Scheda film
Regia: Gus Van Sant
Soggetto: da un racconto di Dave Eggers
Sceneggiatura: Matt Damon, John Krasinski
Fotografia: Linus Sandgren
Montaggio: Billy Rich
Scenografia: Daniel B. Clancy
Costumi: Juliet Polcsa
Musiche: Danny Elfman
USA, 2012 – Drammatico – Durata: 106’
Cast: Matt Damon, John Krasinski, Frances McDormand, Rosemarie DeWitt, Hal Holbrook
Uscita: 14 febbraio 2013
Distribuzione: BIM
I cari vecchi principi di una volta
Un’altra storia di crisi economica, un’altra testimonianza di smarrimento sociale nella provincia americana, che è poi la vera America, quella lontana anni luce dalle grandi metropoli.
In Promised Land, Matt Damon è un agente di vendita che lavora per una grossa società, nato in un paesotto di campagna dello zoccolo più duro degli States, del quale sembra essersi lasciato alle spalle il retaggio, ma che dovrà tornare per lavoro proprio in una di queste cittadine, per riuscire a convincere i suoi abitanti ad aderire ad un progetto di estrazione di gas naturale. Tuttavia una volta arrivato si troverà, insieme alla sua collega Sue Thomason (una sempre bravissima Francis McDormand, che riesce a giostrarsi bene nel ruolo di collega cinica, ma allo stesso tempo anche di madre affettuosa e apprensiva), di fronte ad una inaspettata e tenace resistenza che piano piano prenderà piede nella gente del luogo.
Il conflitto morale viene inserito da subito al centro, portando lo spettatore a riflettere su una contrapposizione netta tra due scelte: conservare le proprie radici e quindi difendere la propria terra (una terra colpita profondamente dalla crisi economica), oppure prendere i soldi e magari ricominciare altrove? E l’equilibrio tra i punti a favore e i punti contro a queste due opzioni risulta essere proprio la forza trascinante di questo film, non permettendo quasi mai di potersi schierare da una parte piuttosto che da un’altra. Ecco però che ad un certo punto della storia, come un pugno nello stomaco, la fastidiosa tendenza di un certo cinema americano buonista si fa sentire prepotentemente. L’intento del regista infatti, a quanto pare, sembrerebbe quello di creare a tutti i costi un finale “politically correct”, che francamente fa spegnere un po’ gli entusiasmi, suscitati durante quasi tutto il tempo, oltre che dal dilemma morale, anche da attori molto in gamba, da dei dialoghi mai scontati e da un’ambientazione della provincia americana molto accurata e credibile. La scelta di Gus Van Sant (che si conferma un regista nettamente a due velocità, riuscendo a dirigere magistralmente film dalla forte impronta indipendente e sperimentale come Elephant e Paranoid Park e dall’altra parte rifugiandosi nei classici di sceneggiatura hollywoodiani come Scoprendo Forrester, Will Hunting e lo stesso Promised Land) e di Matt Damon, che oltre a recitare ha scritto la sceneggiatura insieme a John Krasinski (anche lui presente nel cast artistico), è quella di inserire, alla fine dei conti, questo film nel filotto dei racconti moralmente giusti, portandolo così un po’ a spegnersi con l’evolvere della storia. Forse un proseguo un po’ più arcigno e disincantato, che ci risparmi il solito sacrificio dell’eroe visto e rivisto in mille salse, avrebbe aiutato lo spettatore ad identificarsi un po’ di più con la realtà odierna, che a quanto pare di moralmente giusto non ha proprio nulla. O forse siamo solo noi che ai lieto fine non crediamo più così tanto.
Voto: * *½
Vito Casale
#IMG#A tutto gas
Come ai tempi della corsa al petrolio, negli Stati Uniti, le multinazionali sono disposte ad acquistare terreni apparentemente senza valore a prezzi fuori mercato. Perché? È presto detto: sperano di poterne estrarre gas naturale. Come? Con procedimenti di trivellazione tra i più invasivi e violenti mai sperimentati, causa di gravi e letali danni all’ambiente e in particolare alla falde acquifere, a loro volta fonte di vita e sostentamento per esseri viventi, vegetali e animali, tra cui proprio l’uomo. Un problema questo abilmente insabbiato dai governi a stelle e strisce, almeno fino a quando Josh Fox non li ha portati a galla nel 2010 con l’agghiacciante Gasland, un feroce reportage con il quale il giovanissimo videomaker americano si è portato a casa una meritatissima candidatura all’Oscar per il miglior documentario. Autentico pugno allo stomaco, il film di Fox non è solo un compendio di dati e cifre, ma un intervento sul campo determinato e risoluto, portato avanti dall’autore con l’amara sfrontatezza di un Michael Moore. Il risultato finisce con lo squarciare il sipario dietro il quale si annida l’avidità senza scrupoli delle Corporation, mentre documenta inesorabilmente i danni micidiali alla salute e all’ambiente che esse provocano.
