Scheda film

Regia e Sceneggiatura: Olivier Assayas
Fotografia: Eric Gautier
Montaggio: Luc Barnier
Scenografie: François-Renaud Labarthe
Costumi: Jurgen Doering
Suono: Nicolas Cantin
Francia, 2012 – Drammatico – Durata: 122‘
Cast: Clément Métayer, Lola Créton, Felix Armand, Carole Combes, India Menuez, Hugo Conzelmann, Mathias Renou
Uscita: 17 gennaio 2013
Distribuzione: Officine Ubu
Sale: 31

 Nostalgia, nostalgia canaglia

9 febbraio 1971: il Secours Rouge, un’organizzazione francese nata dalla corrente maoista, indice una manifestazione – vietata dalla prefettura – a sostegno di due dirigenti della Sinistra Proletaria che dal carcere reclamano lo statuto di prigionieri politici. Qualcosa nell’aria si apre fotografando il violentissimo scontro fra i giovani studenti che cercano di riunirsi in piazza e la polizia, fra manganelli, sassaiole e granate fumogene: riagganciandosi in parte al discorso sviluppato ne L’eau froide, Oliver Assayas continua ad attingere alla sua esperienza autobiografica, che impregna ed ispira la ricostruzione storica di una pagina cruciale del XX secolo, quella che nel giro di una manciata di anni determinò la messa in discussione radicale dei valori e delle strutture della società.
Gilles, un liceale che vive in un sobborgo parigino, è coinvolto insieme ai suoi amici nella mobilitazione collettiva dei primi anni Settanta e partecipa attivamente alle diverse iniziative della piccola cellula di attività militante cui fa riferimento: durante un’azione notturna nel loro liceo però qualcosa va storto e accidentalmente un agente di sorveglianza rimane gravemente ferito. La necessità di allontanare da loro i sospetti porta il gruppo a lasciare momentaneamente Parigi: sarà quella l’occasione non solo per cercare di trovare la propria strada ma anche per riflettere sul sogno di cambiamento e sul loro desiderio di realizzazione al di fuori dei dettami “socialmente preordinati”.
Con una lettura filtrata attraverso la lente della lettura artistico-culturale, Assayas racconta la Storia concentrandosi sulla decostruzione e ricostruzione di nuovi modelli di riferimento: sfruttando la cornice della militanza politica, le ideologie, le geometrie e i contrasti di quegli anni, il regista sviluppa una riflessione che alle dinamiche strettamente intra-correntiste preferisce un ritratto più “emotivo” che valorizzi i mutamenti sociali, l’emancipazione giovanile, lo sviluppo del movimento femminista, il maschilismo nelle gerarchie dei collettivi. Il maggio del ’68, simbolo di uno spartiacque politico-culturale, rappresenta per Olivier Assayas un momento di “libertà e utopia che precede la strutturazione della militanza”, ha sottolineato nella conferenza stampa romana: “il seguente irrigidimento in tante piccole correnti e il dogmatismo hanno spento l’energia creativa e artistica, l’invenzione di un mondo nuovo” ha poi proseguito ed effettivamente Qualcosa nell’aria sembra imperniarsi proprio su questa lettura dei mesi e degli anni che seguirono la fiammata della primavera sessantottina (basti pensare al titolo originale, Aprés Mai). Scandito da viaggi “alla ricerca di sé”, droghe, esperienze artistiche variegate, sperimentali e spesso ricche di suggestioni tratte dal confronto con le filosofie orientali, Qualcosa nell’aria non trascura le contaminazioni e le contraddizioni insite anche nelle frange più “radicali” del pensiero rivoluzionario (basti pensare alla lunga festa organizzata dall’inquieta e creativa Laure nella villa del nuovo compagno, che si dedica alla promozione di artisti underground dall’alto del suo opulento back-ground alto-borghese), seguendo il percorso di crescita di Gilles, immergendosi insieme a lui in quell’atmosfera di confusione e spaesamento e accompagnandolo nella sua accorata ricerca della propria strada, fra il sogno della pittura e il fascino del cinema: alla grande energia propulsiva e creativa si contrappone la disillusione e la sfuggevolezza di un sogno utopico che stenta a realizzarsi nelle forme originarie.
