Cineforum 2011: le ansie del nuovo millennio

psico cineforum CineClub il Fellini in collaborazione con Istituto Psic. Europeo

Saletta via correnti (Varese) 20.45 ingresso per soci con tessera

 

Elaborazione del lutto

Un gelido inverno (14/04/2011)

Ree, una giovane ed (apparentemente) ingenua fanciulla che vive nella contea rurale di Ozark insieme ai genitori ed ai due fratellini, deve ritrovare il padre, produttore e venditore di droghe sintetiche (come le maggior parte dei suoi vicini), misteriosamente scomparso dopo essere uscito di prigione grazie ad un’ipoteca messa sulla casa. Con l’aiuto dello zio, inizialmente riluttante, la ragazza si avventura in un mondo a lei fino ad allora sconosciuto, dove gli istinti umani (di sopravvivenza) sembrano essere tornati a prevalere sulla ragione, compreso il suo, che l’ha spinta a salvaguardare gli interessi più intimi, come la sua famiglia o, almeno, quel che ne resta…
La trama, tratta dal libro di Daniel Woodrell, potrebbe ricordare quella de Il grinta, romanzo di Charles Portis e poi film di Henry Hathaway con John Wayne, vicenda riportata in questi giorni sullo schermo dai fratelli Coen: lì una ragazzina cercava vendetta per il padre assassinato, dichiarandolo davanti al suo cadavere, mentre qui un’adolescente, quasi donna, cerca materialmente il proprio genitore, vivo o morto che sia; entrambe non possono non affidarsi ad un’adulto, corroso dagli anni e, rispettivamente, dall’alcol e dalle droghe, che estenderà la caccia all’uomo anche a se stesso, nel tentativo di mettere una qualche toppa ad una vita non proprio esemplare.
La regista Debra Granik gira un horror quasi senza orrore, nel quale al massimo potrebbe esserci un solo morto – usiamo il condizionale per non rovinare la visione – ma nel quale sono già morte la pietà, la dignità e soprattutto l’adolescenza della protagonista. Tutti i personaggi sembrano essere stati presi di peso dai vari Non aprite quella porta, La casa dei 1000 corpi e relativi seguiti ed epigoni e non ci stupiremmo se ad un tratto qualcuno tirasse fuori una robusta arma da taglio ed iniziasse una strage. Nel pre-finale in effetti compare una motosega, madre dell’unico momento simil-orrorifico, ma neanche splatter, per ovvi motivi – chi vedrà capirà!
Gli attori danno il contributo fondamentale alla riuscita del film, da Jennifer Lawrence, candidata alloOscar come miglior attrice protagonista e vincitrice di numerosi altri premi per l’intepretazione di Jennifer, a John Hawkes, altro nominato all’ambita statuetta, nei panni dell’ (inizialmente) ambiguo zio Teardrop, passando per una ritrovata Sheryl Lee – la ricordate nel (non) ruolo di Laura Palmer in Twin Peaks? – e Dale Dickey, che impersona Merab, la sinistra moglie di Thump Milton, la quale avrà un ruolo decisivo nella vicenda. Ma le vere protagoniste sono le scenografie naturali di Ozark, nel Missouri sud-occidentale, in cui la pellicola è stata girata, utilizzando peraltro la versatile Red Camera. Una nota infine per il bellissimo e fin troppo eloquente titolo originale, Winter’s bone (ossa d’inverno), al quale la distribuzione italiana ha preferito il più sobrio e branaghiano/shakespeariano Un gelido inverno.

Giudizio: * * *½. .

https://www.centraldocinema.it/Recensioni/Feb11/UN%20GELIDO%20INVERNO.html

The Fighter (05/05/2011)

