GIURIA
Michael Mann – PRESIDENTE
Marina Abramovic
Laetitia Casta
Peter Ho-Sun Chan
Ari Folman
Matteo Garrone
Ursula Meier
Samantha Morton
Pablo Trapero
IN CONCORSO
THE MASTER……….10
AT ANY PRICE……….8
APRÈS MAI (SOMETHING IN THE AIR)……….7,5
PASSION……….7
BELLA ADDORMENTATA……….6,5
TO THE WONDER……….6,5
IZMENA (BETRAYAL)……….6
FUORI CONCORSO
BAD 25……….7
CHERCHEZ HORTENSE……….7
DISCONNECT……….7
SHOKUZAI……….6,5
THE COMPANY YOU KEEP……….6,5
THE ICEMAN……….6
MEDICI CON L’AFRICA……….4
ORIZZONTI
LOW TIDE………………………………………..4,5
MENATEK HA-MAIM (THE CUTOFF MAN)……4,5
GIORNATE DEGLI AUTORI
STORIES WE TELL……9,5
SETTIMANA DELLA CRITICA
LA CITTÀ IDEALE………..6,5
WELCOME HOME………..5,5
Eva Barros Campelli
31 agosto 2012 (venerdì)
Ciao a tutti! I primi giorni di festival sono tra i più ricchi di eventi. Bisogna attirare la curiosità intorno all’enorme macchina festivaliera, soprattutto in questa edizione che sconta un repentino cambio al vertice con il ritorno di Alberto Barbera al posto di Marco Müller, pare destinato a dirigere il concorrente festival di Roma. E in questo ultimo venerdì di agosto ce n’è davvero per tutti i gusti. Il programma prevede la cerimonia di premiazione con il Leone d’Oro alla Carriera a Francesco Rosi, che sarà anticipata dalla proiezione del suo capolavoro Il caso Mattei. Il concorso schiera due film che più antitetici non si potrebbe: da una parte l’austriaco Ulrich Seidl con la seconda parte della sua trilogia dedicata alle diverse forme dell’amore, dall’altra l’indipendente americano At Any Price. Partiamo dal primo. Dopo Paradise: Love, in concorso a Cannes, è ora la volta di Paradise: Faith, in cui il regista si domanda cosa significhi portare la croce attraverso la via crucis di Annamaria, tecnico radiologo che dedica il tempo libero a opere missionarie per redimere il suo paese. Lo scandalo, data l’aura trasgressiva che circonda ogni opera del regista, è ovviamente dietro l’angolo. Non riuscirò a vedere il film ma cercherò di raccogliere commenti in merito.
#IMG#La stampa ha invece già visto l’altro film in Concorso di oggi, l’opera di Ramin Bahrani, eterna promessa del cinema americano che nel 2009 è stato definito da Roger Ebert, celebre critico cinematografico del Chicago Sun-Times, come “il regista americano del futuro”. Troppa grazia viene da dire, anche se At Any Price, pur non raccontando nulla di nuovo, funziona. È una di quelle opere che potrebbero essere subissate di Oscar o passare nell’indifferenza. Dando a Cesare quel che è di Cesare, bisogna riconoscere a Bahrani la capacità di descrivere in modo chiaro la rivalità tra agricoltori di mais nel Midwest americano unendo il tessuto economico con un melodramma, un po’ forzatamente raggelato, incentrato sul rapporto padre / figlio. Nulla di nuovo, perché che la provincia americana trasudasse malessere lo sapevamo già, così come il fatto che la famiglia avesse più ombre che luci. Ottima la direzione del cast, soprattutto il redivivo Dennis Quaid, determinante nel rendere un personaggio odioso e senza scupoli; più bamboleggiante il divo emergente Zac Efron, vittima dell’icona di idolo delle teenager che pesa come un macigno sulla sua espressività. Difficile che il film lasci un segno nella giuria, ma a Venezia, come nella vita, tutto può succedere.
Ottima chiusura di giornata con l’interessante Bad 25, tributo di Spike Lee a Michael Jackson, a 25 anni dall’uscita dell’album ”Bad”, che consacrò il talento e la genialità dell’artista recentemente, e troppo precocemente, scomparso. Per fortuna pochi gossip sulla morte di Jackson, ma un dettagliato dietro le quinte delle musiche e dei video tratti dall’album, quindi musica, musica, musica. Da non perdere per gli appassionati del genere, ma un buon tonico anche per gli altri.
Come promesso ho raccolto giudizi sul film di Ulrich Seidl, Paradise: Faith, e, come previsto, sono contrastanti. Un’unica certezza, però, la protagonista è molto brava e si candida già alla Coppa Volpi come Migliore Attrice.