Simbolico ed evocativo nel tratteggiare il ritratto di una generazione, il film diventa più esplicito e puntuale nel citare i punti di riferimento culturali che fanno da impalcatura allo sviluppo della storia, fra inquadrature che indugiano sulle copertine dei libri, immortalano le prime pagine delle numerose testate free-press (su tutte “Tout” e “Parapluie”) o le cover dei vinili le cui musiche arricchiscono la colonna sonora. Da Syd Barrett ai Soft Machine, passando per Nick Drake, Captain Beefheart e Dr. Stangely Strange (solo per citarne alcuni), Olivier Assayas condensa i suoi gusti personali (e i ricordi della sua adolescenza) fra rock, blues e folk: “le canzoni non sono scelte per illustrare o per sottolineare, hanno una sorta di autonomia, quasi una narrazione parallela: fanno parte integrante della storia e hanno il loro spazio per svilupparsi” ha dichiarato nelle note di regia, a conferma della centralità della musica come vero e proprio linguaggio a se stante (in questo senso è interessante sottolineare l’importante ruolo destinato nel film anche e soprattutto al cinema, vera e propria esemplificazione di quel cambiamento di immaginario così cruciale a cavallo fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del nuovo decennio).
Puntuale e rigoroso nella ricostruzione storica e capace di restituire credibilità e tridimensionalità a diverse realtà sociali – prima ancora che culturali – il film è pervaso da un soffuso e diffuso afflato di malinconia, una nostalgia romantica che non abbraccia tanto l’ideologia fine a se stessa quanto la speranza per il divenire: Assayas si lascia trasportare dai ricordi e tassello dopo tassello dà vita a un mosaico di sensazioni e suggestioni sicuramente affascinanti ma non sempre pienamente valorizzate. Qualcosa nell’aria avrebbe potuto essere molto di più di un buon ritratto storico-generazionale ma talvolta sembra mancare dello slancio giusto, complice forse anche una generale aritmia nello sviluppo della storia che la rende poco coinvolgente: dopo la palpitante sequenza d’apertura il pathos e la partecipazione emotiva scemano gradualmente, rendendo meno appassionante l’inanellarsi di storie e avvenimenti nelle vicende dei protagonisti.
Paradigma della giovinezza e della sua coraggiosa ingenuità, Qualcosa nell’aria – vincitore alla Mostra del Cinema di Venezia del Premio Osella per la Migliore Sceneggiatura – può però fare affidamento su una regia attenta e calibrata, eccellente nel restituire la giusta linearità al percorso narrativo che si sviluppa senza intoppi e senza incappare in quegli stereotipi che affliggono soprattutto alcune emblematiche parentesi storiche: il dialogo fra arte e politica prende le forme di un viaggio emotivo che poco ha a che vedere con gli slogan e che invece, forte dei solidissimi riferimenti culturali di Assayas – da Pascal agli esponenti della Scuola di Francoforte – si trasforma in un silenzioso ma ardente inno alla Passione, cristallizzata nei suoi tanti volti e nelle sue innumerevoli implicazioni e conseguenze (dall’astrattismo iconico di Laure alla pragmaticità di Christine, infiammata dall’amore per la politica, alla posizione mediana di Gilles, che fatica a trovare la propria dimensione, che comprende di dover ancora continuare la ricerca di un linguaggio coerente con le proprie aspirazioni espressive ma che nel suo percorso di auto-formazione finirà per entrare in tacita collisione con la rigidità di alcuni suoi compagni).
RARO perché… è un film nostalgico e molto personale.

