Scheda film
Regia e Soggetto: Gabriele Muccino
Sceneggiatura: Gabriele Muccino e Paolo Costella
Fotografia: Eloi Moli
Montaggio: Claudio Di Mauro
Scenografie: Tonino Zera
Costumi: Patrizia Chericoni
Musiche: Nicola Piovani
Suono: Mario Iaquone e Davide Quadroli
Italia, 2020 – Commedia/Drammatico – Durata: 129’
Cast: Claudio Santamaria, Kim Rossi Stuart, Piefrancesco Favino, Nicoletta Romanoff, Micaela Ramazzotti, Francesco Acquaroli, Emma Marrone
Uscita: 13 febbraio 2020
Distribuzione: 01 distribution
Pro
C’eravamo tanto sopravvalutati
“Sono Giulio Ristuccia e nel millenovecentottantadue avevo sedici anni”. Con questa battuta pronunciata da Pierfrancesco Favino inizia praticamente il nuovo film di Gabriele Muccino. Nella battuta e nell’attore che la recita c’è giù tutto: un cognome che il regista romano si porta da Ricordati di me fino al precedente A casa tutti bene; la velleitaria rottura della quarta parete, anche se più gratuita che altro; un flashback che dà inizio alla lunga storia che si dipanerà per quarant’anni giungendo ad un finale che si riallaccerà in maniera circolare a questo inizio; un attore al quarto film con lui.
La vicenda di Giulio si lega subito a quella dell’amico Paolo e poco dopo a quella di Riccardo, detto “Sopravvissu'” per un grave fatto che lo annoderà per sempre a filo doppio agli altri due. E presto il destino di Paolo si allaccerà a quello di Gemma in un rapporto contrastato che non riuscirà mai ad avere una vera pietra sopra.
Da quel lontano 1982 ai giorni nostri le storie dei quattro amici si svolgeranno dietro uno scenario mondiale destinato a cambiare irreversibilmente. Riuscirà la loro amicizia a resistervi?
Gli anni più belli, come ogni film di Gabriele Muccino che si rispetti, è destinato a dividere sia il pubblico che la critica, tra estimatori e detrattori più o meno incalliti o improvvisati.
Il suo più grande difetto a nostro giudizio è voler essere un omaggio a C’eravamo tanto amati di Ettore Scola. Ma l’omaggio si rivela essere una fotocopia, fatta anche abbastanza male, al punto che, se il personaggio di Nicola Palumbo (il compianto Stefano Satta Flores) viene spalmato su quello di Riccardo e Paolo e quello del Gianni Perego di Vittorio Gassman rimane intonso nel Giulio Ristuccia di Favino, la Gemma interpretata da Alma Noce e Micaela Ramazzotti rispettivamente in giovane età e in quella adulta, è invece talmente identica alla Luciana Zanon di Stefania Sandrelli da poterne prevedere in ogni dettaglio l’evoluzione narrativa e quindi le svolte della trama a lei legate.
E se il regista de La terrazza amava giocare con meccanismi metateatrali e metacinematografici mostrando estrema raffinatezza, cifra che ne ha fatto appunto un grande autore, di quei giochi narrativi qua rimangono solo alcune battute, come l’iniziale, dette in macchina, in assenza voluta della quarta parete, senza però che ciò significhi veramente qualcosa di più del farci sentire tutti parte di questa storia necessariamente universale.
Il problema ancora più a monte di un tale “omaggio” è che la generazione di chi aveva cinquant’anni negli anni settanta non è neanche lontanamente paragonabile a quella di chi ha cinquant’anni oggi. Se i primi dopo la guerra avevano davanti a sé un paese da (ri)costruire e tante belle speranze, che non hanno saputo sfruttare, i secondi pagano le spese di un paese martoriato da quei genitori e che continuano ancora a distruggere, in assenza di (nuovi) argomenti da proporre. E non è sufficiente per lo spettatore veder ridurre tutto a quattro chiacchiere al ristorante in mezzo a due maledizioni ai “social” e poco più. I problemi poi sembrano essere rimasti sempre gli stessi in cinquant’anni di storia della nostra povera patria: precariato, sciacallaggio professionale, carriere sbagliate sul nascere. Il risultato quindi è un film superficiale, soprattutto se paragonato a quello di Scola, ma purtroppo già destinato esserlo nel suo DNA.