1 SETTEMBRE 2012 (sabato)
Primo film italiano in Concorso: È stato il figlio di Daniele Ciprì che ha ricevuto molti applausi, forse troppi. Non che sia un brutto film, forse, però, non lascia il segno. Ma procediamo per gradi e partiamo dalla trama, come da catalogo e press-book:
La famiglia Ciraulo abita nella periferia di Palermo. Nicola, il padre, si arrabatta per mantenere tutti rivendendo il ferro delle navi in disarmo. La loro vita anche in questa realtà molto dura, è serena. Un giorno un proiettile vagante, destinato a un regolamento di conti, colpisce a morte la figlia più piccola. La disperazione è incommensurabile. Si apre uno spiraglio di speranza almeno per un cambiamento economico quando Giacalone, il vicino di casa, suggerisce a Nicola di chiedere un risarcimento per le vittime di mafia allo Stato. Dopo varie peripezie tragicomiche viene concordata la somma. Sperando di ottenere a breve il denaro, la famiglia comincia a spendere prima di incassare, indebitandosi con tutti. Nicola cade nelle mani di un usuraio, amico di Giacalone. Quando finalmente la somma arriva, una volta pagati i debiti, l’importo iniziale si è ridotto. I Ciraulo non hanno un conto in banca. I soldi giacciono sul tavolo con intorno tutta la famiglia che deve decidere come investirli. Ogni proposta viene puntualmente smontata da Nicola che solo alla fine palesa la sua idea: comperare una Mercedes. Quella macchina è simbolo di ricchezza, unico vero riscatto dalla miseria agli occhi della gente. Ma la Mercedes diventerà per i Ciraulo il simbolo della Miseria della Ricchezza, strumento di sconfitta e di rovina.
Perché non lascia il segno? Perché sul taglio tragicomico prevale la macchietta, l’urlo continuo. Toni Servillo, splendido interprete, finisce per cadere vittima del personaggio e la sua diventa una caricatura. Così come sulla tragedia familiare domina il grottesco. Probabilmente di stile si tratta, quindi occorre prendere o lasciare, ma pur apprezzando il cinismo di fondo, sembra tutto un po’ già visto e si finisce per essere più frastornati che convinti.
#IMG#Strana scelta quella di accoppiare il film di Daniele Ciprì con quello che si candida subito come uno dei favoriti al Leone d’Oro: The Master di Paul Thomas Anderson. Il marketing ha puntato molto su Scientology per attirare i riflettori sul film, rischiando però di depistare. Il film, infatti, è prima di tutto una storia d’amore tra due personalità disturbate che si riconoscono nelle stesse cicatrici emotive. Da una parte Freddie Quell, giovane disadattato che la guerra ha definitivamente incattivito e scollato dal mondo. Dall’altra Lancaster Dodd, personalità dal forte carisma che sta cercando di fondare un gruppo di guarigione terapeutica, una specie di setta basata più sulla sperimentazione che sulla scienza. L’attrazione tra i due è inevitabile. Lancaster diventa così il mentore di Freddie, anche perché è l’unica persona che lo accoglie con un sorriso, lo ascolta invece di allontanarlo, lo fa sentire parte di una famiglia che probabilmente non ha mai avuto. Tra i due si stabilisce quindi una sorta di identificazione reciproca che, pur nell’assenza di carnalità, diventa un’interdipendenza a stretto confine con l’amore. I confronti tra Freddie e Lancaster, valorizzati da una pellicola in formato 70 mm che definisce alla perfezione ogni singolo poro della pelle che occupa lo schermo, godono della trasfigurazione di due attori eccellenti, Philip Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix. Soprattutto Phoenix più che interpretare un personaggio lo vive in prima persona, immedesimandosi totalmente in lui. Al riguardo, un’esperienza pseudo delirante la conferenza stampa di presentazione del film, in cui la domanda che ci si pone è:_ “Ma Joaquin Phoenix ci è o ci fa?” Fuma di nascosto, si assenta, appare distratto e svogliato. Io sono qui! diceva il falso documentario di cui era protagonista. Allora fatti sentire Joaquin, o al limite lascia parlare i tuoi personaggi per te. Digressioni divistiche a parte, tornando al film, l’incipit è cinema allo stato puro, non puoi fare altro che lasciarti trascinare dalla potenza delle immagini. Così come tutta la prima parte. Verso la fine forse, quando il rapporto tra i due protagonisti evolve in incomprensioni, fughe e ritorni, qualcosa si inceppa. Gli attori finiscono per prevalere sui personaggi, caricandoli in eccesso, e anche la sceneggiatura sembra dilungarsi e disperdere quell’intensità che la regia aveva magicamente catturato nelle premesse. Ma resta un film che riconcilia con il sense of wonder del cinema. Non passerà inosservato.
2 settembre 2012 (domenica)
Come spesso accade nei festival più blasonati il primo week-end è un concentrato di tutto: star, film, ospiti in vetrina, anche insopportabili presenzialisti dell’ultima ora. Sono i giorni in cui si testa il polso della manifestazione. Se ottieni titoli sui giornali all’inizio, il resto è tutto in discesa, non devi conquistare spazi perché sono già tuoi. La domenica, poi, si arricchisce anche di turisti, curiosi e veneziani, in passeggiata o in fuga dalla regata storica che congestiona il traffico in laguna. Il Concorso offre una competizione tra due film diversissimi (quello dei contrasti sembra essere un leitmotiv di Barbera). Da una parte Fill the Void, già acquistato dalla Lucky Red (quindi in odore di premio) e dall’altra To the Wonder, di un sempre più prolifico Terrence Malick. A sdrammatizzare le tinte ci pensa la di solito grevissima Susanne Bier, quest’anno fuori concorso con una commedia. Insomma, si preannuncia una domenica interessante!
