cinema si vede e si discute. Confronti accesi, favoriti dallo stare in fila insieme e dal fatto che per dieci giorni la vita vera è tra parentesi e, grazie al cinema, ci si può tuffare in quella degli altri.
Il concorso continua con il primo dei film italiani in competizione, il documentario Spira Mirabilis di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti.
In questo caso è più che mai necessario leggere dal catalogo la sinossi:
Il fuoco: Leola One Feather e Moses Brings Plenty, una donna sacra e un capo spirituale, e la loro piccola comunità lakota da secoli resistenti a una società che li vuole annientare. La terra: le statue del Duomo di Milano sottoposte a una continua rigenerazione. L’aria: Felix Rohner e Sabina Schärer, musicisti inventori di strumenti/sculture in metallo. L’acqua: Shin Kubota, uno scienziato-cantante giapponese che studia la Turritopsis nutricula, una piccola medusa immortale. L’etere: Marina Vlady, che dentro un cinema fantasma ci accompagna nel viaggio narrando L’immortale di Borges. Sono i protagonisti di Spira Mirabilis, girato in diversi luoghi del mondo, una sinfonia visiva, un inno alla parte migliore degli uomini e alla tensione verso l’immortalità.
Il commento dei registi:
“Venuti a conoscenza di Shin Kubota e dei suoi studi sulla medusa immortale, abbiamo capito che questo era il punto di partenza del film: un uomo alle prese con l’immortalità. Ci interessava realizzare un film in cui l’uomo si confrontasse con i propri limiti e le proprie aspirazioni. Attraverso un percorso di accumulo, suggestione, assonanze abbiamo capito che l’acqua doveva accompagnarsi con gli altri elementi della natura: terra, aria, fuoco ed etere. Milano, Berna, Wounded Knee, Shirahama su una cartina geografica immaginaria compongono il disegno della nostra spirale meravigliosa. Il film combina pensiero razionale ed emotivo e dà vita a un affresco poetico che racconta la parte migliore di noi, mostrando la responsabilità, la debolezza e la forza che gli uomini hanno nei confronti del mondo. Spira Mirabilis è un film contemplativo che cerca di toccare “il cuore del cuore delle cose” in modo che dall’osservazione nasca una trasfigurazione del reale. Da questa tensione scaturisce la “spirale meravigliosa”: l’umano tentativo di accettare e contemporaneamente superare i propri limiti“.
Mah, che dire, mi sembra che siamo più dalle parti della video arte che del cinema, forse un documentario di questo tipo avrebbe trovato una collocazione più consona in Orizzonti. Fatico a trovare corrispondenza tra la sinossi, il punto di vista dei registi e le immagini che ho visto scorrere sul grande schermo della Sala Darsena e in questo senso mi sembra che la capacità comunicativa dell’opera latiti. Capisco comunque la necessità di allargare i confini del Concorso. In sala è stato un fuggi fuggi generale dopo la prima mezz’ora, alcuni anche prima, dato sicuramente non indicativo del valore di un’opera (gli addetti ai lavori dovrebbero avere un po’ più di pazienza e strumenti per provare a capire) ma sicuramente della difficoltà di fruirla.
Dopo il macigno italiano è tempo di relax. È infatti la volta dell’atteso Pets, che sembra destinato a confermare l’appeal, perlomeno commerciale, della Illumination, seria e motivata concorrente di Pixar, Disney e Dreamworks nel campo dell’animazione.
La trama promette spasso:
In un vivace condominio di Manhattan, la vera giornata inizia dopo che gli esseri umani escono per andare al lavoro o a scuola. È allora che gli animali domestici di ogni razza, pelliccia e piumaggio vivono la loro routine quotidiana che va dalle nove alle diciassette: andare insieme a passeggio, raccontarsi storie umilianti sui loro padroni, confrontarsi sugli sguardi più irresistibili da assumere per ottenere più snack, e guardare Animal Planet come se fosse un reality. Il cane che abita ai piani alti dell’edificio, Max, subisce uno sconvolgimento della propria vita viziata quando la sua padrona Katie porta a casa Duke, un cane randagio trasandato e non addomesticato. Quando questa improbabile coppia di cani si ritrova a passeggiare per le strade di New York, dovrà mettere da parte ogni divergenza e fare squadra contro un coniglietto morbido quanto astuto, di nome Nevosetto, che sta reclutando un esercito di animali abbandonati dai loro padroni, pronti a prendersi la rivincita contro gli umani… Il tutto prima che Katie torni a casa per l’ora di cena.
Il film è piacevole, ma si sta ormai delineando la ricetta della Illumination: character design dei personaggi perfetto, situation comedy irresistibile, animazione fluida, ma ciò che sempre più sembra mancare è un’anima, un cuore, una storia da raccontare che non si limiti a fungere da canovaccio. Visto il trailer, infatti, visto tutto. È già uscito in America e sta facendo un grande successo, presumo lo sarà anche in Italia, ma il rischio è quello di creare una sorta di disaffezione nei confronti del pubblico, che sorride alla gag, ma non si interessa ai personaggi e al loro destino. Insomma, il mantra “guarda, sorridi e dimentica” potrebbe avere il fiato corto. Ci auguriamo quindi che l’imminente Sing aggiusti un po’ il tiro in tal senso.
Domenica 4 settembre 2016
È giunta la domenica e mentre passeggio verso la Sala Darsena provo a pianificare qualche cambiamento nel programma in modo da includere film dalle sezioni parallele. Il concorso infiamma, è il cuore del festival, ma oltre al noto e al quasi noto una manifestazione imponente come quella veneziana permette anche di scoprire il nuovo. Vediamo. Intanto cominciamo sui campi di battaglia con il ritorno di Mel Gibson in prima linea insieme a un cast notevole che include Andrew Garfield, Vince Vaughn, Teresa Palmer e Sam Worthington. Per lui un prestigioso Fuori Concorso con Hacksaw Ridge. La storia che racconta trae origine da fatti reali. Il protagonista è infatti il primo obiettore di coscienza della storia. La battaglia è quella contro i giapponesi a Okinawa, durante la Seconda guerra mondiale, e il racconto verte su un ragazzo che decide di servire la patria non imbracciando il fucile ma salvando vite umane. Scelta assai difficile in un contesto ruvido e machista dove non sembra esserci spazio se non per armi, distruzione e sangue. Come sempre Gibson gira molto bene, coreografa gli scontri a fuoco con incredibile precisione e immerge lo spettatore nell’atmosfera di terrore di un campo di battaglia. Sempre come al solito, il suo cinema si ammanta di ambiguità e abbonda di retorica in un impasto di fede, carne e tormenti che non convince. Se, infatti, si apprezza la messa in scena, l’ennesimo eroe suo malgrado, l’ennesima manipolazione dei fatti e l’ennesima apparenza di problematicità invece non convincono. Un interrogativo sorge spontaneo: abbiamo ancora bisogno di un cinema di questo tipo?
