Scheda film
Regia: Francesco Patierno
Soggetto e sceneggiatura: Federico Baccomo, Federico Favot, Francesco Patierno, Marco Pettenello
Fotografia: Maurizio Calvesi
Montaggio: Renata Salvatore
Scenografia: Tonino Zera
Costumi: Eva Coen
Musiche: Santi Pulvirenti
Italia, 2014 – Commedia – Duarata: 105’
Cast: Claudio Bisio, Margherita Buy, Diego Abatantuono, Jennipher Rodriguez
Uscita: 30 gennaio 2014
Distribuzione: 01 Distribution
La fine del piccione
Analizzando attentamente la filmografia di Francesco Patierno, la prima cosa che salta all’occhio è la versatilità messa al servizio di un’offerta diversificata, frutto della capacità di spaziare e divincolarsi nel machiavellico mercato dell’audiovisivo nostrano. Ma se da una parte tale capacità può rappresentare un valore aggiunto, evitando di fatto a colui che ne dispone di essere etichettato e identificato in un dato filone o genere, dall’altra il passaggio da un estremo all’altro, per di più schizofrenico e altalenante, può determinare una perdita di interesse nei propri confronti da parte del potenziale fruitore. Per quanto ci riguarda, il regista napoletano appartiene a questa seconda categoria. In tal senso, trovare una continuità oggigiorno, proseguire e coerentemente perseguire una personale idea di cinema non è cosa facile, perché anche nella Settima Arte è subentrata l’esigenza di sopravvivere, per cui il compromesso è dietro l’angolo e fa parte del gioco. Patierno, come tanti altri come lui, quel compromesso deve averlo a sue spese dovuto accettare, probabilmente in quei cinque lunghissimi anni fatti di progetti naufragati che separano la folgorante opera prima del 2002 dalla seconda realizzata nel 2007.
Nel caso del regista partenopeo, autore di uno degli esordi più convincenti degli ultimi anni, ossia l’aspro, violento e disperato romanzo di deformazione dal titolo Pater familias, l’evidente cambio di rotta con La gente che sta bene, verso un certo tipo di commedia popolare e poco sofisticata, rappresenta a nostro avviso il punto più basso da lui toccato fino a questo momento. Già con il barcollante Il mattino ha l’oro in bocca, Patierno aveva in parte vanificato quanto di buono mostrato nel 2002, proseguendo la parabola negativa con il successivo Cose dell’altro mondo. Parabola, questa, interrotta solo grazie alle parentesi documentaristiche di Giusva prima e de La guerra dei vulcani poi, oltre a quella televisiva con la serie Donne assassine, che non sono servite purtroppo a riportare la filmografia sulla retta via.
L’ultima fatica dietro la macchina da presa di Patierno, che del secondo romanzo omonimo firmato dal trentacinquenne milanese Federico Baccomo è la trasposizione per il grande schermo, racconta la storia di un top manager milanese, Umberto Maria Dorloni, un avvocato d’affari ai vertici della propria carriera che guadagna facilmente quello che vuole e frequenta il giro della “gente che sta bene”. Partner di un importante studio legale internazionale, vive alla faccia della crisi economica imperante in un lussuoso appartamento nel centro di Milano con moglie e prole al seguito finché, quando meno se lo aspetta, non accade qualcosa che gli cambierà l’esistenza, ossia l’improvviso licenziamento dal posto di lavoro. Sprezzante e narcisista come è sempre stato, Umberto non intende però rassegnarsi e si trova costretto a rincorrere tentativi sempre più spregiudicati per tornare in vetta, fino ad essere sommerso dalle macerie della sua stessa vita, che ha iniziato inesorabile a franare, pezzo dopo pezzo.
Letta la sinossi è piuttosto semplice capire dove le pagine del romanzo e il film vogliono andare a parare. L’adattamento per il grande schermo non ha cambiato le sorti, nonostante modifiche e correzioni varie, anzi ha assestato il colpo definitivo ad una storia che già di per sé non riesce a calamitare l’attenzione dello spettatore, costretto per l’ennesima volta a inciampare sulla solita parabola esistenziale in odore di redenzione, all’insegna della banalità e del buonismo a buon mercato. Nulla a che vedere con il Virzì de Il capitale umano, che sulla crisi imperante e sui mali della Società odierna ha saputo argomentare decisamente meglio. La gente che sta bene è la dimostrazione ulteriore di come da un libro mediocre non possa nascere che una pellicola altrettanto mediocre. Nemmeno “Studio illegale”, il romanzo d’esordio di Baccomo del 2009, portato al cinema da Umberto Carteni tre anni dopo, era servito da campanello d’allarme. Del resto, una seconda chance non si dovrebbe negare a nessuno, ma visti entrambi gli esiti invitiamo caldamente i registi e i produttori di turno ad accantonare l’idea di una nuova trasposizione da un futuro romanzo dello scrittore milanese. Purtroppo si tratta di un invito che è destinato ad essere declinato. Trascorsi alla mano, infatti, difficilmente di fronte a un più che prevedibile riscontro favorevole al box office si riuscirà a scongiurare il pericolo.
Di fatto ci troviamo a fare i conti con quella che oltreoceano è stata battezzata dramedy. L’alternanza di ironia e toni seri, appare sin dall’inizio fragile e meccanica, con la svolta dal faceto al serio che manda definitivamente a picco l’intera operazione. La narrazione è intrisa di una stucchevole comicità che Patierno definisce “acida”, ma che noi consideriamo inconsistente e poco pungente. La riprova sta nel ricorso a sketch come la porta in faccia per strappare qualche sorriso. Per il resto, l’abbondanza di dialoghi, frenetici e onnipresenti, che strizzano l’occhio, senza riuscirci, a note serie a stelle e strisce (Mad Men su tutte), non fa altro che aumentare nella platea l’insofferenza nei confronti di un film logorroico e ridondante. Sul fronte tecnico-stilistico, neppure il lavoro dietro e davanti alla macchina da presa arriva in soccorso dell’operazione: da una parte la regia di Patierno è piatta, davvero poca cosa rispetto a quanto mostrato in precedenza, in particolare in Pater familias; dall’altra le performance dei singoli membri del cast ci consegnano un Bisio che, nel ruolo di Dorloni, annaspa peggio di Fabio Volo in quello del protagonista di Studio illegale, un Abatantuono zoppicante nella parte di Azzesi e una Buy che è la fotocopia sbiadita di quella apparsa in Viaggio sola.
Voto: 4
Francesco Del Grosso