Scheda film
Titolo originale: The Hobbit: The Battle of the Five Armies
Regia: Peter Jackson
Soggetto: dal romanzo omonimo di J.R.R. Tolkien
Sceneggiatura: Peter Jackson, Fran Walsh, Philippa Boyens, Guillermo Del Toro
Fotografia: Andrew Lesnie
Montaggio: Jabez Ollsen
Scenografie: Dan Hennah
Costumi: Bob Buck, Lesley Burkes-Harding e Ann Maskrey
Musiche: Howard Shore
Suono: Toby Lloyd
Nuova Zelanda/USA, 2014 – Fantasy – Durata: 144′
Cast: Ian McKellen, Martin Freeman, Richard Armitage, Adam Brown, Orlando Bloom, Evangeline Lilly, Lee Pace, Cate Blanchett, Hugo Weaving, Christopher Lee, Ian Holm, Benedict Cumberbatch, Mikael Persbrandt, Sylvester McCoy, Luke Evans, Stephen Fry
Uscita: 17 dicembre 2014
Distribuzione: Warner Bros
Spremendo succosa polpa fantasy da un frutto ipertrofico, ovvero dalle ponderose appendici all'”opus magnum” di Tolkien, Peter Jackson conclude degnamente la sua seconda trilogia e il suo (e nostro) viaggio nella Terra di Mezzo. Un viaggio non esente da polemiche, sia per le numerose libertà che Jackson (insieme a Fran Walsh, Philippa Boyens e Del Toro) si è preso rispetto al testo originale, che per il contestato utilizzo del vituperato 3D High Frame Rate a 48 fotogrammi al secondo. Eppure l’aver trasformato quella che era essenzialmente una fiaba per bambini in un “prequel” de Il Signore degli Anelli, non è stato soltanto un astuto escamotage per poi passare all’incasso, bensì l’unico modo per assicurare organicità e coerenza alla visione complessiva del regista, portata finalmente a compimento 13 anni dopo La Compagnia dell’Anello (2001).
Se “La desolazione di Smaug” si chiudeva su un ben congegnato cliffhanger, il primo piano di Martin Freeman/Bilbo Baggins, affranto per aver scatenato l’ira di Smaug sugli abitanti di Pontelagolungo, La battaglia delle cinque armate si apre “in medias res”, con l’attacco del drago alla cittadina. E qui Peter Jackson firma forse le sequenze migliori dell’intero film, mentre la macchina da presa plana assieme a Smaug sulle teste degli sventurati abitanti, e l’alito incendiario del drago riduce in cenere torri e abitazioni. Terminato lo sfolgorante pandemonio iniziale, Thorin Scudodiquercia rivendica il trono di Erebor ma cade vittima della “malattia del drago”, affezione tutta tolkieniana che ha a che fare con l’oro e la sua natura corruttrice. Ma le ricchezze di Thorin fanno gola anche ai superstiti di Pontelagolungo, agli Elfi Silvani di Thranduil, ai nani dei Colli Ferrosi di Dàin Piediferro e agli orchi di Sauron, interessato alla posizione strategica del Monte Erebor.
A Bilbo Baggins tocca un ruolo marginale ma essenziale, quello del testimone, di colui che assiste agli avvenimenti, li storicizza investendoli di senso e li fa diventare materia di epica. Il vero protagonista, in effetti, è Thorin Scudodiquercia, paranoico monarca shakespeariano, accecato dall’avidità, che si riscatta gettandosi nella battaglia e affrontando la sua nemesi, Azog il Profanatore.
L’esplorazione della geografia immaginaria della Terra di Mezzo s’arresta dinanzi alle porte di Erebor, e gran parte del film si svolge nella pianura tra la Montagna Solitaria e le rovine di Dale. Il mondo di Arda si contrae e il luogo, teatro della battaglia, diventa il fulcro attorno a cui tutto ruota. I 48 fotogrammi al secondo e gli eccellenti effetti CGI della Weta Digital conferiscono alle sequenze di combattimento una nitidezza allucinatoria, una sorta di nitore fiammingo che estenua la vista e sovraccarica lo sguardo, accecato dal sanguigno lucore di armi e armature. Malgrado qualche sequenza strepitosa, come il balzo in avanti delle armate elfiche celate dietro agli scudi dei nani, Peter Jackson scarta però il tragico a favore del ludico. Il regista, dopotutto, non dimentica Bad Taste o Brain Dead, e allestisce saporite digressioni, come i Troll che sfondano le mura di Dale crollando esanimi al suolo, o le acrobazie di Legolas, che ne manovra uno per far crollare una torre prima di misurarsi con l’orco Bolg. Si ripresentano puntualmente anche i suoi punti deboli, i momenti di sentimentalismo caricati fino al grottesco, o il ricordo al kitsch più sfacciato, ma quello che importa davvero è che tutti i semi piantati nei film precedenti giungano a piena fioritura. Trova una conclusione l’amore, osteggiato dai puristi, tra l’elfa Tauriel e il nano Kili, mentre Elrond, Galadriel e Saruman accorrono in soccorso di Gandalf, affrontando Sauron, celato dietro le vesti del Negromante di Dol-Guldur. Ma ogni odissea presuppone un ritorno, e quello di Bilbo Baggins alla Contea è particolarmente malinconico. Trovare la propria casa spogliata di ogni cosa è solo un simbolo dell’addio di Peter Jackson alla Terra di Mezzo, universo che sembrava impossibile ricreare su uno schermo cinematografico.
Lasciandosi alle spalle le prolissità dei due film precedenti a fronte di un succinto minutaggio (solo 144 minuti), La battaglia delle cinque armate abbandona i toni bamboleggianti del primo film e la cupezza del secondo, lasciando trasparire, fra il clangore delle armi e il furore della battaglia, tutta l’amarezza di un congedo definitivo. Da segnalare la sontuosa fotografia di Andrew Lesnie, che si nutre dei toni caldi e ambrati di Erebor per poi raggelarli nel plumbeo biancore del mondo esterno, i venerabili vegliardi Ian McKellen e Christopher Lee, l’ottimo Martin Freeman e Richard Armitage, che attraversa indenne dialoghi non sempre all’altezza della situazione.
Voto: 6 e ½
Nicola Picchi