Ancora rintronato dai botti di Gibson trovo rifugio in Sala Perla. È l’occasione che mancava per esplorare territori remoti, in questo caso l’Islanda. Ad attirare è soprattutto l’incredibile voto su IMDB, superiore a 8, per Heartstone (in originale Hjartasteinn) di Guðmundur Arnar Guðmundsson. È un racconto di formazione ambientato in un piccolo villaggio di pescatori, in un’estate dopo la quale tutto sarà diverso perché nuove consapevolezze si faranno strada nei due giovani protagonisti, gli adolescenti Thór e Christian. Nulla di nuovo, va detto, ma in fondo, lo ripetiamo sempre, ogni storia è già stata raccontata e la differenza è nel come più che nel cosa. E il regista riesce a rendere credibile questa fase delicata nella vita dei due ragazzini, invischiati in quell’età in cui tutto è possibile ma sembra impossibile. Se, poi, è difficile crescere ovunque, in un microcosmo legato a leggi arcaiche apparentemente incontestabili lo è sicuramente di più, perché uscire dai ranghi comporta lotte e, si sa, ai margini si scivola. Un film che sarebbe interessante proporre nelle scuole, da discutere insieme agli studenti che quelle pulsioni le vivono ingigantendole o minimizzandole, il più delle volte reprimendole.
Oggi giornata davvero internazionale. Dall’Islanda passo infatti, attraverso un film in Concorso, all’Argentina, con El Ciudadano Illustre di Mariano Cohn e Gastón Duprat. Ecco la trama:
Lo scrittore argentino Daniel Mantovani vive in Europa da trent’anni ed è famoso per aver vinto il Premio Nobel per la letteratura. I suoi romanzi ritraggono la vita di Salas, il paesino in cui è cresciuto e dove non è mai più tornato da quando era ragazzo. L’amministrazione locale di Salas lo invita per conferirgli il più alto riconoscimento del paese: la medaglia per il Cittadino Illustre. Il viaggio prefigura un ritorno trionfante al paese natale, un viaggio nel passato per incontrare di nuovo gli amici, gli amori e i paesaggi della giovinezza, ma soprattutto un viaggio nel cuore stesso della scrittura di Mantovani, nella fonte della sua ispirazione. Una volta lì, lo scrittore confermerà tanto le affinità che lo legano a Salas, quanto le assolute differenze che lo trasformeranno rapidamente in un elemento estraneo e di disturbo per la vita del paese. La calorosa accoglienza dei compaesani scomparirà con il crescere delle controversie, raggiungendo un punto di non ritorno che rivelerà due visioni incompatibili del mondo.
Ed ecco cosa ne dice il regista (è sempre il catalogo la fonte, ormai lo avrete capito):
“El Ciudadano Ilustre affronta diversi temi contemporanei. Uno di questi è il rifiuto del punto di vista esterno e critico che il protagonista, uno scrittore che ha vissuto all’estero per decenni, rappresenta per i suoi conterranei e per la loro posizione nazionalistica. Per questo scrittore cosmopolita lo stile di vita tranquillo e l’esaltazione degli usi locali propri del suo paese natale sottintendono una società che rifiuta ogni idea di progresso. A tale conflitto si aggiunge quella sorta di ferita aperta nell’orgoglio dell’Argentina, paese di grandi scrittori che però non hanno mai vinto il Premio Nobel per la letteratura. Il film salda il debito per mezzo del protagonista Mantovani, che ottiene il premio che fu per anni negato a Jorge Luis Borges“.
Si ride amaro in un’opera che sfocia quasi nell’horror. Una piacevole sorpresa dall’Argentina, che dice molto sulla difficoltà di affiancare stili di vita differenti e diverse visioni del mondo, ma dice molto anche sull’animo umano. Un film che spero venga acquistato da qualche distributore italiano perché può piacere anche al pubblico. Curiosa la reazione di parte della critica, che delinea subito due forme inconciliabili di approccio. Il cinephile e l’approssimativo. Il primo avanza al grido di “Basta che sia francese e possibilmente poco comunicativo!”. Il secondo urla invece “Basta che dopo me posso fa’ due spaghi e che nun me devo scervella’ troppo!”. Io non mi sento rappresentato da nessuna delle due categorie, ma le capto parecchio in giro declinate in varie sfumature.
A concludere la serata è un altro film in concorso: La region salvaje di Amat Escalante, coproduzione tra cinque paesi (Messico, Danimarca, Francia, Germania e Norvegia). La trama, come spesso accade (qui molto), dice più cose di quelle che la visione consente di capire:
Alejandra, giovane madre lavoratrice, cresce due figli insieme al marito, Ángel, in una piccola città messicana. Suo fratello Fabian è infermiere nell’ospedale del luogo. La loro vita di provincia è sconvolta dall’arrivo della misteriosa Veronica. Sesso e amore possono essere molto fragili in talune regioni in cui esistono forti valori familiari, ipocrisia, omofobia e maschilismo. Veronica convince queste persone che nel vicino bosco, in una capanna isolata, c’è qualcosa che non appartiene al mondo terrestre e che potrebbe essere la risposta ai loro problemi. Qualcosa alla cui forza essi non sanno resistere e che devono subire per non scatenarne l’ira.
Cerchiamo di capirne di più leggendo il commento del regista:
“Il film è una visione della lotta per conquistare l’indipendenza da parte di una giovane donna nata e cresciuta in una cultura fortemente maschilista, misogina e omofobica. L’ispirazione e le idee di questo progetto mi sono venute quando, nella mia città di Guanajuato, in Messico, ho letto un titolo di giornale che diceva: “Hanno annegato un piccolo frocio”. Si trattava di un infermiere che lavorava in un ospedale pubblico e, sebbene avesse dedicato la vita a servire la gente, veniva ricordato ai lettori del giornale soltanto come “un piccolo frocio”. Questo titolo è all’origine di La región salvaje. Alla storia ho aggiunto l’aspetto fantastico/ horror di una “creatura” per dare una rappresentazione simbolica dell’ambigua complessità dell’Es, fonte delle nostre necessità corporali, delle nostre esigenze, desideri e impulsi, soprattutto delle nostre pulsioni sessuali e aggressive“.
Per tutto il tempo ho pensato a Possession di di Andrzej Zulawski in cui l’amante di Isabelle Adjani è un mostro tentacolare. Per il resto tanta carne al fuoco, qualche suggestione, ma a un certo punto mi sono perso. Colpa mia o del film?
Lunedì 5 settembre 2016
“Passata è la tempesta, odo augelli far festa…”. Leopardi calza a pennello per descrivere il lunedì dopo il primo week-end, quello in cui ogni comunicazione con la terraferma è interrotta anche a causa della regata storica, e turisti, curiosi, appassionati, passanti, cinefili, cinofili, star, starlette, presenzialisti dell’ultima ora, fanno a gara per essere dove le cose accadono. Anche se è lunedì, comunque, e molti se ne sono andati, molti sono però rimasti, segno che il festival funziona.
Per cominciare l’appuntamento è alle 9 in sala Darsena per il secondo film italiano in concorso, il leggero, almeno dal titolo, Piuma.
Ecco di cosa parla:
Quando arrivano le difficoltà il Samurai se ne rallegra. Forse è perché è scemo, direbbe Cate. No, risponderebbe Ferro: è che quando l’acqua sale, la barca fa altrettanto. Per Ferro e Cate saranno i nove mesi più burrascosi delle loro vite, ma non hanno ancora compreso la tempesta che sta arrivando: alla bambina ci penseranno quando nasce. E poi comunque devono preparare la maturità insieme al Patema e agli altri amici, il viaggio in Spagna e Marocco… vogliono pensare all’estate più lunga della loro vita, alla casa dove stare insieme, ai loro diciotto anni. E a non essere pronti non sono solo Ferro e Cate ma anche i loro genitori: quelli, di Ferro, che prima li aiutano e poi vanno in crisi sfiorando il divorzio; quelli di Cate, più assenti e in difficoltà di lei. Tutti alle prese, loro malgrado, con un nipote in arrivo con quindici anni di anticipo. Insomma, di solito ci si mette trenta o quarant’anni per essere pronti a diventare genitori, Ferro e Cate hanno solo nove mesi. E purtroppo un figlio non ti aspetta. Ma se rimani leggero come una piuma e con il cuore dalla parte giusta, allora forse ce la puoi fare.
