Scheda film
Titolo originale: The killing of a sacred deer
Regia: Yorgos Lanthimos
Sceneggiatura: Efthymis Filippou e Yorgos Lanthimos
Fotografia: Thimios Bakatakis
Montaggio: Yorgos Mavropsaridis
Scenografia: Jade Healy
USA/Gran Bretagna/Irlanda, 2017 – Drammatico – Durata: 121’
Cast: Colin Farrell, Nicole Kidman, Raffey Cassidy, Barry Keoghan, Sunny Suljic, Alicia Silverstone, Bill Camp
Distribuzione: Lucky Red
Uscita: 28 giugno 2018

Occhio per occhio? L’ironico deus ex machina Yorgos Lanthimos all’apice del “disturbante”

Tragedia a cuore aperto. Che chiede una parte per il tutto. E morde con ferocia. Prendendosi una libbra di (nostra) carne non senza lasciarci con un sorriso di dolore e piacere.
Benvenuti nella società sadomasochista che la venerazione del Capitale ha reso burattina di schemi di consumo-felicità-regresso senza soluzione di redenzione. Benvenuti nella società dei virus, contagiata dal superficial-Ismo dove nessun profeta può salvare se non schernire sulla banalità della vita e della morte. In un gioco quasi feticista e tragicamente mutevole di posizioni, poteri, personaggi.
Con “Il sacrificio di UN cervo sacro” (tralasciando la traduzione italiana che trasforma l’indeterminato “un”, che racconta la fatalità sciocca degli eventi, in un determinato “del” modificando l’intenzionalità simbolica già del titolo) il nuovo re del disturbante “europeo” è Yorgos Lanthimos. Dopo Alps, Kynodontas The Lobster, arriva la “sua” tragedia fatta di colpa, vendetta, fragilità familiari, lutti, predizioni, archetipi corrotti e ripristinati in un’operazione chirurgica mai tanto violentemente asettica.

Affresco borghese con morto (in arrivo), ma quale sarà? Potente e geometrico Lanthimos introduce alla fine, e al nuovo impensabile inizio, Steven (Colin Farrell), celebre chirurgo cardiotoracico e la sua famiglia ad orologeria: la splendida moglie oftalmologa Anna (Nicole Kidman), i due figli prodigio, l’adolescente corista Kim e il loquace piccolo Bob. Di essi intuiamo una felicità perfetta, che rasenta l’oltraggio alla dissoluzione del cosmo borghese (occidentale), fatta di una ritualità quasi farsesca nella disciplina quotidiana, dalla colazione al sesso – in modalità anestetizzata – passando per il cesso.
Ma da subito Lanthimos ci fa scorgere un’incrinatura nella coppa dell’abbondanza, ove miele e ambrosia diverranno sangue, denti rotti, cervelli sparsi. Steven frequenta un sedicenne dall’aria inquieta e imponderabile, Martin, l’intruso kubrickiano che sconvolge per poi risedimentare il menage della happy family. Amante? Amico speciale? Protegè? Opera pia? Steven stringe un’assiduità tale con l’orfano Martin che l’invasione domestica diventa inevitabile. Martin fa visita a casa di Steven ed entra letteralmente nel suo sistema, fino a predire l’indicibile, il destino di piaga e di morte che inizia a manifestarsi dal piccolo Bob e l’infezione irreparabile che li stroncherà se Steven non compirà una scelta o qualcuno della famiglia un sacrificio (di sé o degli altri).

Una parte per il tutto, oltre a destino, legge del taglione, teoria del caos, numeri primi, vendicabiltà della morte, Lanthimos torna a lavorare sulla relatività grottesca dell’esistere, dai ferri churgici all’orologio costoso, dal vestito elegante alle cuffie nelle orecchie, dal bisturi alla pistola, dall’incidente all’omicidio e viceversa. Cortocircuito fatale, tragedia delle vittime essenziali. E’ ciò che viene richiesto dai fati, “letti” dal ragazzo veggente, è ciò che compie Lanthimos mettendo sul lettino operatorio tutti i suoi protagonisti, focalizzando senza la minima empatia, deus ex machina sardonico, dai più sciocchi fino ai più torbidi dettagli, apparentemente spiandoli solo dall’alto in basso e viceversa con le sue ampie tanto ariose quanto minimali claustrofobie visive, tra carrelli, panoramiche e primi piani.

Di “Ifigenia in Aulide”, capolavoro forse incompiuto di Euripide, Lanthimos ruba ben più del tema del sacrificio, assorbe e ribalta l’intero impianto etico euripideo trasformandolo in cornice narrativa per l’unico atto tripartito di una partita tra affetti che si tradiscono biecamente, senza pudore, coraggio, generosità. Soltanto il terrore puro, quello di una fine sicura, prossima, violenta, scatena la lotta intestina nel nucleo prima così pulito, pacato, produttivo, apollineo. In verità Lanthimos per tenere insieme le ossa bianchissime del suo nuovo agghiacciante e raggelato, maestoso horror psicologico, coniuga lo studio fine, appunto chirurgico, del “genere” – horror, pulp, thriller, commedia – con i canoni della tragedia classica, riuscendo a cannibalizzare con humour i tre grandi maestri. Traendo da Eschilo l’ereditarietà familiare della “colpa”, da Sofocle la solitudine quasi ridicola del protagonista affetto da una serie di eventi sfortunati quanto imperscrutabili, e la presenza incombente, immanente e insieme intangibile di un “coro” che sa e che commenta senza poter intervenire, da Euripide il pretesto simbolico del sacrificio ma anche l’ambiguità dei ruoli e la comicità insita del dramma.

Presentato a Cannes nel 2017, si è aggiudicato il premio per la migliore sceneggiatura ex aequo con You Were Never Really Here di Lynne Ramsay. Alla pari seppur opere diversissime, nell’infiltrarsi cronenberghianamente nelle viscere, nei neuroni e nel cuore dello spettatore, che diventa personaggio e corifeo, “paziente” muto che può godere e straziarsi della semplice assurdità della vita.

Voto: 9

Sarah Panatta