Scheda film
Regia: Nick Murphy
Soggetto e Sceneggiatura: Bill Gallagher
Fotografia: George Richmond
Montaggio: Victoria Boydell
Scenografie: Cristina Casali
Costumi: Michele Clapton
Musiche: Daniel Pemberton
G.B., 2012 – Thriller – Durata: 92′
Cast: Paul Bettany, Mark Strong, Brian Cox, Stephen Graham, Zoë Tapper, Ben Crompton, Adrian Edmondson
Uscita: 27 giugno 2013
Distribuzione: Notorious Pictures
Delitto e castigo
Pur di vendere qualche biglietto in più, le case di distribuzione sono davvero pronte a tutto. Di conseguenza, la promozione deve spesso ricorrere a quei trucchetti del mestiere per riuscire a calamitare l’attenzione dello spettatore sulla rispettiva pellicola, specialmente quando questa è costretta a fare a spallate nei periodi cosiddetti “caldi” (in tutti i sensi visto l’avvicinarsi della stagione balneare), nei quali l’offerta dei titoli in programmazione è piuttosto abbondante. Per il bene del film del proprio listino, quindi, si è il più delle volte costretti a ricorrere a machiavelliche strategie per farsi largo al box office: dallo stravolgimento del titolo al cambio di genere, dal cavalcare una particolare moda del momento (il nome di un attore famoso o in rampa di lancio, un premio prestigioso ottenuto, ecc…) all’utilizzo di questa o quell’altra frase estrapolata da una recensione che porta la firma di un critico o di una testata di richiamo da trasformare successivamente in una log line, sfruttata sui materiali pubblicitari per accompagnare l’uscita nelle sale di un dato film. Quest’ultima è tra le strategie promozionali forse quella più abusata, sulla quale ha finito con il puntare anche la Notorius Pictures per il lancio nelle sale nostrane di Blood, in un cartellone decisamente saturo come quello del 27 giugno.
Al di là dei pregi e dei difetti che caratterizzano l’opera seconda di Nick Murphy, che andremo ad analizzare nelle prossime righe, appare piuttosto fuorviante, per non dire esagerata, la scelta di arrivare persino a paragonarla, come ha fatto Hollywood Reporter, a un capolavoro come Mystic River. Eccetto qualche flebile analogia, per quanto ci riguarda tale paragone appare fin troppo generoso, tanto da spingerci a contestarne l’utilizzo sia da parte del magazine a stelle e strisce sia da parte della casa di distribuzione italiana. Anche perché, nonostante ci si trovi al cospetto di un’operazione che nel suo complesso si attesta sulla soglia della sufficienza, i valori espressi dal film del regista britannico sono decisamente lontani da quelli portati sul grande schermo dieci anni fa dal collega statunitense. Nella straordinaria pellicola diretta da Clint Eastwood, il sangue chiama sangue in un intreccio di elisabettiana crudeltà con un finale in sospeso che rifiuta ogni catarsi, come indica, ai limiti dell’irrisione, la parata conclusiva del Columbus Day. Blood, al contrario, la catarsi dello spettatore non la rifiuta, piuttosto la insegue dal primo all’ultimo fotogramma utile. Dunque, due approcci alla materia e altrettanti rapporti con lo spettatore diametralmente opposti che indirizzano le fruizioni su strade lontanissime. Tuttavia, per diritto di cronaca ci appoggiamo al suddetto paragone, oltre a quelle flebili analogie alle quali si accennava in precedenza, così da analizzare a 360° il film di Murphy.
Detto ciò, ad avvicinare le due opere forse c’è il richiamo a certe atmosfere sospese, costruite su una tensione latente e sotterranea che crea angoscia, soffocamento e disagio (vedi la scena della sepoltura). Queste vanno a confluire in due luoghi ben precisi dove passato e presente intrecciano fatalmente e drammaticamente i fili del destino. Baricentro dei rispettivi plot, costruiti sui temi del perdono, della supremazia maschile con coazione alla violenza, dell’impossibilità di liberarsi del passato e dell’insostenibile peso del senso di colpa che finisce con il divorare dall’interno chi vi si è macchiato, sono dei luoghi che diventano a conti fatti contemporaneamente spazi della memoria e fisici. Nella pellicola di Eastwood, il fiume del titolo che, lento, bagna Boston, è alla pari dell’isola di Hilbre (sulla punta occidentale della penisola di Wirral al confine con il Galles, situata nell’estuario del fiume Dee), “teatro” del delitto che in Blood segnerà come una macchia di sangue indelebile le vite dei fratelli Fairburn, uno scenario le cui acque porteranno via, ricoprendole, le tragedie di uomini fragili e indifesi che si credevano forti e intoccabili. Più che la disperazione, in entrambi i casi si finisce con il sottolineare un dolore che diventa strumento di conoscenza dell’umana fragilità. La sostanziale differenza, invece, sta nel fatto che come spesso accade la verità non resta mai sepolta a lungo, con il film di Murphy che, nonostante le origini anglosassoni, finisce con lo sposare senza se e senza ma il principio hollywoodiano della causa-effetto (fai questo, succede quello), alla quale il saggio Clint riesce invece miracolosamente a stare alla larga. Il risultato è una prevedibilità di fondo che si riflette sempre nella stessa morale, quella che Eastwood ripudia a favore di un senso di colpa che continuerà a segnare l’esistenza umana anche dopo che la verità sarà venuta a galla. Sul luogo del delitto si muovono esistenze segnate da un passato che brucia come una ferita ancora aperta. Queste esistenze barcollano pericolosamente su quella sottile linea che divide il bene dal male, il giusto dallo sbagliato, tanto che nessuno dei personaggi coinvolti è di diritto iscrivibile da una parte o dall’altra della barricata, persino i due poliziotti protagonisti. Da qui nasce quell’ambiguità che permette di fatto al film di mettere in vetrina una più che discreta costruzione dei personaggi, frutto di una caratterizzazione precisa e attenta che li rende veri, credibili e portatori “sani” di sfumature drammaturgiche. A goderne sono in primis gli interpreti, che vanno a loro volta a formare un cast di altissimo livello, nel quale spicca il terzetto protagonista formato da Paul Bettany, Stephen Graham e Mark Strong, al quale aggiungiamo anche la straordinaria performance di Brian Cox.
In Blood confluiscono registri, ingredienti e archetipi del cinema di genere, in un mix che tra alti e bassi riesce comunque a mantenere un contatto con il pubblico. Il poliziesco incontra così il noir, il dramma familiare e persino qualche traccia riconducibile al cosiddetto “serial-thriller” (vedi la classica figura del pazzo maniaco e assassino predicatore). A una sceneggiatura che tracima di stereotipi corrisponde una scrittura registica di apprezzabile asciuttezza e di suggestiva ambientazione. Una cifra che in Murphy, a giudicare dall’esordio del 2009 con 1921 – Il mistero di Rookford, appare piuttosto radicata.
Voto: 6,5
Francesco Del Grosso