Ed ecco il commento del regista:
“Ho scritto questa storia con Ottavia, Davide e Carlotta per esorcizzare una grande paura che condividevamo: fare un figlio. La chiave è stata trovare una storia come quella di due ragazzi come Ferro e Cate: così siamo riusciti a prendere le giuste distanze, rendendo drammaturgico il conflitto che volevamo raccontare. E come loro anche noi ci salveremo se giocheremo la carta della leggerezza e dell’autoironia, se di fronte al pessimismo di questo mondo rilanceremo con l’ottimismo se non della volontà, almeno dell’incoscienza e del sogno“.
Pare che non si possa dire, perché qui molti cinephile hanno avuto un tracollo di bile, ma l’opera di Roan Johnson è il tipico film ”carino”, aggettivo di imbarazzante ordinarietà per descrivere un film che cerca di raccontare una storia sempre attuale inserendola in un contesto contemporaneo attraverso i toni della commedia. Una commedia che ha il difetto di non pungere, perché sceglie la scorciatoia del volemose bene, ma con personaggi simpatici, battute che funzionano, interpreti adeguati e, soprattutto, dialoghi brillanti. Niente per cui andare in visibilio, certo, ma anche niente per cui incatenarsi al Palazzo del Cinema gridando ”Vergogna!”. Stride quindi l’insofferenza di parte della critica che ha fischiato e infamato chiunque capitasse a tiro alla fine della proiezione per la stampa. Forse in Concorso ci sta a dire poco, ma si può ritenere una scelta coraggiosa. Ricordo quando venne presentato Ovosodo (nettamente migliore, va detto!) e molti inorridono per gli stessi motivi.
A seguire, ancora Italia con il documentario Rocco. Italia perché il protagonista è Rocco Siffredi, anche se la produzione è francese, come i due registi Thierry Demaizière e Alban Teurlai. L’inizio è già una dichiarazione di intenti, con un’inquadratura sul membro dell’attore, ma poi il film vira al personale (non che il membro non lo sia, diciamo più sull’intimo). Rocco Siffredi si mette infatti a nudo, più che altro metaforicamente, tralasciando quasi del tutto l’esteriorità per raccontare i suoi crucci. Meno porno star e più l’uomo che c’è dietro, insomma. Che dire, scelta interessante, anche se il Rocco piagnone dopo un po’ finisce per stancare. Comunque sia un’operazione interessante. Anche in questo caso un po’ più di coraggio avrebbe aiutato, invece ne esce una sorta di monumento piuttosto costruito dove si celebra il maledettismo della star e si recita la vita.
Dopo un pranzo veloce e frugale, come la maggior parte dei pranzi veneziani (panino al volo acquistato all’alba nel market di fiducia e consumato dove capita), l’appuntamento è con Chris Meledandri. Vedo comparire sui vostri volti un grande punto interrogativo. Forse più di lui conoscete il suo impero, la Illumination Entertainmnet, e forse più della Illumination Entertainment conoscete i film che ha sfornato. Va meglio se vi dico Cattivissimo Me o Minions oppure Pets, tra poco nelle sale? Immagino di sì, perché si tratta di film capaci di colonizzare l’immaginario mondiale. Speravo in un’anteprima di Sing (a Toronto ci sarà), invece ne vedremo solo una ventina di minuti, quelli iniziali. Poi lo spazio sarà al creatore di tutto ciò.
I primi venti minuti di Sing promettono bene, sembra decisamente meglio di Pets e il riaccendersi delle luci interrompe un’atmosfera in cui era davvero piacevole calarsi. La formula della Illumination Entertainment è ormai riconoscibile: trailer accattivante, soggetto spumeggiante, caraterizzazioni centrate e, in questo caso, hit degli anni ’80 abbinate alla moda dei talent. Sarà sicuramente un successo. Colgo l’opportunità e chiedo a Meledandri cosa rende un film Illumination immediatamente riconoscibile. “Alla Illumination”, afferma il produttore, “si decide un concept, si costruiscono i personaggi, sia nei caratteri che a livello visivo, e solo successivamente si pensa alla storia che li conterrà”. Esattamente quello che si deduce guardando i film. Cornice strepitosa, ma il quadro dov’è?
Questa sera si cenerà con gli amici festivalieri e quindi l’appuntamento con il cinema di conclude alle 19.30 con la proiezione stampa di Une Vie, in Concorso.
Ecco la trama:
Normandia, 1819. Al suo rientro in famiglia al termine degli studi in convento, Jeanne, giovane donna innocente dai sogni infantili, sposa un visconte del luogo, Julien de Lamare, il quale ben presto si rivela un uomo gretto e infedele. Poco a poco Jeanne vede svanire le sue illusioni.
Ed ecco il commento dell’autore, Stéphane Brizé:
“Jeanne le Perthuis des Vauds, che in seguito al matrimonio con Julien diventerà Jeanne de Lamare, entra nella cosiddetta vita “adulta” senza aver mai affrontato la perdita di quel paradiso che è l’infanzia, quel momento dell’esistenza umana in cui ogni cosa sembra perfetta. Quel momento in cui gli adulti sono coloro che sanno tutto, coloro che ci dicono di non mentire e, dunque, loro stessi non mentono mai – o così crediamo. In quel momento si vedono le cose senza uno sfondo. Poi, con il passare degli anni, questo ideale diventa più sfumato trasformandosi talvolta in disillusione. Per impedire tale processo è necessario acquisire strumenti protettivi. Si devono comprendere i meccanismi che governano i legami fra le persone e mantenere la giusta distanza in modo da evitare una delusione profonda quando si constata la brutalità dei rapporti umani. Jeanne non vuole, non può o non sa come far evolvere il suo concetto di vita. Questo la rende una persona speciale. È una creatura meravigliosa, rara, perché la sua mente è priva di secondi fini. Ciò detto, proprio l’aspetto che la rende tanto affascinante è al contempo la sua condanna“.
L’opera è la trasposizione dell’omonimo romanzo di Guy de Maupassant ed è molto rigorosa a partire dal formato in quattro terzi. Scelta che rende un po’ faticosa la fruizione ma importante per prendere le distanze dai film in costume classici ed entrare nell’universo angusto della protagonista, donna dai sogni infranti, malinconica e rassegnata, figlia di un contesto sociale (siamo nella Normandia del 1819), dove la realizzazione, soprattutto femminile, è impresa quanto mai ardua. Da segnalare come tutto accada prevalentemente fuori scena. Non ci sono grandi eventi, infatti, ma l’impatto che questi hanno sulla protagonista, una Judith Chemla completamente dedita alla causa. Il regista mi aveva già colpito con La legge del mercato a Cannes, premio per il migliore attore a Vincent Lindon. E se questa volta toccasse alla protagonista femminile a Venezia? La scelta non stonerebbe.