Il film di David Russel, pluricandiato a Oscar e Golden Globe, è un oggetto curioso, una sorta di docu-fiction “rocky style”. E’ la storia vera di un pugile, di una famiglia, di due fratelli e delle loro sconfitte e vittorie.
Produzione sofferta, con la rinuncia del regista destinato  Darren Aronofsky, fuggito a girare The Wrestler, e delle guest star Matt Damon e Brad Pitt.
Mark “mono espression” Wahlber fa il suo nel rappresentare un pugile in cerca di vittorie e di pace famigliare.
La pellicola è ispirata alla vita del pugile americano di origine irlandese Mickey Ward, campione nella categoria pesi leggeri, e del suo fratellastro “tossico”, pugile per un breve periodo e allenatore di Ward, Dickie Eklund. Quest’ultimo nella come fa rimarcare più volte nel film, si è scontrato con il campione del mondo degli anni ’70 Sugar Ray Leonard.
Interessante ritratto di vita famigliare made in USA, che rimanda agli stereopiti più classici dei film indipendenti.
Strepitoso C.Bale che trasforma per l’ennesima volta il suo fisico, piegandolo alle esigenze del copione. Come già gli era capitato con L’uomo senza sonno in modo mirabile. Probabile Oscar, Bale valorizza un film che ha il pugilato solo come espediente narrativo, ma ha il suo cuore nei rapporti famigliari e tra fratelli, in continua evoluzione per tutta la durata della pellicola.
Il poco prolifico regista di Three Kings, si diverte innestando elementi ironici, come da suoi modelli cinematografici.
Da vedere soprattutto per alcune interpretazioni sopra media e la capacità del regista di conquistare lo spettatore con una storia tanto semplice e scontata quanto avvincente.
Niente a che vedere con gli spettacolari eccessi di Aronofsky, quello di The Wrestler e l’eccessivo Black Swan, un trattato di psicanalisi. Freud invece in The Fighter appare solo sullo sfondo dei rapporti familiari. Con Aronofsky regista, avremmo visto probabilmente un film molto più caricaturale e ricco di eccessi e squilibri. Russel ha la saggezza, l’equilbrio e l’ironia che ricordavamo anche in Three Kings.

Beyond (26/05/2011)

È facile chiudere con il proprio passato sgradevole: basta una porta sbattuta dietro le spalle o un servizio sociale fin troppo efficiente che ti porta via dalla tua famiglia. Ma quei giorni a fatica dimenticati tanto più facilmente possono tornare ad affacciarsi in quell’esistenza che fino ad allora era riuscita malgrado tutto ad andare avanti. Così nella vita di Leena (Noomi Rapace) fa di nuovo capolino, ricoverata in gravi condizioni in ospedale, la madre alcolizzata Aili (Outi Mäenpää) che non vedeva da anni, da quando il padre era morto in un incidente, ubriaco, e dal momento in cui il fratello fu affidato ai servizi sociali. Anche lei ormai madre di famiglia, vedrà ora riaffacciarsi tutti i vecchi fantasmi del passato e dovrà mettere in discussione le proprie certezze…
Dismesso l’intero armamentario punk di Lisbeth Salander, dietro al quale si è nascosta in questi ultimi anni arrivando al successo internazionale con la trilogia di Millennium, la ruvida Noomi Rapace ne guadagna in fascino ed intensità tornando ai ruoli più impegnati dei film ancora precedenti, come il drammaticissimo Daisy Diamond, inedito da noi.
In compagnia del marito Ola Rapace, che qui interpreta proprio il coniuge del personaggio di Leena, la giovane attrice svedese – il cui volto da bambina è affidato all’ottima Tehilla Blad, che, guarda caso, fu pure Lisbeth fanciulla nelle pellicole tratte dai libri di Stieg Larsson – affronta questo crudo dramma famigliare che, com’è consueto per gli scandinavi, presenta ambienti domestici idilliaci per poi mostrarne lentamente il marcio e la decomposizione che matura al loro interno, dove anche una festa come il Natale può diventare un incubo: come già in Festen e nel più leggero Riunione di famiglia, entrambi di Vinterberg, e come in Dopo il matrimonio della Bier.
L’esordiente Pernilla August, volto bergmaniano ed ex-moglie del regista Bille, con mano sicura e senza mai annoiare gira un film d’autore efficace e coinvolgente, interpretato da attori di gran classe, illustrando tutti i lati oscuri del nucleo famigliare, oltre i quali è facile fuggire, ma che sono impossibili da cancellare, poiché i nostri genitori e fratelli sono al nostro interno, fanno parte di noi stessi, sono (dentro) il nostro sangue. E mai se ne andranno.

Giudizio: * * * . .

