Una notte di feroci scontri in Val di Susa. Una squadra del Reparto Mobile di Roma resta orfana del suo capo, Pietro Fura (Fabrizio Nardi), che rimane gravemente ferito. Quella di Mazinga (Marco Giallini), Marta (Valentina Bellè) e Salvatore (Pierluigi Gigante), però, non è una squadra come le altre, è un gruppo, che ai disordini ha imparato ad opporre metodi al limite e un affiatamento da tribù, quasi da famiglia. Una famiglia con cui dovrà fare i conti il nuovo comandante, Michele (Adriano Giannini), figlio invece della polizia riformista, per cui le squadre come quella, le cui azioni vanno spesso oltre il ristabilimento dell’ordine pubblico, sfociando nella vendetta, sono il simbolo di una vecchia scuola, tutta da rifondare. Come se non bastasse il caos che investe la nuova formazione nel momento di massima fragilità interna, si aggiunge quello dato da una nuova ondata di malcontento della gente verso le istituzioni. Un nuovo “autunno caldo” contro cui proprio i nostri sono chiamati a schierarsi e in cui ogni protagonista è costretto a mettere in discussione il significato più profondo del proprio lavoro e della propria appartenenza alla squadra.
Nuovo adattamento del romanzo di Bonini, ormai datato 2o09, figlio più o meno consapevole dei fatti del G8 di Genova del 2001. Sono passati così tanti anni da quella pubblicazione, che la nuova edizione, curata appositamente per l’uscita della serie omonima, reca anche una nuova prefazione dello stesso autore, per riattualizzarne i contenuti. Il nuovo Governo italiano, in carica dal 2022 e problematiche mai sopite inerenti alle forze interne di polizia – che fanno sembrare gli scontri per la TAV in Val di Susa quasi archeologia – hanno decretato una certa “urgenza” nell’andare a rispolverare tali tematiche.
C’era stato anche un film, girato da Stefano Sollima nel 2012, per cui l’operazione è ancora più facile da approntare: si ripesca uno storico membro di allora, nello specifico Marco Giallini, ancora nei panni del personaggio di Mazinga, e si crea una storia nuova, ancora più corale se possibile, dando maggiore respiro alle vite private di poliziotti, andando ad acuire il distacco tra rapporti professionali e famigliari, aggiungendo pure un poliziotto donna, con le fattezze un filo androgine di Valentina Bellè, si convoca il regista precedente alla produzione esecutiva??? e si mette dietro la macchina da presa qualcuno che negli ultimi anni in fatto di action, tra piccolo e grande schermo, ha detto la sua in Italia: Michele Alahique.
Che cosa manca dunque ad A.C.A.B. – La serie? A giudicare dai primi due episodi, nulla.
Quando mi avvicino a delle nuove storie cerco sempre di individuare i conflitti che sono al centro del racconto.
Quello che mi è saltato subito agli occhi leggendo i primi copioni di ACAB è il lavoro che gli autori avevano fatto per mettere a fuoco il rapporto tra la professione e la vita privata dei personaggi. Si tratta di una relazione bidirezionale. Per sua natura, il lavoro del celerino è continuamente esposto a situazioni emotivamente e fisicamente traumatiche. Abbiamo provato a raccontare le ripercussioni che provengono da una parte e dall’altra e l’impatto che ne deriva. Come può un poliziotto lasciare alle spalle i propri conflitti privati quando si trova in prima linea dietro a uno scudo di fronte a centinaia di antagonisti? ACAB è una serie che mette al centro i personaggi, sono loro che veicolano la storia fin dal primo fotogramma. È la frustrazione privata di Pietro (“Mia moglie s’è rotta il cazzo!”) a far sì che usi la mano pesante contro gli antagonisti in Val di Susa? O si tratta invece del suo modo di gestire l’ordine pubblico? Nascono prima i conflitti interiori o quelli esteriori? La violenza è un tema che ho sempre provato ad esplorare nei miei lavori. In ACAB la violenza viaggia su due binari paralleli, c’è quella visibile, fisica, messa in scena negli scontri. Poi c’è un’altra violenza, che viaggia più sotterranea e minacciosa, che condiziona in maniera più profonda i personaggi e le loro relazioni. Ognuno di loro affronta un percorso privato che lo porterà a scontrarsi con i propri affetti e saranno questi conflitti a influenzare le azioni che compiranno con la divisa addosso.
Mi sono interrogato a lungo su come potessi mettere al centro del racconto seriale una squadra del reparto celere. La serialità di genere si appoggia troppo spesso a personaggi che rischiano di diventare cliché o di costruire dinamiche con tono retorico. E questa possibilità mi spaventava moltissimo. Per riuscire a evitare ciò era necessario provare a vedere cosa c’è oltre la divisa. I quattro protagonisti (nati dalla penna di Gravino, Bonini, Dondi, Giordano e Pellegrini), ma di fatto l’intera squadra che raccontiamo, composta da dieci elementi, mi hanno dato la possibilità di indagare da vicino un mondo chiuso, con le sue regole, impossibili da decifrare se non avvicinandosi a piccoli passi e mettendo da parte il giudizio. Ho cominciato a lavorare con gli attori e a ragionare sulle relazioni dei loro personaggi e sui loro conflitti. Questo processo iniziato prima delle riprese mi ha permesso di vedere con quale lente avrei potuto portare il racconto in una sfera più intima.
Qual è il limite al quale si può arrivare prima che la violenza esercitata e vissuta quotidianamente possa arrivare ad anestetizzare le emozioni? E, questo processo, è una forma di difesa inevitabile per sopravvivere in quel ruolo? Come si arriva a disumanizzare l’antagonista che si ha di fronte?
La serie non si pone l’obiettivo di dare delle risposte ma proverà a portare lo spettatore dentro questo mondo affinché, attraverso le storie di questi personaggi, possa anch’esso porsi le stesse domande.