Mentre rimugino sui collegamenti possibili tra Une vie e La legge del mercato, in fondo entrambi incentrati su due personaggi alle prese con la loro epoca, mi dirigo verso l’appuntamento per la cena. Come già sottolineato, un festival è sicuramente cinema, ma anche occasione di confronto tra persone, non solo cinefili.
Martedì 6 settembre 2016
La giornata comincia con il Fuori Concorso di Kim Rossi Stuart. Il titolo è Tommaso ed è una specie di Kim e le donne, in una sorta di messa in scena della crisi del maschio contemporaneo. Apprezzabili le intenzioni, meno il risultato. Cinema ombelicale che pesca nel noto e non riesce a farsi davvero comunicativo, indeciso sul registro da adottare (dramma o commedia?) finisce soprattutto per essere né carne né pesce. Capto il sentiment generale e direi che siamo tutti d’accordo: opera decisamente non riuscita.
Non va meglio con il film in concorso: The Bad Batch di Ana Lily Amirpour che riesce ad accedere a questa importante vetrina già con l’opera seconda dopo l’acclamato (troppo?) A Girl Walks Home Alone at Night.
Questa la trama, molto scarna:
Una feroce fiaba distopica ambientata in una desolata regione del Texas in cui alcuni reietti della società cercano di sopravvivere.
Ha trovato estimatori. Non rientro tra questi. Un baraccone trito e grottesco dove derive post atomiche si contaminano a western, horror, avventura, Mad Max, e chi più ne ha più ne metta. Alla fine, però, non va a parare da nessuna parte e si compiace del suo poco. Cinema indipendente che sconta la sua dipendenza da un immaginario visto e digerito. Ah, c’è anche Keanu Reeves, ma il più imbarazzante è il cameo di Jim Carrey. Suki Waterhouse è bella e tamarra come richiesto dal ruolo, ma fatica a reggere il film sulle sue spalle.
Pranzo al volo, scambio di pareri, voglia di litigare (succede a metà festival) e di dare un paio di schiaffoni ai più antipatici, e di nuovo in Sala Grande per Assalto al cielo. In regia Francesco Munzi che con sguardo disincantato racconta, attraverso un documentario, i dieci anni più caldi del secondo novecento italiano. Si va dal 1967 al 1977, il periodo degli anni di piombo dove ideali, sogni e utopia hanno animato il fermento culturale e le lotte politiche. Lo sguardo del regista è dal basso, non ci sono voci narranti, non c’è la celebrazione del mito, non si vuole condannare ed esaltare nessuno, solo cercare di capire attraverso le immagini di repertorio. La capacità pervasiva del documentario dipende quindi molto dalla voglia dello spettatore di lasciarsi pervadere, quindi anche dal suo interesse alla materia e dalla sua conoscenza dei fatti. L’ho trovato di stimolo e privo di quell’ideologia che spesso affossa tante opere animate dalle migliori intenzioni.
A concludere la serata l’ennesimo Terrence Malick, ormai invitato a prescindere nei maggiori festival internazionali nonostante alla grande prolificità non corrispondano opere altrettanto meritevoli. L’aria che tira non è delle migliori e si respira già dalla fila per entrare. Due le categorie di pubblico: chi lo osannerà a prescindere, chi invece lo bastonerà a prescindere. Aspettiamo di vederlo, và!
Prima di qualunque commento ecco la trama, se di trama si può parlare, di Voyage of Time: Life’s Journey:
In Voyage of Time: Lifès Journey, esperienza dei sensi, della mente e dell’anima, è l’universo che ci passa davanti agli occhi in un viaggio d’esplorazione nel nostro passato planetario e in una ricerca del luogo cui l’umanità è destinata in futuro. Percorso dalla mormorante energia della natura stessa, il film fonde effetti speciali innovativi con grandiose riprese girate in giro per il globo e oltre il globo, alla scoperta di ciò che dura, di ciò che resiste nel tempo. Che cosa significa, dopo tutti quegli eoni, essere noi, qui, ora? L’azione ripercorre la cronologia scientifica dell’universo, dalla nascita delle stelle all’esplosione di una nuova vita sulla Terra, alla comparsa dell’umanità con il conseguente stravolgimento del pianeta. Malick invita gli spettatori a sondare il passato, il presente e il futuro in un modo intimo. Il film mostra una serie di fenomeni naturali mai visti prima, fenomeni celesti e terrestri, macroscopici e microscopici, proposti con la consulenza di un gruppo di esperti scientifici all’avanguardia. La violenta geologia del pianeta ai suoi albori. Le prime cellule, che si sviluppano, si dividono, esplorano ogni nicchia possibile. La comparsa dei pesci, delle foreste, dei dinosauri e della nostra specie con la sua necessità di rapportarsi a ogni cosa: tutto questo si trasforma in un inno alla natura, alla vita, all’universo. Non esistono due individui che avranno la stessa esperienza.
Questo il commenta del regista:
“La natura è un continuo inizio; una nascita senza fine. Voyage of Time: Lifès Journey è il tentativo di creare un’esperienza filmica nuova e immersiva. Utilizziamo il potere del cinema per fondere le più avanzate conoscenze scientifiche dell’universo con i misteri indescrivibili e la passione per l’arte in modo da creare un viaggio sensorio che diviene per ognuno un’esperienza di scoperta personale. Lo spettatore è liberato nella colossale vastità degli eoni per esplorare quasi quattordici miliardi di anni del nostro universo e porsi interrogativi… raramente espressi, meditati in momenti personali… intessuti comunque nella nostra vita. Che cosa significa, dopo tutti questi eoni, essere noi, qui, ora? “
Che dire, ormai Malick ha optato per l’esperienza sensoriale. Questa volta, più coerentemente, ha abbandonato ogni ipotesi di narrazione tradizionale. Resta l’enfasi, la ricerca del bello, il prendersi sul serio e il girare a vuoto, come ormai il suo ultimo cinema ci ha insegnato.
A fine proiezione, comunque, buhh!!! e applausi scroscianti si sono confusi. Propendo per il silenzio.
Mercoledì 7 settembre 2016
Mentre il festival procede a gonfie vele, riuscendo, come poche volte negli ultimi anni, a conciliare grandeur e sperimentazione, si sparano le ultime cartucce. E sono cartucce da non sottovalutare. Oggi, infatti, per quanto riguarda il Concorso, sarà la volta di Pablo Larrain con l’attesissimo Jackie, finito a tempo di record proprio per partecipare al festival, e di Andrei Konchalovsky, un veterano del Concorso e recente vincitore con The Postman’s White Nights (film forse eccessivamente incensato e comunque in Italia non distribuito) del Leone d’Argento per la regia.
Ma cominciano con il prolifico Larrain, il cui nuovo trend (Neruda docet) è fare biografie che non sono biografie.
Sfogliamo il catalogo e atteniamoci all’ufficialità della trama:
Dopo l’assassinio del “suo” presidente Kennedy, la First Lady Jacqueline Kennedy lotta contro il proprio trauma e il proprio dolore per riconquistare fiducia, consolare i figli e definire l’eredità storica del marito.