Ecco com’è andata: una grandissima delusione, un’inaspettata ventata d’aria fresca e un senza infamia e senza lode. Cominciamo da quest’ultimo. C’era grande attesa per l’incursione nel Concorso di un’opera prima. Rama Bursthein è nata a New York, si è laureata alla Sam Spiegel Film and Television School di Gerusalemme, e si è dedicata alla promozione del cinema come strumento di auto espressione nella comunità ortodossa per cui ha scritto, diretto e prodotto diversi film, alcuni dei quali solo per donne. Fill the Void ha un forte valore antropologico perché introduce lo spettatore nella quotidianità di una famiglia cassidica ortodossa, con tutti i riti religiosi a cui la famiglia partecipa con entusiasmo. Il soggetto verte sul possibile matrimonio della giovane figlia diciottenne con un coetaneo, ma la morte per parto della sorella maggiore complica la situazione. L’originalità è nello sguardo della regista, che non mette in discussione quello che mostra, ma se ne fa tramite non giudicante. Al di là di un interesse per usi e costumi che sembrano lontani anni luce dalla contemporaneità, però, il film è piuttosto ordinario, penalizzato da una fotografia laccata che riduce un po’ l’empatia con il profilmico. Al Lido, comunque, impazza già la colonna sonora, con canti della tradizione cassidica ortodossa molto suggestivi.
#IMG#La ventata d’aria fresca inaspettata è stata la commedia di Susanne Bier Love is All You Need che contiene tutti i luoghi comuni possibili e immaginari: una Sorrento da cartolina, italiani caciaroni, l’amante bella ma oca, la nuora antipatica con simpatia, il matrimonio come dimensione in grado di creare conflitti piuttosto che sedarli. Il bello, però, è che tutti i luoghi comuni vengono cavalcati con indubbia professionalità. Il risultato è una commedia che parla di sentimenti dalle premesse piuttosto grevi (la protagonista è reduce da una chemioterapia), invece molto piacevole e defatigante. Un inno al buonumore e alla capacità di voltare pagina che ricorda vagamente (sarà l’ambientazione solare, o anche la presenza di Pierce Brosnan) Mamma Mia!, il musical di Phyllida Lloyd.
Ma veniamo alla profonda delusione. Dopo il discusso, e in parte anche discutibile The Tree of Life, che ha incantato il festival di Cannes (e a Bologna è stato proiettato a bobine invertite senza che nessuno se ne accorgesse) raccontando, almeno provandoci, il mistero dell’esistenza, Malick, con To the Wonder, ambisce a penetrare il mistero dell’amore. Il problema è che riduce l’incomunicabilità di coppia a un lui imbronciato e bambolone e a una lei che salta come un grillo per tutto il film. Non aiuta il fatto che lui sia Ben Affleck, di suo non un mostro di espressività, mentre la lei interpretata da Olga Kurylenko si dà con partecipazione, fin troppa vien da dire visto il tenore del risultato. Ma le bellissime immagini che attraversano la proiezione raccontata da una voce narrante onnipresente non aiutano a penetrare alcun mistero e, anzi, banalizzano piuttosto che approfondire, lasciando molto perplessi sullo spessore complessivo dell’opera. Anche perché le conclusioni a cui giunge sono davvero di grana grossa: la donna vuole sposarsi, l’uomo fugge e alla fine ci si prende e ci si lascia perché così è l’amore. Esornativa la presenza di un perplesso Javier Bardem e di una altrettanto perplessa Rachel McAdams e decisamente stridente la piccola parte della nostrana Romina Mondello, sulla cui partecipazione a un progetto, sulla carta, così importante si sono sprecati fiumi d’inchiostro. Alla proiezione stampa fischi e applausi equamente divisi.
Ma è già ora di voltare pagina e di tuffarsi in un’altra giornata di cinema.
3 settembre 2012 (lunedì)
È il giorno di Olivier Assayas che domina il concorso con la sua rilettura in chiave personale degli anni del post ’68 in Apres Mai. Diciamolo, dopo The Dreamers di Bernardo Bertolucci, Les Amants Réguliers di Philippe Garrel e Il grande sogno di Michele Placido, ci si avvicina con un certo scetticismo alla visione domandandosi se effettivamente c’era bisogno di un altro film sul ’68. In realtà il film non porta avanti alcuna tesi, non vuole dimostrare alcuna teoria, vuole semplicemente sviscerare la complessità di un periodo infarcito di luoghi comuni e ideologie, per fortuna assenti nella rielaborazione di Olivier Assayas. Si ha così l’opportunità di entrare in contatto con una coralità mai didascalica, dove i tanti personaggi diventano non strumenti per veicolare un messaggio, ma colori di un quadro dalle tante sfumature. Ottimo il cast, che affianca giovani promesse del cinema francese (la luminosa Lola Créton) a debuttanti scelti per strada o attraverso il web. Un altro film che si candida a un premio importante. Per il resto giornata un po’ fiacca a livello di Concorso. Il nuovo Takeshi Kitano con Outrage Beyond, infatti, non infiamma. Un po’ perché è il seguito di Outrage e se uno non ha visto il primo film rischia di perdersi, un po’ perché basta leggere la sinossi per perdersi definitivamente:
#IMG#“I Sanno sono diventati un’enorme organizzazione criminale espandendo la propria sfera di potere anche sulla politica e sul mondo legale degli affari. I livelli superiori della famiglia sono ora dominati da giovani capi, mentre i membri della vecchia guardia covano rancore per essere stati messi da parte. Questo tallone d’Achille nella gerarchia dei Sanno è proprio ciò che Kataoka, detective anti-gang, stava cercando, ora che la polizia si prepara a un giro di vite su larga scala. Con sporchi trucchi e intrighi segreti l’ambizioso Kataoka fomenta il conflitto tra i Sanno e gli Hanabishi, loro alleati di lunga data, nella speranza che finiscano con il distruggersi a vicenda. Ma la carta vincente di Kataoka è la concordata scarcerazione di Otomo, il boss di una famiglia fatta fuori dai Sanno e ritenuto morto. Il suo ritorno a sorpresa contribuisce a incrementare l’inganno e il tradimento fra i due clan, mentre ognuno è concentrato a spiare la prossima mossa degli altri. Impossibile indovinare chi uscirà vincitore da questo spietato gioco di potere. Non è finita fino alla fine”.