VALLANZASCA – gli angeli del male” di Michele Placido (29/09/2011)

La vita di Renato Vallanzasca, narrata da lui in prima persona, dall’infanzia, tormentata nella natia Milano, alle donne, alle molte rapine agli altrettanti omicidi.
La vita di Vallanzasca portata sul grande schermo da chi, come Placido, ha già fatto l’incursione nella mala dei’70, difficile dimenticarsi l’ottimo “Romanzo Criminale”, che aveva fra i propri protagonisti proprio Kim Rossi Stuart, oggi alle prese con il milanesissimo “Boss della banda della Comasina”. La pellicola ripercorre con sbalzi temporali evidenti la vita di uno dei banditi meno ideologizzati dei’70 che mai ha cercato un fine politico per le proprie azioni, ma che è sempre stato guidato esclusivamente dal proprio insano gusto per le done il denaro e le rapine. Il risultato finale è ben differente rispetto al Romanzo Criminale targato 2005. Qui difatti si fa appello a due romanzi autobiografici dello stesso Vallanzasca, la alla ricostruzione romanzata delle imprese della Banda della Magliana. Il fine pare il medesimo ma spesso in questo caso la narrazione sfugge di mano a Placido, mentre nel precedente lavoro la narrazione restava incredibilmente serrata e piena di pathos. Questa volta invece la trama risulta lenta e priva di un filo conduttore ben definito e il Vallanzasca di Stuart pare alla fine  una rock star più che un bandito, da qui le aspre critiche da parte dell’opinione pubblica. Ciò nonostante il film si lascia guardare, il cast sa muoversi, fa gruppo e fra una rapina e l’altra si notano anche sprazzi di buona recitazione ma forse la vita di Vallanzasca, per quanto deprecabile, poteva e doveva meritare ben altro trattamento.
Ciro Andreotti

LA DONNA CHE CANTA – Incendies” di Denise Villeneuve (27/10/2011)

Quando il notaio Lebel legge a Jeanne e Simon Marwan il testamento della loro madre Nawal, i gemelli restano scioccati nel vedersi porgere due buste, una destinata ad un padre che credevano morto e l’altra ad un fratello di cui ignoravano l’esistenza. Jeanne decide di partire subito per il Medio Oriente per riesumare il passato di questa famiglia di cui non sa quasi nulla. Anche Simon, che in un primo momento si era mostrato riluttante, decide di raggiungere la sorella sulle tracce di una Nawal ben lontana dalla madre che conoscevano. I due ragazzi scopriranno un destino segnato dalla guerra e dall’odio e il coraggio di una donna eccezionale. Adattamento dell’opera di successo mondiale di Wajdi Mouawad, La donna che canta si dimostra una catarsi iniziatica che porterà a ricostruire, in un percorso di dolore e crudeltà, l’identità dei protagonisti.
Il cammino di quest’opera è stato intenso: menzione “27 volte cinema” per il miglior film alle Giornate degli Autori di Venezia 2010, premio del pubblico al Toronto International Film Festival, candidatura per il Canada agli Oscar 2011. Emblema di un’arte che riesce a stupire e a coinvolgere dal primo istante, facendo pensare ad una moderna nouvelle vague, aprendo nuovi scenari e rilanciando l’impegno del cinema indipendente a favore delle grandi cause sociali.
La narrazione si presenta asciutta anche se molto enfatica, non apparendo mai sopra le righe. Questo stile accosta la pellicola ad un genere documentaristico dai toni fortemente drammaturgici. La forza della storia sta proprio qui, nella potenza delle immagini, nel racconto di una donna che non si da mai per vinta, avanzando incessantemente contro sofferenze che minacciano di piegarla, di fronte ad atrocità che il contesto le impone, come una martire all’interno di un’epica tragica.
Emblematica la quasi assente colonna sonora che compare solo in rari significativi momenti,  alle note di una lancinante You and whose army? dei Radiohead è affidato il prologo. La guerra è lo sfondo totalizzante in cui si muovono i protagonisti, partorita dal disastro si staglia una figura forte e di passaggio, la detenuta numero 72 di una delle più dure e crudeli carceri libanesi. Dalla catastrofe nasce un personaggio che reca con di sé il conflitto, perfettamente aderente allo sgretolarsi del mondo esterno, fatto di macerie, bombe, sangue, perdite struggenti. La sopravvivenza porta avanti, l’istinto animalesco di vivere ad ogni costo è la forza, la rabbia di aver perso i punti fermi è il nutrimento, da un fardello di violenze germoglierà amore. Non c’è più nulla da fare, dopo essere sopravvissuti all’inferno, se non aspettare che il cerchio si chiuda e che tutto profeticamente ritorni nel medesimo luogo da dove ogni cosa ha avuto inizio, quel luogo che svelerà i segreti e che consegnerà Nawal al suo riposo eterno alla luce del sole. In questo cammino ogni gerarchia è sovvertita e l’importanza dei legami appare quanto mai fondamentale, legami di sangue che pesano come macigni sulle coscienze dei protagonisti, in un ineluttabile destino sofocleo che ci rende attoniti come una dolorosa illuminazione.