Vediamo ora come il regista commenta la sua opera:
“Un proiettile ha trapassato il collo del presidente; un secondo proiettile, letale, gli ha sfracellato la parte destra del cranio… La trentaquattrenne moglie, Jacqueline Kennedy, era seduta al suo fianco”. “Seduta al suo fianco”. Che cos’è stato tutto questo per lei? Tutti conosciamo la storia dell’assassinio di John F. Kennedy. Ma che cosa accade se ci concentriamo soltanto su di lei? Come sono stati i tre giorni successivi, il dolore soffocante, i figli sconvolti, gli occhi del mondo intero su di lei? Jackie, regina senza corona, aveva perso il trono e il marito. Elegante, attraente, sofisticata, Jacqueline Kennedy è stata una delle donne più fotografate del XX secolo, sulla quale sono state scritte centinaia di libri e incentrati innumerevoli film e serie tv. Eppure, di lei sappiamo ben poco. Intensamente riservata, impenetrabile, forse la più sconosciuta donna famosa dell’era moderna. Mi piace pensare che non avremo mai complete certezze sul suo conto. Non conosceremo mai il suo odore, la luce del suo sguardo quando si era davanti a lei. Quello che possiamo fare è cercare. E mettere insieme un film fatto di frammenti. Scaglie di memoria. Luoghi. Idee. Immagini. Persone. Il presidente Kennedy è morto giovane – il suo tempo in carica bruscamente interrotto, le sue poche azioni in serio pericolo di oblio. Jacqueline Kennedy, pur nella nebbia del suo trauma, sapeva – qualcuno doveva finire la storia di quell’uomo. In pochi giorni lei ha trasformato il marito da un personaggio qualunque in una leggenda. Ne ha definito l’immagine, ne ha consolidato il lascito. E nel farlo, lei stessa è diventata un’icona, per sempre nota al mondo intero con il semplice nome… Jackie“.
Non so, mi sembra che Larrain abbia piegato l’icona al suo pensiero, razionalizzando il personaggio e privandolo di una dimensione emozionale. Scelta lecita, in fondo ognuno può interpretare i fatti a suo piacimento, ma anche rischiosa. Ciò che ne esce, infatti, punta sulla costruzione e la decostruzione del mito. Molto raffinata la ricostruzione storica, volutamente stridente il commento musicale di Mica Levi. Natalie Portman è una brava interprete, ma qui sceglie la strada dell’imitazione. Mi è sempre sembrata un’attrice con la parrucca che imita la vita e non mi sono mai ritrovato davanti a Jacqueline Kennedy. Che dire, forse dovrei rivederlo, ma nel complesso mi è sembrato che il personaggio sia stato plasmato su un’immagine, in fondo piuttosto convenzionale, di donna fragile fuori ma durissima dentro. Accoglienza contrastata anche se i sì osannanti sovrastano i dubbiosi.
Oggi è la giornata bastian contraria. A differenza di molti ho infatti apprezzato The Journey, il film di Nick Hamm che immagina cosa sia accaduto nel maggio del 2007 durante il viaggio insieme tra il predicatore protestante Ian Paisley e il repubblicano irlandese Martin McGuinness. Viaggio che ha cambiato il destino dell’Irlanda del Nord. L’accordo tra i due leader ha infatti creato le basi per un governo congiunto tra protestanti e cattolici, determinando così la fine del conflitto nordirlandese.
Un film che inventa dichiaratamente i fatti, con grande rispetto per la Storia e un ottimo utilizzo del mezzo cinematografico, in grado di riempire i buchi del noto. Ottimo cinema, capace di far riflettere, intrattenere e divertire. Ottimo anche il cast, con Timothy Spall e Colm Meaney in grande spolvero.
Molto interessante il commento del regista dal catalogo:
“Una volta un giornalista mi ha raccontato di una pratica comune fra i politici dell’Irlanda del Nord: quando andavano all’estero era abitudine per i politici di opposte fazioni viaggiare insieme per garantirsi la reciproca incolumità. Io sono nato a Belfast e andavo a scuola all’epoca dei Troubles. Conoscevo un po’ il carattere dei politici in carica e sono rimasto affascinato da quell’idea. Sono poi venuto a sapere di un viaggio particolare che avvenne in Scozia durante i negoziati di pace del 2006. I negoziati cadevano proprio il giorno del cinquantesimo anniversario di nozze di Ian Paisley, e lui doveva tornare in volo a Belfast in giornata. Martin McGuinness, non si sa se costretto o per sua spontanea volontà, decise di accompagnarlo. I due non si erano mai parlati; negli anni precedenti Paisley aveva ignorato ogni tentativo di McGuinness di incontrarlo. Eppure finirono insieme su un jet privato dove non c’era modo di nascondersi. Fin qui è tutto vero, ma cosa accadde esattamente su quell’aereo nessuno lo sa. Il cinema ha permesso di creare questa storia di come due nemici siano giunti a stringere un’improbabile amicizia politica. È una storia dell’Irlanda del Nord, ma è anche di più. Se due nemici giurati come loro sono riusciti a mettere da parte l’odio e a venirsi incontro, lo possono fare anche altri. Le atrocità del terrorismo negli ultimi anni hanno glorificato gli estremismi e l’intransigenza è diventata il modus operandi del mondo. Questo film vuole essere una risposta a questo tipo di etica. È un film militante sull’idea di pace e vuole celebrare la bellezza del compromesso e della capacità di fare concessioni. La mia speranza è che The Journey, che è basato su una storia vera, immagini non soltanto ciò che è stato ma anche ciò che potrà essere in futuro“.
Quando si è a un festival e si decide di seguirlo ci si trova a un bivio: dedicarsi al concorso o alle sezioni collaterali? il fatto è che si vuole tutto, ma ovviamente tutto è impossibile averlo, soprattutto vederlo. Personalmente ho sempre dato priorità al Concorso, ma ogni tanto mi concedo qualche viaggio inaspettato nelle sezioni più sperimentali. Orizzonti non ho ancora ben capito se ha un’anima o è un concorso di serie B, comunque sia Liberami, il documentario di Federica Di Giacomo, è molto interessante e mostra un’Italia che non si pensava esistesse e che invece è ben radicata. La regista si sofferma su una regione, la Sicilia, e su un veterano, Padre Cataldo, che ogni martedì celebra la “Messa di liberazione” a cui partecipano persone che si sentono possedute dal Maligno. Il documentario registra i fatti senza intromettersi ed evita di giudicarli, anche se sollecita inevitabili reazioni, perché è impossibile non restare colpiti da ciò che si vede. E fa pensare il fatto che la religione ancora oggi sia in grado di riempire vuoti che la società, la tecnologia e la forza del singolo non sono evidentemente capaci di colmare.
Poco da dire, invece, sull’altro film in concorso, Paradise di Andrei Konchalovsky, un film molto rigoroso, a partire dal bianco e nero in cui è girato, che prende la strada del dramma morale. Nulla che non sia già stato detto, e che dopo Il figlio di Saul, abbia forse ancora senso ribadire, ma l’incrocio tra storie e Storia, pur nella retorica in cui ogni tanto il film scivola, è cinematograficamente compatto.