Non male Fuori Concorso Disconnect di Henry Alex Rubin, affermato regista americano di pubblicità e documentari al suo debutto nel lungometraggio. Il film cerca di mostrare l’incomunicabilità contemporanea accentuata dai mezzi di comunicazione che, paradossalmente, facilitano qualsiasi tipo di contatto. Il racconto, sulla falsariga di Crash – Contatto fisico di Paul Haggis, è corale e si sofferma su alcuni personaggi scelti a emblema della complessità: c’è la coppia che ha perso il figlio e che non parla più trovando consolazione in un gruppo di supporto e nel video-poker; c’è la famiglia disfunzionale in cui l’adolescenza prende la strada del mutismo, della ribellione e della profonda solitudine e c’è la reporter che cerca lo scoop, ma anche un po’ di calore, nel giovanissimo che si esibisce on-line per chi è disposto a pagare. Lo sguardo è problematico, evita il greve come esacerbazione di un punto di vista pessimistico e induce alla riflessione. Nulla di nuovo o rivoluzionario ma un prodotto professionale a un passo dall’autorialità. Complice il cast di volti noti ma lontano dai red carpet.
Si sta intanto sempre più confermando fucina di talenti la sezione Giornata degli Autori che oggi ha visto sfilare Michele Riondino e Vittoria Puccini per Acciaio di Stefano Mordini. È la trasposizione dell’omonimo romanzo di Silvia Avallone, vincitore del Premio Campiello 2010 e secondo classificato al Premio Strega 2010. Protagoniste sono due ragazze antitetiche, Anna e Francesca, inizialmente complici poi separate dalla vita e da caratteri differenti. L’ambientazione, evocata dal titolo, è quella della Toscana meno glamour. Siamo infatti a Piombino, nelle acciaierie, dove a due passi dal mare cristallino si consumano esistenze nelle fabbriche, nei turni massacranti, nei soldi che non bastano, nelle insoddisfazioni. Mordini punta tutto sui corpi delle due protagoniste, colte nel loro fervore giovanile, sulle geometrie dei luoghi, sulle atmosfere, solleticate anche dalle note rock della colonna sonora. Il risultato si lascia apprezzare proprio per la sua ruvidità e per la capacità di fotografare un disagio con sincerità. Peccato per il finale, che arriva un po’ sbrigativo e didascalico. Non male, comunque.
Da segnalare, nella sezione Orizzonti, anche Kapringen (A Hijacking) del danese Tobias Lindholm, una sorta di thriller da camera sul rapimento di una nave danese da parte di pirati somali nell’Oceano Indiano. Un film che nelle mani di una major americana sarebbe diventato un action con Bruce Willis e che Lindholm trasforma invece in un dramma teso e antispettacolare girato quasi tutto in interni.
Mentre la notte avvolge il Lido in un’atmosfera d’altri tempi all’insegna della decadenza e la malinconia si insinua sottovento, è il momento di riposare le stanche membra per prepararsi al giorno che verrà.
4 settembre 2012 (martedì)
In ogni festival che si rispetti bisogna vivere almeno una giornata, anche due a volte, lontano dai percorsi ufficiali, quindi scegliendo i titoli meno scintillanti, addentrandosi nelle cinematografie più inconsuete. Martedì si profila come la giornata adatta.
Si comincia in sala Volpi con Blondie, commedia svedese di Jesper Ganslandt, occasione mancata per trasformare una riunione di famiglia in un appuntamento cinematografico imperdibile, o comunque degno di nota. La trama vede incrociarsi tre sorelle allo sbando e in crisi che decidono di ritrovarsi per festeggiare il compleanno della madre. Come da copione, rivalità e non detti verranno a galla, ma la sceneggiatura mescola gli elementi, sulla carta pronti a scoppiare con brio (la riunione di famiglia è una delle situazioni più classiche) con molta meno verve di quella necessaria per indurre al sorriso e/o alla riflessione.
