Scheda film
Regia: Francesca Archibugi
Soggetto: dal romanzo omonimo di Michele Serra
Sceneggiatura: Francesca Archibugi e Francesco Piccolo
Fotografia: Kika Ungaro
Montaggio: Esmeralda Calabria
Costumi: Bettina Pontiggia
Musiche: Battista Lena
Suono: Roberto Mozzarelli
Italia, 2017 – Commedia – Durata: 103′
Cast: Claudio Bisio, Gaddo Bacchini, Cochi Ponzoni, Antonia Truppo, Gigio Alberti, Barbara Ronchi, Carla Chiarelli
Uscita: 23 novembre 2017
Distribuzione: Lucky Red
Figli di un dio minorato
Giorgio Selva (Claudio Bisio) è un conduttore televisivo di successo al quale pare non mancare nulla per essere felice. Ma quel che si vede fuori spesso non corrisponde a ciò che si vive dentro. Giorgio ha una ex moglie, Livia (Sandra Ceccarelli, che si vedrà molto poco in scena per quasi tutto il film, un po’ come l’anziana madre de Il nome del figlio) con la quale ha avuto un figlio, Tito (Gaddo Bacchini). Il loro rapporto è molto complicato e riesce a peggiorare quando il ragazzo inizia una storia con la compagna di classe Alice (Ilaria Bendidio), figlia di Rosalba (Antonia Truppo), sua ex-amante, poichè Giorgio ha l’atroce dubbio di esserne il padre. L’unico punto di riferimento per una famiglia disfunzionale come questa è Pinin (Cochi Ponzoni), rispettivamente suocero, padre e nonno…
Dopo la felice incursione nel remake con Il nome del figlio, a dimostrazione della crisi del nostro cinema che non riesce ad avere più di un paio di buone idee l’anno, Francesca Archibugi ricade nell’errore di un cinema piccolo, come nel dimenticabile Lezioni di volo del 2007. Il metro di paragone che viene in mente è Gli sfiorati di Matteo Rovere, forse anche per l’assonanza, tratto a sua volta dal romanzo omonimo di Sandro Veronesi, mentre qui l’ispirazione viene dal best-seller di Michele Serra. In entrambi i romanzi (ed in entrambi i film) ci si viene a raccontare dei dilemmi dell’alta borghesia che, con tutto il rispetto, sono ben poca cosa rispetto al dramma esistenziale dell’italiano medio di portare ogni giorno a casa la pagnotta. Sì, ma al centro de Gli sdraiati ci sono gli adolescenti nazionali, perennemente “sdraiati” sul divano, connessi al mondo intero, ma completamente disconnessi dal reale. E di chi sono figli? Di sedicenti adulti, sembrano dirci Serra e la Archibugi, che non a caso son peggio di loro, ancor più irrisolti ed indeterminati. Il problema è che lo spettatore medio, che già sta per scocciarsi delle periferie e di un certo neo-neo-realismo – nonostante le ultime annate cinematografiche stiano cercando di mostrarle nei modi più originali possibili – non ne può più dei guai delle classi più abbienti.
Ad un genitore problematico con prole problematica associate pure problemi socio-economici, forse la storia progredirà in maniera diversa o magari si bloccherà in maniera permanente. Ma almeno provateci! Qua non è dato neanche un margine di confronto tra classi o schieramenti, come invece in Ferie d’agosto di Virzì o nel prossimo Come un gatto in tangenziale di Riccardo Milani, se non un minimo di contrasto con il nucleo Rosalba/Alice, sicuramente più disgraziato dei Selva, la cui funzione narrativa è però ben altra.
Un personaggio à la Fabio Fazio, come il Giorgio Selva interpretato da un Bisio volutamente in tono minore, diventa il paladino di una classe di genitori che non capirà mai i propri figli perché non ha ancora capito se stessa. Forse la parte più interessante è proprio quella in cui il protagonista racconta il sogno fantasy dove gli adolescenti lottano per sopravvivere in un distopico futuro post-atomico in cui i vecchi li hanno sopraffatti, parte che avrebbe meritato più spazio, in narrazione alternata, o proprio un intero film.
Una Francesca Archibugi distante anni luce dai suoi ormai classici sull’adolescenza come Mignon è partita e Il grande cocomero, di cui ha evidentemente perso la capacità introspettiva, si fa portavoce di un mondo alto-borghese e di sinistra, eliso ed elitario, che, se è riuscita a raccontare con sufficiente sarcasmo nel precedente Il nome del figlio, per una serie di fattori quali la forza di un soggetto già cinematograficamente rodato, il “Virzì touch” ed anche l’elemento politico più dirompente, qua risulta annacquato e ben poco interessante. Un po’ come il Partito Democratico, forse pure la regista romana ha perso i suoi interlocutori.
Voto: 5
Paolo Dallimonti