Ecco la sinossi:
Paradise racconta l’avvincente storia di tre individui, Olga, Jules e Helmut, le cui strade si incrociano nella devastazione della guerra. Olga, un’aristocratica russa immigrata e membro della Resistenza francese, viene arrestata dalla polizia nazista per aver nascosto dei bambini ebrei durante un raid a sorpresa. Viene mandata in galera, dove incontra Jules, un collaborazionista franco-nazista incaricato di indagare sul suo caso. Jules s’invaghisce di Olga e le propone una punizione più blanda in cambio di favori sessuali. Olga, disposta a fare qualsiasi cosa pur di evitare una brutale persecuzione, accetta, ma le sue speranze di libertà svaniscono rapidamente dopo che gli eventi prendono una piega inaspettata. Trasferita in un campo di concentramento, Olga è costretta a una vita d’inferno. Inaspettatamente, la sua strada si incrocia con quella di Helmut, un alto ufficiale tedesco delle SS, il quale un tempo si era follemente innamorato di lei e che ancora nutre sentimenti d’amore nei suoi confronti. Tra Helmut e Olga si riaccende la vecchia fiamma e i due s’imbarcano in una relazione contorta e distruttiva. Helmut decide di salvare Olga offrendole una via di fuga che lei riteneva ormai impossibile. Ma con il passare del tempo e con il profilarsi della sconfitta nazista, l’idea che Olga ha del Paradiso è destinata a cambiare.
E il commento del regista:
“La storia è piena di grandi tragedie, la maggior parte delle quali ci appaiono come antichi misfatti che non potrebbero più accadere al giorno d’oggi. Uno dei momenti più terribili della storia della nostra generazione è stata l’ascesa del partito nazista e lo sterminio di milioni di ebrei e di altre persone che non rientravano nell’ideale nazista di un “perfetto paradiso” tedesco. Tali atrocità dimostrarono fino a dove possa spingersi la malvagità degli esseri umani. Sebbene questi eventi siano accaduti nel passato, oggi sta tornando alla ribalta lo stesso modo di pensare radicale e intriso d’odio che minaccia la vita e la sicurezza di molti individui nel mondo. Paradise riflette su un ventesimo secolo carico di grandi illusioni sepolte sotto le rovine, sui pericoli della retorica dell’odio e sul bisogno degli esseri umani di usare la potenza dell’amore per trionfare sul male“.
Accolto da tiepidi applausi non ha colpito particolarmente.
Unanime, invece, la stroncatura del pretenzioso e vacuo Planetarium di Rebecca Zlotowski che si limita a portare un po’ di glamour al festival grazie alla presenza di Natalie Portman, alla sua seconda passerella, e della giovanissima Lily-Rose Depp. Uno di quei film che quando (finalmente) finiscono ti chiedi “Ah, perché, è iniziato?” Insomma, un’eterna premessa al nulla.
Giovedì 8 settembre 2016
Gli ultimi giorni di festival si comincia a respirare un’aria di mobilitazione generale. Il più pare ormai fatto, anche se i film presentati in questi ultimi due giorni potrebbero essere proprio quelli che colpiscono al cuore la giuria.
Oggi si contendono l’attenzione dei festivalieri l’Italia, con l’ultima opera in Concorso, e le filippine, con il film fiume di Lav Diaz.
Ad aprire le danze è Giuseppe Piccioni con Questi giorni, racconto anche coraggioso nel cercare di concedere poco alle carinerie, ma a forza di asciugare Piccioni perde per strada anche tutto il possibile pathos dei rapporti tra i personaggi. Un quartetto di ragazze, diciamolo, tra le peggio assemblate mai visto sullo schermo, ma anziché giocare su questa peculiarità il film si perde in caratterizzazioni schematiche e carinerie (una gentilezza un po’ ostentata delle figure di contorno). E poi basta utilizzare la malattia come escamotage narrativo per rendere un personaggio interessante! La stampa lo ha stroncato, a mio avviso esagerando, ma non è un film particolarmente significativo. Ah, evviva Margherita Buy, in una piccola parte in cui se magna in blocco il quartetto di frignone!
Ma ecco la trama e, a seguire, il commento del regista:
Una città di provincia. Tra le vecchie mura, nelle scorribande notturne sul lungomare, nell’incanto di un temporaneo sconfinamento nella natura, si consumano i riti quotidiani e le aspettative di quattro ragazze la cui amicizia non nasce da passioni travolgenti, interessi comuni o grandi ideali. A unirle non sono le affinità ma le abitudini, gli entusiasmi occasionali, i contrasti inoffensivi, i sentimenti coltivati in segreto. Il loro legame è tuttavia unico e irripetibile come possono essere unici e irripetibili i pochi giorni del viaggio che compiono insieme per accompagnare una di loro a Belgrado, dove le attendono una misteriosa amica e un’improbabile occasione di lavoro.
“Cos’è quell’illusione di eternità che minaccia di interrompersi proprio quando il futuro sembra comunque essere carico di promesse? Perché un viaggio intrapreso per suggellare il legame di un’amicizia crea invece un’incrinatura insanabile nell’equilibrio incerto della vita quotidiana del gruppo? Ho lavorato a lungo con le ragazze perché loro sono semplicemente il film. Volevo raccontare anche quel senso fisico dell’esistenza tipico di quell’età, quell’energia, quel dispendio senza riserve o cautele. Non volevamo una storia troppo premeditata. Incontrare ogni giorno le ragazze sul set mi procurava un’autentica gioia, in quei momenti mi sembrava che il film, il senso di quel lavoro mi si rivelassero appieno“.
Prima di Lav Diaz è tempo di ricaricare le pile. Si scrive, ci si confronta, si guarda, si discute, a volte si litiga, ma dopo una settimana la stanchezza comincia a farsi sentire. Il film Gantz-O di Yasushi Kawamura, trasposizione del manga di Hiroya Oku che combina computer grafica e live action, è quindi ciò che ci vuole. Il film cuscinetto, anzi “cuscino”, che mancava.
Prima della lunga serata in sala nelle Filippine, c’è tempo anche di andare in Sala Grande per vedere Jean Paul Belmondo che riceve il Leone d’oro alla carriera. È emozionante vedere un pezzo di storia del cinema davanti a te e fa anche un po’ di tenerezza. Nel 2001 Belmondo è stato infatti colpito da un brutto ictus e ora, a 83 anni, appare sorridente ma molto affaticato. Ovviamente è subito standing ovation e ci si commuove un po’ tutti. Ad accompagnarlo la bellissima Sophie Marceau, sogno impossibile adolescenziale, sempre bella e charmant più che mai.
Ritemprato e gaudente, ho l’energia per affrontare i 226 minuti di The Woman Who Left. Per gli standard dell’acclamato regista filippino (ricordo un film alla Berlinale di circa otto ore), quasi un corto.
Cominciamo dalla trama, un po’ depistante in realtà:
Per Horacia Somorostro la vita è diventata una vera e propria reclusión perpetua, una prigionia, piena di colpi di scena e imprevisti problematici, crudeli e inspiegabili. Siamo nel 1997. La principessa Diana muore in un violento incidente automobilistico; il mondo è rattristato dalla morte di Madre Teresa; le Filippine, diventate la capitale asiatica dei rapimenti, sono nella morsa della paura.
Ma vediamo cosa ci dice Lav Diaz del suo processo creativo:
“Cosa ci forma come esseri umani? La storia è ispirata al racconto di Tolstoj, Dio vede la verità ma non la rivela subito. Ho letto la storia molto, molto tempo fa. Oggi ricordo solo la premessa. Ho già dimenticato la trama e i nomi dei protagonisti. Ricordo che ciò che più mi colpì quando la lessi fu il fatto che nessuno di noi capisce davvero la vita. Non la conosciamo realmente. Questa è una delle verità fondamentali dell’esistenza. Alcuni di noi riescono a sentire che c’è una continuità, che le cose che facciamo possono essere collegate. Ma, più spesso, siamo succubi e travolti dalla casualità della vita”.