Dopo è la volta di un film acclamato da molti, Leones dell’argentino Jazmin Lopez, per cui si sono letti superlativi e colpi di fulmine. La trama è un di più, ma per correttezza nei confronti del lettore la specifichiamo: “Un gruppo di cinque amici si aggira per un bosco come un branco di leoni. Persi nei loro giochi di parole, si seducono a vicenda entrando e uscendo dal territorio adulto, e cercando disperatamente di evitare la loro storia già scritta”. La particolarità del film è che riprende i personaggi sempre di spalle mentre camminano in un bosco senza che molto accada. Ciò che conta è ovviamente l’atmosfera, un senso di disagio che li coglie e ci coglie al sopraggiungere di una circolarità ricca di domande e povera di risposte, ma l’insieme, non privo di fascino, lascia più che altro perplessi. Forse era ciò che voleva il regista: destabilizzare certezze attraverso un linguaggio, che è sempre lo stesso, utilizzato però in modo nuovo, originale, spiazzante. Interessante, ma non così chiarificatore, il commento del regista presente sul catalogo:
“La morte è una vita vissuta. La vita è una morte in arrivo” (Jorge Luís Borges) Una pagina bianca, una forma, forse un punto non ancora definito, mi permette di muovermi eternamente nel tempo. Leones è un saggio sulla morte, che viene vista da un essere mortale come un paesaggio meraviglioso. La giovinezza e le sue ossessioni; la morte, la sua bellezza e mistero. Quanto può essere debole il corpo umano se paragonato a una costruzione intellettuale? I ragazzi del film sono sempre nel “momento”, e i riferimenti al tempo vengono minimizzati, persino negati. Non solo i protagonisti sono nel momento, ma si ritrovano immersi in esso, ansiosi e annoiati, quasi al di là della temporalità. Il loro decadimento e lo sporco dei loro vestiti rimangono impressi nella memoria; la loro presenza estrema è più che eterna. Il tempo finisce nella loro inconsapevolezza del passato.Leones esplora i confini fantastici del film come linguaggio. I ragazzi sono più reali del film stesso. Il loro scopo è l’inseguimento vuoto dell’arrivo – che non li porta da nessuna parte – Animali. Questa sensazione riempie tutto lo spazio, e noi dobbiamo trasportarla all’interno di noi stessi. E soltanto se rimaniamo sensibili nei confronti del mondo, riusciremo ad attraversarlo… Si crea una corrispondenza. Tempi diversi vengono uniti insieme in un finale positivo. In questo modo si crea un circolo perfetto: all’interno c’è un tunnel aperto che ci permette di continuare a sopravvivere emozionalmente in questo mondo.”
#IMG#Per riprendersi dallo stordimento, dopo un pasto frugale, è la volta di un film italiano. La sezione è “Giornate degli Autori”, il regista il connazionale Vincenzo Marra, il titolo Il gemello. Non di film in senso tradizionale si tratta, ma di documentario. Il protagonista è infatti Raffaele, un gemello di due gemelli che vive in carcere a Secondigliano. L’opera di Marra gioca sull’ambiguità perché ritrae la quotidianità di Raffaele, il suo rapporto con gli altri carcerati, il rapporto che ci crea con la guardia Niko, lasciando trasparire chiaramente che i personaggi, veri, recitano la loro quotidianità, non limitandosi a viverla. Marra non si è messo in un angolo a riprendere la realtà, magari interpretandola in sede di montaggio, ma ha trasformato Raffaele in un attore e la sua vita in una sorta di film. Un esperimento interessante, non c’è che dire, anche se il palesare l’artifizio ne riduce l’intensità, dando l’idea di una sorta di edulcorazione o, comunque, di assenza di spontaneità. Interessante, quindi, ma con riserva. Che sia una riflessione anche sul cinema in grado di risultare più reale del vero?
Per il quarto film della giornata restiamo in Italia con L’intervallo di Leonardo Di Costanzo, molto apprezzato sia alla proiezione per la stampa che a quella con il pubblico. In realtà, un tantino sopravvalutato. Interessante la situazione, con un ragazzo e una ragazza in un enorme edificio abbandonato in un quartiere popolare con lui obbligato a sorvegliare lei, delicato e affrontato con sensibilità l’evolversi del rapporto tra i due, da un’iniziale chiusura e rigidità verso una progressiva apertura, abbastanza prevedibili, però, gli sviluppi. Forse, si dirà, non sono gli sviluppi a essere determinanti, ma il tenore di questo legame che cresce superando le barriere imposte dall’esterno, però sa tutto abbastanza di costruito a tavolino per compiacere una platea piuttosto che per raccontare tracce di vita vera. In ogni caso un debutto degno di nota. Esce, in contemporanea con il festival, nelle sale di tutta Italia. L’insuccesso commerciale sembra inevitabile.
La giornata defilata è trascorsa a spasso per il mondo attraverso gli schermi. Proprio ciò che si chiede a un festival.
