Scheda film
Titolo originale: The House That Jack Built
Regia: Lars von Trier
Soggetto: Jenle Hallund, Lars von Trier
Sceneggiatura: Lars von Trier
Fotografia: Manuel Alberto Claro
Montaggio: Molly Marlene Stensgaard
Scenografia: Simone Grau Roney
Cast: Matt Dillon, Bruno Ganz, Uma Thurman, Riley Keough, Siobhan Fallon Hogan,
Sofie Gråbøl, Jeremy Davies, Ed Speleers, David Bailie
Musiche: Víctor Reyes
Danimarca/Svezia/Francia/Germania, 2018 – Crime – Durata: 155’
Uscita: 28 febbraio 2019
Distribuzione: Videa

Nella mente del serial killer

Con un epilogo dal gusto dantesco che da solo vale il prezzo del biglietto e ci regala una delle ultime straordinarie interpretazioni del compianto Bruno Ganz nei panni di una sorta di Virgilio a spasso per i gironi infernali, preceduto da cinque capitoli/incidenti corrispondenti ad altrettanti omicidi che definiscono lo sviluppo come serial killer del protagonista, Lars von Trier è tornato sul grande schermo a quasi cinque anni da Nymphomaniac con quello che lui stesso ha definito film più brutale che abbia mai fatto. Ora non siamo nuovi a certe sue dichiarazioni, alcune delle quali gli sono costate piuttosto care, per cui molti come noi hanno imparato negli anni a prendere con le pinze e pesare ogni singola parola da lui pronunciata a mezzo stampa. Ed è ciò che abbiamo fatto anche per La casa di Jack sin dalle prime indiscrezioni e notizie ufficiali diffuse in merito, per poi confermare quanto affermato dal controverso cineasta danese al momento della visione.

Al netto della fruizione, l’ultima fatica dietro la macchina da presa di von Trier è senza alcun dubbio la più violenta da lui diretta, ma non di certo la più disturbante, poiché scorrendo da cima a fondo la sua filmografia il bisogno quasi epidermico di “mordere” lo spettatore di turno con qualcosa capace di lasciare delle cicatrici profonde nella mente e negli occhi di chi guarda è sempre stato presente. In tal senso, il regista scandinavo non ha mai amato le mezze misure, tantomeno l’addolcire la pillola, lavorando sugli estremi sino a spingerli ben oltre i limiti che in questo caso sono quelli del pulp e del gore. Ciononostante, con La casa di Jack non gravitiamo nella sfera del torture porn o dello splatter “ludico” fine a se stesso, bensì nel territorio altrettanto minato del crime-biografico malato, feroce, spietato e crudele. Ingredienti, questi, attraverso i quali l’autore costruisce un romanzo di deformazione disumana che non fa sconti a nessuno, lontano per DNA drammaturgico da operazioni più o meno analoghe come Evilenko, Henry, pioggia di sangue e Deranged.

L’efferatezza della messa in scena, in parte mitigata ed epurata dalla versione portata nelle sale nostrane dalla Videa a partire dal 28 febbraio con una ventina di minuti circa in meno rispetto all’originale mostrata in quel di Cannes lo scorso maggio, qui si fa viatico di un discorso più ampio sulla violenza e su come questa viene e può essere resa sul grande schermo. Ed è lo stesso von Trier ad averlo sottolineando: «Ho sempre pensato che tutto ciò che può essere pensato o fatto, dovrebbe essere rappresentato». Il cineasta danese ha fatto seguito a queste parole dando forma e sostanza ad un “viaggio” prima che fisico mentale nella psiche malata di un essere privo di controllo. Il risultato è, infatti, quello che sulle pagine di Rolling Stone hanno definito giustamente «una seduta psicoanalitica crudele e potentissima». Ora sul potentissima abbiamo qualche riserva, ma in generale incisiva e diretta lo è sicuramente, in primis per il modo in cui la pellicola materializza sullo schermo le feroci confessioni di un serial killer, tra raffinate citazioni e provocatorie riflessioni (in pieno stile von Trier) sulle malignità dell’uomo e sull’indifferenza della società. L’autore ci mostra come quello che si aggira nella mente malata del protagonista poi si trasforma in azioni omicida al di fuori. Per farlo viviamo la storia dal punto di vista di Jack che vede ogni omicidio come un’opera d’arte in sé, anche se la sua disfunzione gli dà problemi nel mondo esterno. Nonostante l’inevitabile intervento della polizia (cosa che provoca pressioni su Jack) si stia avvicinando, contrariamente a ogni logica, questo lo spinge a rischiare sempre di più. Lungo il cammino scopriamo le sue condizioni personali, i suoi problemi e i suoi pensieri attraverso conversazioni ricorrenti con lo sconosciuto Virgilio, una miscela grottesca di sofismi mescolata con un’auto-pietà quasi infantile e con spiegazioni approfondite di azioni difficili e pericolose.

L’autore ci catapulta con la sua poetica (non mancano subliminali e materiali estemporanei d’archivio come punteggiatura) nell’America degli anni ’70 in cui seguiamo l’astuto Jack consumare una porzione degli innumerevoli delitti da lui compiuti nel corso di dodici anni nello stato di Washington. Ne contiamo cinque e con questi von Trier costruisce un mosaico di morte, dolore e follia, in un aspirale che spedirà il carnefice diritto all’Inferno nel vero senso della parola. Con un In & Out dentro e fuori dal cervello del protagonista, nelle cui vesti si è calato con grande efficacia un bravissimo Matt Dillon, il regista consegna alla platea capace di sopportarla un tour allucinogeno e sanguinolento via via sempre più difficile da digerire per coloro che non hanno lo stomaco abbastanza forte per farlo.

Voto: 7 e ½

Francesco Del Grosso