Che dire, esperienza interessante. Ovviamente è un film che si prende il suo tempo, e anche il tuo. Molti in sala non hanno accettato di restare in ostaggio del film per quasi quattro ore ed è stato presto fuggi fuggi generale. Colpisce che questo sia accaduto alla proiezione stampa, in cui il pubblico, almeno si suppone, dovrebbe essere preparato e con adeguati strumenti per ogni tipo di evenienza cinematografica. Comunque sia, il film non è di quelli che si può liquidare con un semplice ”mi è piaciuto” o ”non mi è piaciuto”. È un’esperienza. La scelta di fondo, quasi politica, di indugiare anzichè ottimizzare, è discutibile ma più che lecita. Il film è un racconto quasi di genere interpretato da un regista che ha una sua visione precisa di cinema. A impressionare più di ogni cosa è la bellezza del bianco e nero, davvero folgorante e in grado di ammaliare. È un film che parla attraverso la luce. Anche se continuo a preferire la sintesi, al cinema come nella vita.
E dopo Lav Diaz ci vuole proprio una birra e tante chiacchiere tra festivalieri!!!
Venerdì 9 settembre 2016
Festival agli sgoccioli e mi rendo conto che non ho parlato di due cose di cui si DEVE parlare quando si parla di festival: la madrina e la giuria.
Per quanto riguarda la madrina, pare che in apertura Sonia Bergamasco abbia fatto un’ottima figura, attrice di razza (molto popolare nel 2016 grazie a Quo Vado?) e non bambolina griffata come Elisa Sednaoui l’anno scorso.
La giuria, anzi, le giurie, sono così composte:
A valutare il Concorso ci pensa Sam Mendes con una squadra piuttosto agguerrita: l’artista, cantante, regista e scrittrice americana Laurie Anderson, l’attrice britannica Gemma Arterton (scelta forse un po’ azzardata), il magistrato, scrittore, drammaturgo e sceneggiatore italiano Giancarlo De Cataldo, l’attrice tedesca Nina Hoss, l’attrice francese Chiara Mastroianni, il regista statunitense Joshua Oppenheimer, il regista venezuelano Lorenzo Vigas (imponderabile Leone d’Oro 2015) e l’attrice, regista e cantante cinese Zhao Wei.
Per Orizzonti il gruppo è capitanato dal regista Robert Guédiguian che dovrà ascoltare e mettere d’accordo l’attrice egiziana Nelly Karim, il critico americano Jim Hoberman, l’attrice nostrana Valentina Lodovini, l’attrice e regista coreana Moon Sori, il critico spagnolo Josè Maria Prado e il regista indiano Chaitanya Tamhane.
A coordinare la Giuria internazionale del Premio Venezia Opera Prima “Luigi De Laurentiis”- Leone del Futuro è invece Kim Rossi Stuart insieme all’attrice spagnola Pilar López de Ayala, alla produttrice Rosa Bosch, all’attore e regista americano Brady Corbet e al critico cinematografico francese Serge Toubiana.
Espletate le formalità, torniamo al concorso che si conclude con un film di cui si parla da tantissimo perché ha richiesto più di quattro anni di lavorazione. Si tratta di On the Milky Road di Emir Kusturica. Protagonista indiscussa la nostra Monica Bellucci.
La trama:
Primavera in tempo di guerra. Ogni giorno un lattaio attraversa il fronte su un asino, schivando le pallottole per portare la sua preziosa merce ai soldati. Baciato dalla buona sorte nella sua missione, amato da una bella ragazza del paese, sembra destinato a un futuro roseo… fino a quando l’arrivo di una misteriosa donna italiana gli sconvolge la vita. Comincia così una storia di amore passionale e proibito che li farà precipitare in una serie di avventure fantastiche e pericolose. Sono stati uniti dal fato, e niente e nessuno sembra in grado di fermarli…
Il commento di Kusturica:
“Mi piace pensare a questo film come a una fiaba moderna sviluppatasi a partire da vari strati della mia vita. Sebbene abbia capito che il cinema è una combinazione di più arti questa volta mi sono concentrato sulla semplicità del film. È stato un processo lungo e nel girare la pellicola ho adottato un approccio in linea con la mia filosofia, con la mia relazione nei confronti della natura e dei sentimenti che le persone provano realmente per la vita. Si tratta di una storia semplicissima, la cui realizzazione è stata molto fisica e più difficile di quanto effettivamente sembri. Abbiamo girato molto a lungo, principalmente in esterni, lottando con l’ambiente, alla ricerca dei paesaggi che catturassero il profondo spazio interiore dei personaggi principali: un uomo e una donna che si innamorano e sono pronti a sacrificarsi con la natura”.
Che pasticcio ragazzi. Dal grottesco al dramma senza passare dal VIA si esce più frastornati che convinti. Il regista rimane fedele, per non dire cristallizzato, al suo cinema fatto di guerra e passione, in un delirio vorticoso, tonitruante e ahimé spesso ridicolo. Il fatto è che gli anni ’90 sono finiti, forse anche una certa idea di cinema. O forse no. Che dire, troverà forse estimatori. In me a dominare sono le perplessità. Monica Bellucci si impegna molto ma continua a stridere.
Concludo la giornata con due Fuori Concorso: il brutto francese, tutto incomunicabilità e teoria, Jamais di Benoît Jacquot e lo spara spara I magnifici sette, remake superfluo di Antoine Fuqua, con un cast sontuoso in cui primeggiano Denzel Washington e Chris Pratt, ospiti del festival. Curioso come il film chiuda Venezia e abbia aperto Toronto.
Ma ora la grande curiosità è: chi vincerà?
Ipotizzo il mio palmares. Spero qualcosa per La La Land, che sia il premio alla Stone o il Leone d’Oro o quello a Chazelle, il film non può uscire a mani vuote. Ma non è detto. Il superbo Birdman, per dire, se ne uscì senza riconoscimenti. Del resto una giuria è un gruppo molto ristretto di personalità che devono trovare un compromesso. Ha buone chance anche Nocturnal Animals, e pure Arrival. Che arrivi il premio a Amy Adams anticamera dell’Oscar? L’Italia mi sa che uscirà senza premi perché nessuno dei film proposti ha convinto la critica. Sono piaciuti molto invece sia Frantz che Jackie, quindi qualcosa potrebbe arrivare anche per loro. Un premio a Lav Diaz sarebbe troppo banale, e non aiuterebbe il cinema nelle sale perché si tratta di un film destinato a non essere visto. Mah, vedremo! Che vinca il migliore!!! Cosa che non accade mai!
Sabato 10 settembre 2017
Ed è alfin giunto il momento dei premi.