5 settembre 2012 (mercoledì)
Ormai siamo ben oltre il giro di boa e il festival, dopo essere entrato nel vivo, si avvia verso le battute finali. Oggi due film molto attesi in Concorso che possono essere sintetizzati citando i due autori: Marco Bellocchio e Harmony Korine, cioè Bella addormentata e Spring Breakers. Per Bellocchio innumerevoli le strumentalizzazioni. Chiunque pare sentirsi in dovere di appropriarsi del film per promuovere le sue idee. Assurdo, come se un film non dovesse essere preso per ciò che è ma per ciò che lo spettatore vuole veicolare. Il tema è di quelli forti, e il film è stato boicottato e strumentalizzato prima ancora di essere girato, figuriamoci adesso. Si parla del caso Englaro, che infiammò l’opinione pubblica pochi anni or sono. Eluana è una donna che in seguito a un incidente stradale ha vissuto in stato vegetativo per diciassette anni fino alla morte naturale sopraggiunta in seguito dell’interruzione della nutrizione artificiale. Marco Bellocchio ha un’idea ben precisa in merito, è contro l’accanimento terapeutico, ha una visione laica, ma la sua capacità è, ed è sempre stata, quella di sviscerare, o perlomeno di provare a farlo, la complessità. Ecco quindi punti di vista contrapposti ma non per forza bilanciati, quindi lontani da facili geometrie, attraverso lo sfiorarsi di alcuni personaggi: il senatore del PD che ha un problema di coscienza nel votare valori in cui non crede, la figlia, invece fortemente contraria all’eutanasia e fervente cattolica, che trova l’amore in un ragazzo sensibile ma problematico, un’attrice all’apice del successo che rinuncia a tutto per stare accanto alla figlia in coma, e una ragazza che cerca nel suicidio la fuga da un presente schiacciante. Bellocchio schiva le facili soluzioni, propone, senza imporle, alcune risposte, ma cerca soprattutto di stimolare il confronto. A tratti cade nel didascalico, ma riesce poi a risollevarsi attraverso dettagli pregni di verità (la croce che la Rohrwacher gira dietro la schiena prima di concedersi al ragazzo appena conosciuto, le scarpe tolte dalla Sansa al medico che ha preso a cuore il suo caso, gli specchi fatti togliere dall’algida e sofferente Huppert). Speriamo che il caos mediatico possa aiutare il cammino commerciale del film, già nelle sale e alla prova del pubblico, quello vero, a partire da domani.
#IMG#Totalmente differente, in linea con il gioco di opposti scelto da Barbera per affiancare i film in Concorso, l’altra opera prevista per oggi. Al centro della visione di Korine, infatti, quattro ragazze scatenate alla ricerca del puro piacere momentaneo nel coloratissimo e poppeggiante Spring Breakers. L’obiettivo del quartetto è godere il più possibile delle vacanze di primavera senza alcuna remora morale. Il film, come al solito nelle opere di Korine, si compiace della trasgressione esibita, ma il vero colpaccio è stato quello di reclutare Selena Gomez e Vanessa Hudgens, due eroine Disney alle prese con un ruolo tutt’altro che edulcorato. Un colpo al cuore del sistema smontandolo dall’interno, attraverso chi quel sistema lo ha portato al successo. Ci si chiede quanto le due cinguettanti eroine dei teen-ager siano coscienti dei valori che veicolano, anzi, massacrano. Divertente, cinico, amorale, girato benissimo, con anche un irresistibile James Franco, finalmente a suo agio e non solo di passaggio, il film mette in scena la dissoluzione contemporanea senza giudicarla ma mostrandone le contraddizioni. Allo spettatore scegliere tra uno sberluccichio effimero e di plastica o la piatta vita di provincia fatta di pochi stimoli, giornate tutte uguali e famiglie disfunzionali. Possibile che non possa esserci una sana via di mezzo?
Fuori Concorso è arrivata anche l’ultima opera dell’ultracentenario Manoel De Oliveira, una vera forza della natura, non presente fisicamente al festival se non attraverso O Gebo e a Sombra. A presentare il film alla stampa una sempre affascinante e disponibile Claudia Cardinale. Critica in visibilio, pubblico sonnecchiante. Nulla di nuovo, insomma.
6 settembre 2010 (giovedì)
Un giovedì intensissimo con prima di tutto l’arrivo al Lido di un pezzo di storia del cinema: Robert Redford, alla sua prima volta a Venezia. Il suo film The Company You Keep, di cui è regista e protagonista, è un thriller ordinario che parla di impegno politico e idealismo, infarcito di nostalgia, con un grande cast di supporto (tra cui Shia LaBeouf che lo accompagna al Lido). A dominare una conferenza stampa stipata di giornalisti curiosi di incontrare il mito, però, con la sua pacatezza, gli occhi piccoli in quel viso lattiginoso e rugoso, è lui, l’intramontabile Bob. Tra le frasi del divo: “Invidio l’Europa perché ha più storia dell’America”, “La necessità di ribellarsi esisteva allora come oggi”, “Le idee erano giuste, ma la violenza, che io rifiuto, è l’ultima possibilità”, “Penso alla Convention dei Repubblicani, tante bugie che interessano solo l’1% della popolazione, e un sacco di soldi spesi mentre il resto del Paese soffre”, “Dovremmo lasciare in eredità ai giovani qualcosa di buono, non solo un mondo che sta marcendo”, “Non credo che i film debbano inviare messaggi nè tantomeno fare propaganda. Amo quelli che si chiudono con un punto interrogativo, lasciando la possibilità di discutere, di farsi un’opinione”. Ed è quello che fa il suo film, nonostante il trionfo un po’ stucchevole di famiglia e buoni sentimenti.
In Concorso l’opera del più famoso regista flippino (forse anche perché senza grandi concorrenti), cioè Brillante Mendoza. Thy Womb mostra con taglio documentaristico l’odissea di una coppia che vive in un villaggio sull’acqua nell’isola di Tawi-Tawi. Questa provincia, situata nella parte più meridionale delle Filippine verso gli arcipelaghi malese e indonesiano, è dedita alla produzione di alghe marine. La donna non può avere figli e fa l’ostetrica, aiutando le ragazze del villaggio durante il parto. L’uomo ha ancora il desiderio di diventare padre e la donna decide di trovargli una nuova moglie in grado di dargli un figlio naturale. Il film segue l’odissea dei due, che girano le case galleggianti dei villaggi vicini, alla ricerca di quella giusta. Quando l’avranno trovata la protagonista dovrà fare i conti con una inaspettata gelosia. Il film è interessante, ma più per fini geografici e antropologici che cinematografici. Alcuni critici hanno inneggiato al capolavoro, ma un documentario del National Geographic è probabilmente più esaustivo e con meno pretese.