Sul fronte dell’incisività non si può dire purtroppo la stessa cosa di Gus Van Sant e della sua ultima fatica dietro la macchina da presa dal titolo Promised Land, nelle sale nostrane a partire dal 14 febbraio con BIM a pochi giorni dalla presentazione in concorso alla 63esima edizione della Berlinale. A metà strada tra il pamphlet ecologista e il dramma sociale, che ha sull’argomento illustri precedenti (da Erin Brockovich a Michael Clayton, passando per A Civil Action), il film potrebbe apparire come una sorta di prequel che anticipa gli effetti devastanti mostrati in Gasland. Van Sant ci porta al seguito di Steve Butler, un ragazzo di campagna divenuto un agente di vendita in carriera di una grossa compagnia energetica, specializzata in estrazione di gas naturale. La sua vita però prende una piega inaspettata quando viene inviato dall’azienda con la collega Sue Thomason in una cittadina della Pennsylvania di nome McKinley. La zona è stata colpita duramente dalla recente crisi economica degli ultimi anni e i due consumati agenti di vendita credono che i cittadini accetteranno facilmente l’offerta della azienda per cui lavorano – decisa a ottenere i diritti di trivellazione sui terreni di loro proprietà – come sollievo alle loro difficoltà economiche. Ma quello che sembrava un lavoro facile e un breve soggiorno diventa per entrambi un complicato groviglio, sia da un punto di vista professionale sia sul versante personale, quando, complice lo zampino di un furbo attivista ambientale, i cittadini decidono di resistere alle tentazioni di guadagni facili, convinti che i metodi di estrazione del gas siano altamente tossici.
Il regista americano firma una pellicola anonima, fatto assolutamente inedito per un autore che sin dagli esordi con Mala Noche e Drugstore Cowboy ha dimostrato di saper personalizzare la materia narrativa con la quale di volta in volta entra in contatto. Da sempre attento alle psicologie dei personaggi ma anche alle storture sociali e culturali del suo Paese, soprattutto nei confronti delle minoranze, Van Sant qui sembra non entrare in contatto fino in fondo né con la storia che racconta né con coloro che la animano dall’interno. Eppure è di minoranze e di esistenze messe a rischio che si parla, perché è in quelle categorie che vanno a iscriversi i cittadini di McKinley, costretti a decidere se morire più rapidamente ma con qualche soldo nelle tasche o aspettare inesorabilmente che il decesso arrivi a causa della crisi imperante. Fatto sta che il regista di perle come Elephant e Will Hunting – Genio ribelle, stavolta non si dimostra all’altezza di una materia in grado di aprire squarci nella coscienza di un pubblico il più delle volte assuefatto e assopito. Tratta la materia sfiorandola appena e sembra che si sia limitato solamente a mettere insieme i pezzi, lasciando alla porta le implicazioni emotive, l’introspezione e in primis lo scavo nel dramma umano e sociale. Che si tratti dell’uno o dell’altro, solo di rado tira fuori qualcosa che smuove il tracciato piatto della narrazione, come nel caso del monologo finale nel quale Butler conclude il proprio percorso di redenzione. Nei suoi confronti resta però un’anaffettività palese, che se pensiamo ai protagonisti di Milk o Scoprendo Forrester ci appare davvero impensabile possa accadere in un film firmato da Van Sant. Nonostante la prova maiuscola di Matt Damon (alla terza collaborazione con il regista americano dopo Will Hunting e Gerry), aiutato da bravissimi comprimari, in Butler non troviamo nessun appiglio alla quale agganciarci perché irrisolto: un venditore di morte che ci fa pure tenerezza, combattuto e capace di scrupoli di coscienza, ma che a conti fatti non sappiamo se amare o continuare a detestare.
Il cineasta ha il demerito di non raccontare i personaggi con la stessa lucidità dimostrata in passato, senza compiacimenti né moralismi, con una forza visiva di grande efficacia nella sua scioltezza, suggerendo le radicali scelte esistenziali che sono all’origine della loro vita. Il limite più evidente è l’incapacità dell’autore di penetrare al di sotto della mera superficie delle cose e dei fatti, come mai prima di adesso. In altalena tra stereotipi hollywoodiani e finezza di annotazioni, viene meno anche il raffinato senso figurativo e le belle invenzioni stilistiche di un regista che ha saputo parlare alla platea con la sola potenza delle immagini, come nel caso di Elephant, Gerry o Last Days (l’uso di lunghissime inquadrature e del piano sequenza così come l’espediente di mostrare la stessa scena più volte da punti di vista diversi). Qui a catturare l’occhio sono solamente le frequenti riprese aeree che tramutano le strade di cemento ritagliate nel verde della vallata in arterie e vene di una terra ancora sana, ma prossima all’avvelenamento. Insomma, l’alchimia e il dialogo con gli elementi drammaturgici che compongo Promised Land appaiono inspiegabilmente cristallizzati, privi di quella potenza empatica che caratterizza il modo di fare e concepire la Settima Arte per Gus Van Sant. La stima che proviamo nei suoi confronti ci fa pensare che si tratti solo di una fisiologica battuta d’arresto.
Voto: * *½
Francesco Del Grosso