Per non citare poi alcune scelte poco felici come l’uccellino di Paolo usato come metafora di bassa lega sia all’inizio che alla fine del film o ancora alcuni elementi storiografici assolutamente fantascientifici quali ad esempio un’Italia del 1982 in preda a violente manifestazioni, quando in realtà il paese si stava lasciando alle spalle la tragica stagione del terrorismo e scalpitava per un campionato del mondo di calcio che di lì a poco avrebbe vinto, placando ancor di più gli animi.
E tutto sommato l’apertura alla speranza nel finale, affidata ad un’altra generazione ancora, la successiva, risulta meno stonata di quanto si potrebbe immaginare, forse poiché va coerentemente ad incastrarsi in quella cifra stilistica buonista tipica di Muccino.
Però il “buon” Gabriele, ripetiamo, è destinato a dividere, proprio perché, quasi in una schizofrenia, alterna continuamente nella narrazione alti e bassi: se ci delude in ua scena riesce sorprendentemente a farci emozionare e commuovere nella successiva. Quindi, a parte il consiglio di tagliare alcuni tra situazioni e dialoghi di un film comunque troppo lungo, Gli anni più belli è una pellicola destinata a non lasciar uscire deluso dalla sala lo spettatore medio (ma mai mediocre). Una pellicola che può appunto piacere come non piacere.
P.S.: Si stenda un velo pietoso sulla canzone omonima di Claudio Baglioni – ma non sulle sue immortali “E tu come stai?” e “Mille giorni di te e di me”, qui ben usate in due scene riuscite – ripescata tra scarti di una lunga e dignitosa carriera, che, tra agghiaccianti rime baciate in “-elli”, va ad aggiungersi ad una colonna sonora autoclonata a suon di dejà-entendu scritta da Nicola Piovani.
Voto: 6
Paolo Dallimonti
Contro
C’era una volta a Roma
Paolo, Riccardo, Giulio e Gemma sono quattro ragazzi cresciuti nella Roma dei primi anni ’80. La loro amicizia, dopo periodi d’incomprensione e di allontanamento, proseguirà inalterata fino ai giorni nostri.
Gabriele Muccino scrive e dirige una nuova “Meglio gioventù” con un manipolo di attori che fanno parte della ex-“meglio gioventù” del cinema di casa nostra (per un paio di loro ci si affaccia già sulla soglia dei cinquanta), usando nuovamente parte del cast dei suoi film storici, da L’ultimo bacio a Ricordati di me passando per Baciami ancora, e cercando di raccontare come gli anni più belli siano quelli delle frequentazioni nate sui banchi di scuola o fra semplici vicini di casa, non necessariamente appartenenti al medesimo ceto sociale. Amicizie che si accompagneranno per sempre, fra infortuni personali, famiglie che si sfaldano, dove gli aerei collidono con le Torri Gemelle, il Muro di Berlino crolla, i litigi sembrano irreparabili e gli ideali giovanili sono accantonati per fare posto al pragmatismo dell’età adulta. Nonostante tutto questo i quattro protagonisti, ai quali aggiungere Francesco Acquaroli nel ruolo di un politico vittima di “Mani Pulite” e la figlia Margherita, stereotipo di donna arricchita e con tempo libero da dedicare alla beneficenza, non si perderanno mai veramente di vista. Il dodicesimo lungometraggio di Muccino fallisce proprio negli eccessivi stereotipi che definiscono i protagonisti. Dall’avvocato carico d’ideali di gioventù, impersonato da Favino, ma che decide di passare al ‘lato oscuro’ per riscattare una vita fatta di stenti, a Kim rossi Stuart, professore di lettere e greco ed eterno precario, oltre che altrettanto idealista e da sempre perso nei propri pensieri, all’appassionato di giornalismo e critica cinematografica, portato in scena da Santamaria, che vive con l’aiuto della moglie, per finire con Micaela Ramazzotti, che grazie ad un’eccellente prova ha per l’ennesima volta dimostrato di non essere solamente la compagna di Paolo Virzì. Centoventinove minuti al termine dei quali si giunge ad un epilogo carico di buoni sentimenti. Da un cast così ben assortito e da un regista che in passato aveva saputo esplorare con profondità rapporti di famiglia e interpersonali ci aspettavamo però decisamente di più.
Voto: 5
Ciro Andreotti