Scheda film
Regia, Soggetto e Sceneggiatura: Guido Manuli
Fotografia: Tarek Ben Abdallah
Montaggio: Rosella Mocci
Scenografie: Giampietro Preziosa
Costumi: Ginevra Polverelli
Musiche: Vitalic
Suono: Francesco Liotard
Italia, 2012 – Fantastico – Durata: 87′
Cast: Vincent Gallo, Silvia Calderoni, Elisa Sednaoui, Fabrizio Gifuni, Marco Lampis, Claudia Gerini
Uscita: 13 giugno 2013
Distribuzione: Mediaplex in collaborazione con Cineama
Sale: 9
Il cavaliere danzante
«Tu vivi il sogno del gusto, perché la vita non ha più un sapore!»
Gran parte dei plot proposti al cinema non sono altro che il frutto dell’immaginazione dello sceneggiatore di turno. Capita piuttosto spesso, però, di imbattersi in film tratti da storie vere o almeno che vi si ispirano liberamente. Poi ce ne sono altri le cui storie narrate viaggiano a cavallo sulla sottile linea che separa il vero dal falso e quella linea si chiama Mito. È il caso della storia di Kaspar Hauser, un giovane tedesco affetto da un ritardo mentale ritrovato in circostanze misteriose su una spiaggia di Norimberga nel maggio del 1828. Soprannominato “Il fanciullo d’Europa”, il ragazzo sosteneva di essere cresciuto in totale isolamento in una cella. Le sue affermazioni e la morte per omicidio hanno finito con il generare un acceso dibattito, sul quale si sono pronunciati nei decenni giornalisti, scrittori, teatranti e cineasti. Proprio la Settima Arte ha dedicato a questa discussa figura una serie di pellicole che ne rievocano le vicissitudini esistenziali, attingendo alla ricca documentazione prodotta e alle differenti interpretazioni e ipotesi sollevate sul suo conto. Ultimo in ordine di tempo a trarne un film è Davide Manuli che, a tre anni di distanza da Beket, porta sul grande schermo La leggenda di Kaspar Hauser.
Inizialmente inserita nel listino della Iris Film, che nel frattempo ha dovuto chiudere i battenti, l’ultima fatica del regista milanese ha per fortuna trovato nella Mediaplex una nuova possibilità distributiva che le ha consentito di approdare nelle sale nostrane a partire dal 13 giugno in una decina di copie. La versione firmata da Manuli è una rilettura di un mito che rilegge un mito, piuttosto distante dalle vicende che videro protagonista “Il fanciullo d’Europa”, diversamente da quanto fatto in passato da Kurt Matull nel 1915, da Peter Sehr nel 1993 e soprattutto da Werner Herzog nel 1974, senza alcun dubbio decisamente più fedeli a quanto scritto e narrato negli anni. In particolare, con L’enigma di Kaspar Hauser, Herzog narra con partecipazione autobiografica, fra sogno e realtà, la vicenda del suo “ragazzo selvaggio”, un caso che ha catturato anche l’attenzione di intellettuali come Verlaine, Wassermann, Trakl e Handke. Kaspar Hauser incarna l’estraneità assoluta, l’imprevisto che non rientra nelle norme sociali, giuridiche, religiose. La sua è una “passione laica” per l’apprendimento della vita come linguaggio e comunicazione. Il regista tedesco ne delinea lo spazio popolato di sogni, incubi, angoscia, premonizioni di morte e la segue con rigore visionario, trovando in Bruno S. un interprete fuori dall’ordinario, lui stesso orfano cresciuto fra riformatori e carceri.
Il collega milanese, pur facendo leva sugli archetipi chiave della storia di Hauser, preferisce, a nostro avviso intelligentemente, distaccarsene, dando origine a una rilettura surreale e profondamente personale all’insegna di quella sperimentazione e ricerca che da sempre identifica il suo lavoro dietro la macchina da presa, a cominciare dal folgorante esordio del 1998 dal titolo Girotondo, giro attorno al mondo, un’intensa e straziante opera che esplora dall’interno, senza compiacimenti né indulgenze agli stereotipi del nichilismo, il mondo della tossicodipendenza. Ma è con Beket, con l’approccio drammaturgico e tecnico-stilistico che lo caratterizza, che La leggenda di Kaspar Hauser condivide in tutto e per tutto le affinità elettive. Le due opere danno vita, infatti, a un dittico nel quale è possibile rintracciare la medesima scrittura drammaturgica e visiva, che vede nella totale astrazione il motore portante. In due non luoghi fuori dal tempo, persi nel nulla di una visione desertica dipinta da un cineasta che restituisce un mondo senza colori che avvolge le anime che lo abitano e lo percorrono in un poetico bianco e nero, Manuli mette in scena la storia di Hauser. Lo fa ricorrendo nuovamente a una narrazione ellittica, volutamente discontinua e divisa in atti, nella quale trova ampio spazio un cinema fatto di corpi, suoni, parole (meravigliosi i monologhi affidati a un bravissimo Fabrizio Gifuni nel ruolo del prete) e le vibrazioni della musica elettronica (difficile non battere il tempo con la coinvolgente colonna sonora di Vitalic). A mettere insieme il tutto ci pensa una circolarità strutturale che riporta la storia allo stesso punto di partenza. Nel mezzo scorre immobile un’azione che non ha uno sviluppo né indietro né in avanti, ma che sembra rimanere miracolosamente cristallizzata al medesimo istante. A differenziarli è naturalmente il plot, ma anche i personaggi che lo animano e il baricentro tematico (il primo è sull’assurdità dell’esistenza umana, mentre il secondo è sull’incomunicabilità) sul quale si erge il non sense dell’operazione, quest’ultimo solo apparente perché da ricercarsi nei differenti piani di lettura, alcuni dei quali impercettibili, con i quali Manuli costruisce la sceneggiatura. Il vero significato va ricercato nell’ambiguità di un’operazione che vive negli e attraverso gli opposti: dai personaggi che sono speculari l’uno all’altro (la prostituta e la Granduchessa, lo sceriffo e il pusher, entrambi interpretati da un Vincent Gallo in stato di grazia) alla scelta di utilizzare una donna androgina per interpretare la figura di Hauser (una bravissima Silvia Calderoni), passando per una veste retro-futurista che mescola UFO, musica elettronica, dj set e tute Adidas alla pellicola, al bianco e nero e un’estetica anni Sessanta.
Dal primo all’ultimo fotogramma utile, il regista non si lascia mai sfuggire l’occasione di prendersi dei rischi e questo alla lunga lo premia. Ne viene fuori un’opera appassionante e coraggiosamente fuori dagli schermi, che si lancia, riuscendoci a nostro avviso, all’inseguimento di un linguaggio cinematografico che va oltre il contingente.
RARO perché… è l’ultimo film in ordine di tempo di un regista assai singolare.
Voto: 8
Francesco Del Grosso