Voto: * * *½

Priscilla Caporro

 #IMG#“Tra noi e l’inferno o tra noi e il cielo c’è solo la vita, che è la cosa più fragile del mondo” – Pascal

Parigi, 1971. Dopo i violenti scontri di febbraio tra polizia e manifestanti, Gilles e i suoi compagni si mobilitano in sostegno degli attivisti arrestati, ma durante un raid notturno al liceo feriscono una guardia giurata. Costretti alla fuga, Gilles, la sua ragazza Christine e il suo amico Alain partono per l’Italia, dove si uniscono a un collettivo che si propone di documentare le lotte operaie.
Personalissima “madeleine” che alterna il sapore acre dei lacrimogeni a quello agrodolce dei baci rubati, Qualcosa nell’aria si muove con mirabile leggerezza tra autobiografia e romanzo di formazione. Contraltare simmetrico alla miniserie Carlos (2010), in parte ambientata negli anni ’70 del terrorismo e della lotta armata, e speculare al bellissimo L’Eau Froide (1994), da cui riprende i nomi dei protagonisti Gilles e Christine nonché la lunga sequenza della festa notturna, quest’ultimo film di Olivier Assayas è impeccabile per limpidezza di sguardo, addirittura cristallino nel restituire il clima e lo spirito di un tempo infinitamente più vivace dell’attuale. Il regista segue Gilles, il suo Antoine Doinel, con tutta l’obiettività data dalla maturità e dal distacco temporale, senza mai cedere a facili tentazioni nostalgiche o precipitare nel memorialismo retorico. Gli adolescenti di Assayas, meno impastati di estetismo e cinefilia da Cinémathèque dei “Dreamers” bertolucciani, meno solipsistici degli “Amants Règuliers” di Philippe Garrel, si dividono tra innamoramenti, interessi artistici e attivismo politico. Gilles, come si è detto alter ego del regista, è un artista la cui principale aspirazione è quella di dedicarsi al disegno e alla pittura. Pur essendo contagiato dal clima di radicalismo politico di quegli anni, lo vive più che altro da testimone, sia pure assai partecipe. Abbandonato dalla sua ragazza Laure, la quale si trasferisce a Londra, Gilles intreccia una relazione con la più solida Christine, che segue durante il viaggio in Italia, ma in seguito la lascia per dedicarsi ai suoi studi. Lo status dell’artista lo relega nel ruolo dell’osservatore, non solo nei confronti dell’impegno politico ma anche in relazione alle due donne della sua vita, che lo eludono costantemente. Come dichiara efficacemente Gilles: “Vivo nella mia immaginazione. Se la realtà bussa alla porta, io non apro”. L’arte, ci dice Assayas, è (come la morte) un affare solitario, e l’individualismo dell’artista lo pone in conflitto forzato con qualsiasi esigenza collettivistica. L’arte, soprattutto, non è mai dogmatica, e se c’è una cosa da rimproverare ai movimenti dell’ultrasinistra degli anni ‘70, maoisti, leninisti o trotzkisti che fossero, è proprio un eccesso di dogmatismo. E allora ecco Gilles leggere il libro di Simon Leys che per primo denunciò in occidente gli eccessi della Rivoluzione Culturale, all’epoca quasi un peccato mortale, per poi farsi tacciare dai compagni di ingenuità, o sollevare quesiti inopportuni durante la proiezione fiorentina di un film che documenta le lotte contadine nel Laos. Un cinema che si voglia rivoluzionario, non dovrà adottare una sintassi rivoluzionaria? La risposta non potrà che essere negativa, perché il cinema militante deve utilizzare un linguaggio comprensibile agli operai, e non certo perdersi in considerazioni di natura estetica, chiaro sintomo di individualismo (borghese). Qui Assayas ci strizza l’occhio, eppure l’ironia non è mai distruttiva o demistificante. Nel frattempo Alain e la sua ragazza Leslie partono per il Nepal, il Tibet e l’Afghanistan, seguendo la grande attrazione per la spiritualità orientale che coinvolse migliaia di giovani. E proprio il restituire sullo schermo l’idealismo, il fervore, l’energia di ragazzi destinati a bruciare in una vampata che scosse il mondo, prima di spegnersi nell’eroina o nella lotta armata, ci fa misurare la diversità con quelli attuali, che al massimo farebbero la rivoluzione per assicurarsi l’ultimo modello di iPhone. La sequenza ipnagogica della festa in cui Gilles reincontra Laure, mentre i falò ardono nell’oscurità e il blues sghembo di Captain Beefheart strazia il cuore, è insieme l’apoteosi di tutta una generazione e il suo lamento funebre. Poi resta ancora spazio per il disincanto, per il viaggio a Londra durante il quale Gilles persegue la sua decisione di diventare un regista, per l’esilarante sequenza ai Pinewood Studios che coinvolge nazisti e dinosauri. Ma la fiamma si è consumata e a Gilles non resta che sprofondare in una sala cinematografica, l’unico luogo in cui l’immaginazione può davvero andare al potere. Perché, per dirla con le parole del regista, lo schermo è “l’unico luogo dove il ricordo può rivivere, dove ciò che è perso può essere ritrovato, dove il mondo può essere salvato”.
Gli attori, impressionanti per mimetismo e aderenza, sono tutti esordienti tranne Lola Crèton (Christine), già vista in Un amore di gioventù di Mia Hansen-Løve, ed altrettanto impressionante è il certosino lavoro di ricostruzione svolto dallo scenografo François Renaud Labarthe e dal costumista Jurgen Doering. Molto curati sono i riferimenti iconografici, dai nerissimi disegni al tratto di Edward Gorey ai fumetti di Robert Crumb, all’epoca icone della controcultura, fino alle opere di Alighiero Boetti o al Joe Hill di Widerberg, le cui immagini si intravedono fugacemente. In Qualcosa nell’aria è impossibile rintracciare una singola nota dissonante, se non quelle, dolcissime, di una delle più belle colonne sonore degli ultimi anni, che mescola Soft Machine e Syd Barrett, l’ultimo dandy Kevin Ayers e i Tangerine Dream. Si consiglia di attenersi strettamente alla versione originale, sempre distribuita dalle Officine Ubu, perché vedere Qualcosa nell’aria nella versione doppiata sarebbe, per restare in tema, come sparargli un lacrimogeno in piena faccia.

Voto: * * *¾

Nicola Picchi