Scheda film
Regia, Soggetto e Sceneggiatura: Rian Johnson
Fotografia: Steve Yedlin
Montaggio: Bob Ducsay
Scenografie: Ed Verreaux
Costumi: Sharen Davis
Musiche: Nathan Johnson
USA/Cina, 2012 – Fantascienza – Durata: 119‘
Cast: Joseph Gordon-Levitt, Bruce Willis, Emily Blunt, Paul Dano, Noah Segan, Piper Perabo, Jeff Daniels
Uscita: 31 gennaio 2013
Distribuzione: Buena Vista International
L’ora giusta per morire
Tempo, spazio e fantascienza sono da sempre legati da un vincolo indissolubile che se spezzato può seriamente mettere a rischio l’esistenza di qualsiasi racconto appartenente al filone Sci-Fi di vecchia o nuova concezione, al di là del mezzo di fruizione in cui questo si va riversando. Di conseguenza, la Letteratura prima e la Settima Arte poi lo hanno capito piuttosto velocemente e solo di rado hanno provato a separare ciò che, per forza di cose, non può e non deve essere separato. Privare la propria opera di uno dei suddetti elementi significa di fatto esporla a rischi altissimi, con gravi ripercussioni. C’è da dire anche che interrompere un simile legame non è poi così semplice, al contrario è piuttosto arduo, dato che la fantascienza nella sua natura primigenia ha tra le sue colonne portanti tanto il tempo quanto lo spazio, abbatterne una o entrambe equivale a farsi un clamoroso autogol.
Al cinema, il genere fantascientifico ha partorito pietre miliari che non si contano sulle dita delle mani, per cui non stiamo qui a elencare questo o quell’altro titolo, ma anche un numero sterminato di abominevoli creature di celluloide cadute ben presto nel dimenticatoio. In entrambi i casi, però, il legame di cui abbiamo precedentemente parlato è solo di rado venuto meno. Per cui, nel bene o nel male, quasi tutto ciò che oggi come ieri è stato iscritto nel filone ha avuto un solo minimo comune denominatore. Detto ciò, a mutare con il passare dei decenni, nonostante la persistenza di una serie di altri elementi stereotipati, sono state la messa in scena, l’approccio alla materia narrativa, le storie e i personaggi ovviamente; cambiamenti, questi, dovuti alla visione degli autori che di volta in volta si sono confrontati con il genere in questione e soprattutto l’evoluzione tecnologica degli hardware e dei software, che hanno permesso agli autori stessi di trasferire sul grande schermo visioni e mondi sempre più elaborati e strutturalmente complessi.
Ma una delle modifiche più sostanziali alla fantascienza cosiddetta classica, ossia legata a quei quattro o cinque ingredienti base, è la cosiddetta ibridazione, che coinvolge soprattutto l’architettura narrativa e drammaturgica del film, innestando in essa i geni di altri generi fino a contaminarlo in maniera piuttosto evidente. In particolare, l’horror, così come il thriller e persino il noir, si sono fatti via via strada nel dna Sci-Fi, tanto da rendere difficoltosa persino l’identificazione, la classificazione e la catalogazione di un dato film, mettendo in più di un’occasione in crisi l’Industria e la distribuzione sulla maniera più idonea e corretta di commercializzarlo. A tal proposito, Looper di Rian Johnson è uno degli ultimi esempi riusciti ad approdare nelle sale capace di dimostrare quanto tale processo possa essere in grado di generare una valida e non “dissacrante” (agli occhi dei puristi e conservatori) alternativa. La terza prova dietro la macchina da presa del talentuoso cineasta americano, autore del cult Brick e dell’interessante The Brothers Bloom, mescola in maniera efficace la fantascienza con il noir, l’action e il thriller, confermando la sua abilità nel raccontare storie uniche che fondono il pulp con tematiche più alte che scavano nel dramma esistenziale e sociale.
Johnson si affida al viaggio nel tempo e alle suggestioni letterarie di Dick per portare sullo schermo un retro Sci-Fi di ottima fattura, che consegna alla platea uno scenario solo in parte futuribile, così plausibile e familiare rispetto a ciò che viviamo nella realtà di tutti i giorni da risultare tremendamente inquietante. Looper ci proietta nel 2042 al seguito di un killer di professione chiamato Joe. Questo fa parte di un’organizzazione che ordina ai propri affiliati di uccidere persone mandate indietro nel tempo dal 2072 perché colpevoli di reati (la possiamo leggere anche come una variante dell’intervento pre-crimine, per scongiurare ogni atto delittuoso prima che sia commesso, sul quale si regge Minority Report). Ma come accade di solito il sistema va in tilt e l’imprevisto o l’imponderabile non tarda a manifestarsi, tanto che un giorno il protagonista riconosce il “se stesso” invecchiato come prossimo bersaglio. Il tutto si consuma in una dimensione che più attuale di così si muore, con un’esistenza umana completamente allo sbando, vittima della crisi economica, della decadenza sociale e della criminalità organizzata che gestisce le forze dell’ordine. Passato, presente e futuro si incrociano fino a disperdere i propri caratteri l’uno dentro l’altro, in modo che accessori hi tech, telecinesi, moto volanti e teletrasporto, possano andare a braccetto con desolati paesaggi metropolitani, fattorie, revolver e arredi vintage. Non a caso, il modello di riferimento non può non essere quel capolavoro che risponde al titolo di Blade Runner, anche se non vanno escluse le piste che portano il cinefilo di turno a proiettare la propria mente a L’esercito delle dodici scimmie, Terminator, Atto di forza e più in là a La decima vittima.
Anche qui si gioca con le epoche in un rimbalzo spazio-temporale, ma che fortunatamente non fa danni come in Cloud Atlas. Lo script incasella in maniera coerente e precisa i tasselli drammaturgici all’interno del “puzzle” narrativo, senza che questo meccanismo a scatole cinesi mandi in crush la fruibilità del racconto. Piuttosto si assiste a un susseguirsi di dejà vu che per certi versi richiama il riuscito Source Code di Duncan Jones. Unico possibile elemento di disturbo, la caterva di vocaboli specifici che fanno parte del mondo che ha creato e messo in scena lo stesso Johnson sin dalla fase di scrittura, che necessita di un vero e proprio glossario da mettere velocemente a memoria. Ma è uno sforzo che si può pure fare per un film che rispetta le attese, soddisfa i gusti più disparati e si concede anche ai palati più esigenti. Un film che vale senza alcun dubbio anche sul piano figurativo, per certe fulminee invenzioni registiche che regalano allo spettatore scene dal forte impatto visivo (la fuga dall’appartamento di Joe o il primo manifestarsi della telecinesi nella fattoria) e una mezza dozzina di duetti tra Willis e Gordon-Lewitt degni di nota (la scena della tavola calda con successiva sparatoria e fuga).
Voto: * * *½
Francesco Del Grosso
Alcuni materiali del film:
Clip – Ti ho messo un’arma tra le mani