Uscito il 21 gennaio 2011 in 30 sale
Distribuito da Lucky Red

RARO perchè?… segna profondamente
Voto: *****

Chiara Nucera

“Il discorso del re” di Tom Hooper (24/11/2011)

Duca di York e secondogenito di re Giorgio V, Bertie è afflitto dall’infanzia da una grave forma di balbuzie che gli aliena la considerazione del padre, il favore della corte e l’affetto del popolo inglese. Figlio di un padre anaffettivo e padre affettuoso di Elisabetta (futura Elisabetta II) e Margaret, Bertie è costretto suo malgrado a parlare in pubblico e dentro i microfoni della radio, medium di successo degli anni Trenta. Sostituito il corpo con la viva voce, il Duca di York deve rieducare la balbuzie, buttare fuori le parole e trovare una voce. Lo soccorrono la devozione di Lady Lyon, sua premurosa consorte, e le tecniche poco convenzionali di Lionel Logue, logopedista di origine australiana. Tra spasmi, rilassamenti muscolari, tempi di uscita e articolazioni più o meno perfette, Bertie scalzerà il fratello “regneggiante”, salirà al trono col nome di Giorgio VI e troverà la corretta fonazione dentro il suo discorso più bello. Quello che ispirerà la sua nazione guidandola contro la Germania nazista.
Dopo aver raccontato la storia della Rivoluzione americana in nove ore, dentro una mini-serie e attraverso gli occhi del secondo presidente degli States (John Adams), Tom Hooper volge lo sguardo verso il vecchio continente, colto in tribolazione e alla vigilia del Secondo Conflitto Mondiale. Al centro del palcoscenico la cronaca del malinconico e addolorato Duca di York, figlio secondogenito dell’energico Giorgio V, inchiodato dalla balbuzie e da una complessata inferiorità di fronte allo spigliato fratello maggiore David. Crogiolo d’angoscia (im)medicabile e di squilibri emotivi sono quelle esitazioni, quei prolungamenti di suoni, quei continui blocchi silenti che impediscono a Bertie di esprimersi adeguatamente, ingenerando una sensazione di impotenza.
Il regista britannico si concentra sul vissuto interno del protagonista, rivelando le conseguenze emotive del disagio nel parlato ai tempi della radio e in assenza del visivo. Il discorso del re non si limita però a drammatizzare la stagione di vita più rilevante del nobile York e relaziona un profilo biografico di verità con un contesto storico drammatico e dentro l’Europa dei totalitarismi, prossima alle intemperanze strumentali e propagandistiche di Adolf Hitler. Non sfugge al re sensibile di Colin Firth e alla regia colta di Hooper l’abile oratoria del Führer, che intuì precocemente le strategie di negoziazione tra ascoltatore e (s)oggetto sonoro, il primo impegnato nel tentativo di ricostruire l’immagine della voce priva di corpo, il secondo istituendo un rapporto di credibilità se non addirittura di fede con la voce dall’altoparlante.
Se il mondo precipitava nell’abisso non era tempo di guardare al mondo con paura, soprattutto per un sovrano. Bertie, incoronato Giorgio VI, doveva ricucire dentro di sé il filo interrotto della relazione con l’altro, affrontando il suo popolo dietro al microfono e l’immaginario radiofonico. Fu un illuminato e poco allineato logopedista australiano a correggere il “mal di voce” di un re che voleva imporsi al silenzio. Lionel Logue sostituì col metodo il protocollo di corte, educando la balbuzie del suo blasonato allievo e incoraggiandolo a costruire la propria autostima, a riprendere il controllo della propria vita e a vincere prima la guerra con le parole e poi quella con le potenze dell’Asse.
A guadagnare la fluenza e a prendersi la parola è il ‘regale’ protagonista di Colin Firth, impeccabile nell’articolare legato, solenne nella riproposta plastico-fisica del suo sovrano e appropriato nell’interpretazione di un re che ‘ingessa’ emozioni e corporeità nel rispetto rigoroso della disciplina. Dietro al ‘re’ c’è l’incanto eccentrico di Geoffrey Rush, portatore di una “luccicanza” che brilla, rivelando la bellezza della musica (Shine) o quella di un uomo finalmente libero dalla paura di comunicare. Lunga vita al re (e al suo garbato precettore dell’eloquio).