#IMG#Una vera sopresa, invece, il belga La Cinquiéme Saison di Peter Brosens e Jessica Woodworth. Si chiedono i due registi: “Che cosa accadrebbe se non giungesse la primavera?” L’ambientazione è in un villaggio nel cuore delle Ardenne dominato da tacite regole arcaiche e scandito dal naturale fluire delle stagioni. In INVERNO Alice, figlia di un contadino, e Thomas, un adolescente solitario, sono innamorati. Durante l’annuale falò che celebra la fine dell’inverno, però, il fuoco non riesce ad accendersi. In PRIMAVERA le api scompaiono, i semi non germogliano, le mucche si rifiutano di produrre latte. E si ha la prima vittima. Con l’ESTATE, un venditore ambulante di fiori porta al suo passaggio una gioia effimera. Ma la privazione genera il panico ed esplode la violenza. Con l’arrivo dell’AUTUNNO ogni cortesia è svanita e gli angeli prendono la fuga. La cosa che più colpisce del film è la luce magnifica che pervade ogni inquadratura. Non si può che restare rapiti dalla bellezza senza scampo delle immagini, in grado di raccontare più di mille parole. Peccato, quindi, proprio per le parole, che inquinano la profondità dell’assunto banalizzando e togliendo invece di aggiungere. Poco male, perché non è una sceneggiatura tutto sommato didascalica a togliere forza alla potenza visiva, ma dialoghi, situazioni e personaggi meno banali avrebbero potuto rafforzare l’impatto del film, invece un po’ lo ridimensionano. In ogni caso due registi da tenere d’occhio.
7 settembre 2012 (venerdì)
Ultimo giorno di festival con l’ultimo film italiano in concorso e lo sbarco in Laguna di Brian De Palma. Ormai sembra non possa mancare concorso veneziano senza una delle sorelle Comencini. Senza nulla togliere alla loro professionalità, il loro cinema non si è sempre dimostrato all’altezza dei contesti in cui è stato presentato. Accade anche con Un giorno speciale che prova a raccontare una giornata nella vita di due giovani qualunque nella Roma contemporanea. La ragazza deve incontrare un parlamentare che potrebbe sostenere il suo debutto nel mondo dello spettacolo. Il ragazzo è al suo primo giorno di lavoro come autista di quello stesso politico. Il film è tutto qui e Francesca Comencini ha la giusta sensibilità per fotografare interrogativi e disagio dei suoi protagonisti. Il problema fondamentale è che non riesce a renderli sufficientemente interessanti. Il cinema ha il potere di amplificare qualsiasi stato d’animo e conflitto rendendoli universale. Ecco, di Gina e Marco e del loro vagare per una Roma fuori dai percorsi turistici finisce invece che non ce ne importa granché. Non aiuta il film lo spessore interpretativo dei giovani interpreti, Filippo Scicchitano e Giulia Valentini, entrambi ancora piuttosto acerbi per reggere il peso del film sulle loro fragili spalle. Tutto molto carino, schematico e banalotto, con uno sguardo che prova a renderli eroi del quotidiano senza però riuscirci.
#IMG#Delusione anche dal maestro Brian De Palma con Passion, una sorta di divertissement nel suo stile, che è magnifico ma non basta a supportare un film che non va la di là del gioco citazionistico e intellettualistico (quando gli ”ismi” sono tanti, butta male). Il soggetto verte sulla lotta di potere tra due donne, una apparentemente fragile, l’altra apparentemente dura. Come sempre più spesso accade, la tecnica che supporta il racconto è migliore del racconto stesso e in questo senso Passion si può considerare un vero e proprio Bignami del De Palma’s touch: split-screen, piani sequenza, panoramiche, rallenties, fermo immagini, soggettive che diventano oggettive, inquadrature roteanti, montaggio serrato. C’è proprio tutto, unito al divertimento di stupire lo spettatore nel continuo gioco di specchi tra le due protagoniste, e se si sta al gioco è anche divertente lasciarsi coinvolgere. Ciò che c’è in abbondanza è un product placament ingombrante, ma chiudendo gli occhi sulla necessità di far quadrare in qualche modo i conti, a non convincere è lo spessore dei personaggi, manichini nelle mani del regista onnisciente che tutto, cinematograficamente parlando, può. Lascia un po’ a desiderare anche l’alchimia tra le due interpreti: Noomi Rapace e Rachel McAdams (quest’ultima anagraficamente fuori parte). Una cosa invece entusiasma: lo score di Pino Donaggio. Finalmente una colonna sonora!!!