VENEZIA 73
LEONE D’ORO per il miglior film a:
ANG BABAENG HUMAYO (THE WOMAN WHO LEFT)
di Lav Diaz (Filippine)
LEONE D’ARGENTO – GRAN PREMIO DELLA GIURIA a:
NOCTURNAL ANIMALS
di Tom Ford (USA)
LEONE D’ARGENTO – PREMIO PER LA MIGLIORE REGIA ex-aequo a:
Andrei Konchalovsky
per il film PARADISE (Federazione Russa, Germania)
Amat Escalante
per il film LA REGIÓN SALVAJE (THE UNTAMED)
(Messico, Danimarca, Francia, Germania, Norvegia, Svizzera)
COPPA VOLPI
per la migliore attrice a:
Emma Stone
nel film LA LA LAND di Damien Chazelle (USA)
COPPA VOLPI
per il miglior attore a:
Oscar Martínez
nel film EL CIUDADANO ILUSTRE di Mariano Cohn e Gastón Duprat
(Argentina, Spagna)
PREMIO PER LA MIGLIORE SCENEGGIATURA a:
Noah Oppenheim
per il film JACKIE di Pablo Larraín (Regno Unito)
PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA a:
THE BAD BATCH di Ana Lily Amirpour (USA)
PREMIO MARCELLO MASTROIANNI
a una giovane attrice emergente a:
Paula Beer
nel film FRANTZ di François Ozon (Francia, Germania)
LEONE DEL FUTURO – PREMIO VENEZIA OPERA PRIMA
“LUIGI DE LAURENTIIS” a:
Akher Wahed Fina (The Last of Us) di Ala Eddine Slim
(Tunisia, Qatar, E.A.U., Libano)
SETTIMANA INTERNAZIONALE DELLA CRITICA
nonché un premio di 100.000 USD, messi a disposizione da Filmauro di Aurelio e Luigi De Laurentiis, che saranno suddivisi in parti uguali tra il regista e il produttore.
PREMI ORIZZONTI
PREMIO ORIZZONTI PER IL MIGLIOR FILM a:
LIBERAMI di Federica Di Giacomo (Italia, Francia)
PREMIO ORIZZONTI PER LA MIGLIORE REGIA a:
Fien Troch
per HOME (Belgio)
PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA ORIZZONTI a:
KOCA DÜNYA (BIG BIG WORLD)
di Reha Erdem (Turchia)
PREMIO ORIZZONTI PER LA MIGLIORE ATTRICE a:
Ruth Díaz nel film TARDE PARA LA IRA di Raúl Arévalo (Spagna)
PREMIO ORIZZONTI PER IL MIGLIOR ATTORE a:
Nuno Lopes nel film SÃO JORGE di Marco Martins (Portogallo, Francia)
PREMIO ORIZZONTI PER LA MIGLIORE SCENEGGIATURA a:
KU QIAN (BITTER MONEY) di Wang Bing (Francia, Hong Kong)
PREMIO ORIZZONTI PER IL MIGLIOR CORTOMETRAGGIO a:
LA VOZ PERDIDA di Marcelo Martinessi (Paraguay, Venezuela, Cuba)
VENICE SHORT FILM NOMINATION FOR THE
EUROPEAN FILM AWARDS 2016 a:
AMALIMBO di Juan Pablo Libossart (Svezia, Estonia)
PREMI VENEZIA CLASSICI
PREMIO VENEZIA CLASSICI PER IL MIGLIOR DOCUMENTARIO SUL CINEMA a:
LE CONCOURS di Claire Simon (Francia)
PREMIO VENEZIA CLASSICI PER IL MIGLIOR FILM RESTAURATO a:
BREAK UP – L’UOMO DEI CINQUE PALLONI di Marco Ferreri
(1963 e 1967, Italia, Francia)
LEONE D’ORO ALLA CARRIERA 2016 a:
JEAN-PAUL BELMONDO
JERZY SKOLIMOWSKI
JAEGER-LECOULTRE GLORY TO THE FILMMAKER AWARD 2016 a:
Amir Naderi
PERSOL TRIBUTE TO VISIONARY TALENT AWARD 2016 a:
Liev Schreiber
PREMIO L’ORÉAL PARIS PER IL CINEMA a:
Matilde Gioli
Alla fine ha vinto proprio Lav Diaz. Forse troppo per un film interessante ma che nessuno vedrà. Probabilmente però è anche compito di un festival prestigioso come Venezia mantenere alta la bandiera della distanza tra pubblico e grande schermo. E potrebbe essere l’occasione per lo spettatore di percorrere strade alternative, ma sarà dura, soprattutto che il film venga distribuito. E un’opera cinematografica che non viene vista è come un libro che non viene letto, muore! Vedremo!
Tra gli altri premi, sono sostanzialmente d’accordo con tutto a parte l’ex-aequo per la regia: Paradise è un film interessante ma nulla di memorabile, e La región salvaje mi sembra il tipico film che può incuriosire una platea festivaliera ma sostanzialmente con più fumo che arrosto.
Si conclude un’edizione memorabile come non si vedeva da tempo. Me ne vado con un colpo di fulmine, ovviamente a passo di danza (sarà La La Land mania, vedrete!) e tante immagini che nel corso dell’anno cercherò di metabolizzare.
E mentre qui si smonta tutto e il Lido torna a predisporsi al sonnecchiante, auguro a tutti i lettori un anno di cose belle e buon cinema. Del resto, che volere di più!
Ottima annata della Biennale Cinema col ritorno dei film made in Usa strappati anche a Toronto!
Ecco i voti di Centraldocinema:
THE YOUNG POPE 9,00 9
ARRIVAL 8,50 8,5
VOYAGE OF TIME: LIFE’S JOURNEY 8,00 8
BRIMSTONE 7,50 7,5
JACKIE 7,50 7,5
LA LA LAND 7,50 7,5
EL CIUDADANO ILUSTRE 7,00 7
NOCTURNAL ANIMALS 7,00 7
SPIRA MIRABILIS 7,00 7
THE BAD BATCH 7,00 7
HACKSAW RIDGE 7,00 7
THE JOURNEY 7,00 7
TARDE PARA LA IRA 7,00 7
GEUMUL (THE NET) 7,00 7
INSEPARABLES 7,00 7
ANG BABAENG HUMAYO (THE WOMAN WHO LEFT) 6,50 6,5
FRANTZ 6,50 6,5
PARADISE 6,50 6,5
UNE VIE 6,50 6,5
SAFARI 6,50 6,5
THE BLEEDER 6,50 6,5
THE SECRET LIFE OF PETS (3D) 6,50 6,5
ROCCO 6,50 6,5
EL CRISTO CIEGO 6,00 6
LA REGIÓN SALVAJE 6,00 6
PIUMA 6,00 6
GANTZ:O 6,00 6
PLANETARIUM 6,00 6
BOYS IN THE TREES 6,00 6
GUKOROKU (GUKOROKU – TRACES OF SIN) 6,00 6
LAAVOR ET HAKIR (THROUGH THE WALL) 6,00 6
LES BEAUX JOURS D’ARANJUEZ (3D) 5,50 5,5
THE MAGNIFICENT SEVEN 5,50 5,5
NA MLIJECNOM PUTU (ON THE MILKY ROAD) 5,00 5
QUESTI GIORNI 5,00 5
À JAMAIS 5,00 5
Media 6,58 leggermente inferiore alla MEdia voto di 6,7 data l’anno scorso a causa di questi film veramente deludenti :
LES BEAUX JOURS D’ARANJUEZ (3D) 5,50 5,5
THE MAGNIFICENT SEVEN 5,50 5,5
NA MLIJECNOM PUTU (ON THE MILKY ROAD) 5,00 5
QUESTI GIORNI 5,00 5
À JAMAIS 5,00 5
tolti questi film la media voto sarebbe molto alta, a 6,8!!! da notare che quasi tutti questi film sono stati proiettati negli ultimi giorni del festival che si è mantenuto nei primi giorni su medie voto stratosferiche, sopra il 7!!!! brava la Biennale CInema e Barbera che hanno rilanciato alla grande il Festival.
Vito Casale