da Mymovies

“Hereafter” di Clint Easwood (15/12/2011)

Hereafter dimostra ancora una volta come il cinema sia anzitutto una questione di forma, cioè a dire dell’importanza di come si racconta una storia, prima ancora del “cosa” si vuole narrare.
Immaginiamo cosa avrebbe potuto essere il film in mano ad un altro regista: molto probabilmente uno stucchevole “bignami” di suggestioni new age, un patetico intreccio di storie con l’obiettivo comune della cosiddetta lacrima facile.
Intendiamoci, la sceneggiatura dell’ultimo Eastwood è tutt’altro che banale, ma indubbiamente si presta a facili banalizzazioni e carinerie che, nella logica del cinema di cassetta che pure il cineasta americano non disdegna, non è facile evitare.
E invece Clint compie il miracolo (a proposito di soprannaturale), realizzando un’opera che mai come in questo caso trova nella definizione “asciutta” la sua cifra di riconoscimento: asciuga la stucchevole e zuccherosa deriva della commozione attraverso un uso sapientissimo del montaggio, che stacca l’illuminazione non appena i primi sintomi di sbrodolamento (sia concesso il termine) stanno per tendere un agguato allo spettatore.
La vicenda narra tre storie parallele ambientate in tre luoghi distanti tra loro migliaia di chilometri: gli Stati Uniti, l’Inghilterra ed infine la Sumatra del drammatico tsunami e poi Parigi. Due dei segmenti si confrontano con un evento tragico – collettivo il primo ed individuale il secondo – e mettono in scena la casualità e quindi la crudeltà del destino: in Indonesia una coppia di cronisti francesi in vacanza si imbatte nella tragedia ma si salva, indicendo però la coppia a scelte susseguenti radicalmente diverse; in Inghilterra uno scherzo di teppistelli provoca la morte di un bambino, fratello gemello e dunque contraltare mistico di quello che diventerà il protagonista del segmento.
Di fronte ad eventi tanto profondi, i protagonisti restano folgorati dal destino e cercano una via di uscita attraverso una ricerca mistica di contatto con l’aldilà, che sconvolgerà le loro esistenze e le metterà – ma solamente nell’ultima parte del film – a contatto con l’interprete delle voci dal nulla, il medium pentito George (Matt Damon) al quale invece il metafisico avrebbe rovinato l’esistenza, o almeno così il personaggio ci viene presentato.
La pellicola evita il parallelismo tra le storie narrate, ognuna ricca a tal punto da renderla autonoma ed originale rispetto alle altre, pur se narrate in sottrazione ed in chiaroscuro e dunque con la medesima cifra stilistica.
La grandezza del regista si manifesta soprattutto nelle scene di interni, illuminate da una luce cupa, quasi noir, nelle quali le drammatiche vicende dei protagonisti vengono narrate con discrezione, quasi “spiate” dalla porta della stanza accanto, immerse in una penombra che si fa simbolo di rispetto e di assenza di pregiudizio. Splendido in questo senso l’incontro tra George e la compagna del corso di cucina, nel quale una possibile unione sentimentale tanto pregustata nelle deliziose schermaglie davanti ai fornelli deflagra di fronte a un rivelazione appena accennata ma devastante, un momento di cinema altissimo. Persino nella sequenza di apertura del sopraggiungere dello tsunami, il cineasta non si fa prendere la mano dall’altissimo tasso di spettacolarità e ci restituisce la tragedia attraverso una messa in scena realistica e decisamente incisiva, recuperando la sobrietà del realismo storico di Flags of our fathers.
Ognuna delle storie riserva comunque spunti interessanti, dal ritratto di vita familiare allo sbando del segmento inglese, che ricorda tanto cinema british à la Loach & Leigh, alla ricerca della cronista francese di un senso “nuovo” alla vocazione giornalistica nella vicenda franco – indonesiana.
In sostanza, un kolossal (uso il termine per la sua ambientazione internazionale) dell’anima che, nella sequenza del dolly finale sull’incontro tra George e la giornalista francese, si fa idealmente anello di congiunzione con il finale dell’altro capolavoro del recente cinema eastwoodiano, Changeling.
Voto: 8 1/2
Mauro Tagliabue

per informazioni scriveteci! staff@centraldocinema.it