Ma non vediamo l’ora di soprire quali saranno i premi attribuiti dalla Giuria, guidata dal regista americano Michael Mann e composta da Marina Abramovic, Laetitia Casta, Peter Ho-Sun Chan, Ari Folman, Matteo Garrone, Ursula Meier, Samantha Morton, Pablo Trapero. Conoscendo un po’ il cinema di Mann viene da pensare che difficilmente The Master andrà a casa a mani vuote. L’Italia sembra avere poche possibilità di entrare nel palmares, anche se Bella Addormentata pare sia piaciuto. Il belga La cinquiéme Season potrebbe aver folgorato qualche giurato, ma è difficile che metta d’accordo tutti. Outsider potrebbe essere Pietà di Kim-ki-duk, che pare sia ancora al Lido, il che lascia pensare debba essere presente alla serata di domani. Una cosa pare certa, però, e cioè Korine e De Palma esclusi dai premi.
Tra poche ore scopriremo il verdetto e, finalmente, sapremo.
8 settembre 2012 (sabato)
Qualche sorpresa, ma anche qualche conferma, nei premi attribuiti. Kim Ki-duk Leone d’Oro per Pietà pare un’esagerazione. Il film offre spunti d’interesse ma non ha la forza e l’originalità richieste dal ruggito di un leone dorato. La personale sensazione di sopravvalutazione dell’artista coreano, quindi, persiste. Un po’ troppo anche la Coppa Volpi alla protagonista di Fill the Void, bisogna però riscontrare che non c’erano ruoli femminili, e relative interpretazioni, così in grado di colpire. The Master, invece, merita il doppio premio, perché interpreti e regia sono strepitosi, e si prenota già qualche candidatura per i prossimi Oscar. Ma entriamo nel dettaglio:
LEONE D’ORO per il miglior film a:
PIETÀ di Kim Ki-duk (Corea del Sud)
LEONE D’ARGENTO per la migliore regia a:
THE MASTER di Paul Thomas Anderson (Stati Uniti)
#IMG#PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA a:
Paradies: Glaube di Ulrich Seidl (Austria, Germania, Francia)
COPPA VOLPI
per la migliore interpretazione maschile a:
Philip Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix
nel film THE MASTER di Paul Thomas Anderson (Stati Uniti)
COPPA VOLPI
per la migliore interpretazione femminile a:
Hadas Yaron
nel film FILL THE VOID di Rama Bursthein (Israele)
PREMIO MARCELLO MASTROIANNI
a un giovane attore o attrice emergente a:
Fabrizio Falco nel film
BELLA ADDORMENTATA di Marco Bellocchio (Italia)
ed È STATO IL FIGLIO di Daniele Ciprí (Italia)
PREMIO PERLA MIGLIORE SCENEGGIATURA a:
Olivier Assayas
per il film APRES MAI di Olivier Assayas (Francia)
PREMIO PER IL MIGLIORE CONTRIBUTO TECNICO, PER LA FOTOGRAFIA, a:
Daniele Ciprì
per il film È STATO IL FIGLIO di Daniele Ciprì (Italia)
LEONE DEL FUTURO – PREMIO VENEZIA OPERA PRIMA
(LUIGI DE LAURENTIIS)
La Giuria Leone del Futuro – Premio Venezia Opera Prima (Luigi De Laurentiis) della 69. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, presieduta da Shekhar Kapur e composta da Michel Demopoulos, Isabella Ferrari, Matt Reeves, Bob Sinclar,assegna il:
LEONE DEL FUTURO – PREMIO VENEZIA OPERA PRIMA (LUIGI DE LAURENTIIS) a:
KÜF (MOLD) di Ali Aydin (Turchia, Germania)
SETTIMANA INTERNAZIONALE DELLA CRITICA
nonché un premio di 100.000 USD, messi a disposizione da Filmauro di Aurelio e Luigi De Laurentiis, che saranno suddivisi in parti uguali tra il regista e il produttore.
PREMI ORIZZONTI
La Giuria Orizzonti della 69. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, presieduta da Pierfrancesco Favino e composta da Sandra den Hamer, Runa Islam, Jason Kliot, Nadine Labaki, Milcho Manchevski, Amir Naderi, dopo aver visionato i 32 film in concorso, assegna:
il PREMIO ORIZZONTI PER IL MIGLIOR FILM (riservato ai lungometraggi) a:
SAN ZIMEI di Wang Bing (Francia, Hong Kong)
il PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA ORIZZONTI (riservato ai lungometraggi) a:
TANGO LIBRE di Frédéric Fonteyne (Francia, Belgio, Lussemburgo)
il PREMIO ORIZZONTI YOUTUBE PER IL MIGLIOR CORTOMETRAGGIO a:
CHO-DE di Yoo Min-young (Corea del Sud)
il EUROPEAN FILM AWARDS 2012-EFA a:
TITLOI TELOUS di Yorgos Zois (Grecia)
LEONE D’ORO ALLA CARRIERA 2012
a: Francesco Rosi
JAEGER-LECOULTRE GLORY TO THE FILMMAKER
a: Spike Lee
PREMIO PERSOL
a: Michael Cimino
PREMIO L’ORÉAL PARIS PER IL CINEMA
a: Giulia Bevilacqua
Dal Lido, anche per quest’anno, è tutto. Con un sole fantastico, che tutto brucia tranne i ricordi di queste giornate cinematograficamente campali, l’appuntamento è per l’anno prossimo. Una cosa, comunque, è certa, Alberto Barbera non ha deluso le aspettative di chi lo attendeva al varco con il coltello spianato. Il suo festival è stato sobrio ma non sottotono, equilibrato e con alcuni titoli memorabili. Che volere di più?
Luca Baroncini