Scheda film
Regia, Soggetto, Sceneggiatura e Montaggio: Kim Ki-duk
Fotografia: Yo Yeong-jik
Scenografie: Jean Sung-ho (Mengganony)
Costumi: Ji Yi-yeon
Musiche: Park In-young
Suono: Lee Seung-yeop
Corea del Sud, 2012 – Drammatico – Durata: 104′
Cast: Lee Jung-jin, Cho Min-soo, Woo Ki-Hong, Kang Eun-Jin, Jin Yong-Ok, Heo Joon-Seok, Kwon Se-In
Uscita: 14 settembre 2012
Distribuzione: Good Films
Pietà è un film duro…
Pietà è un film duro, mai aggettivo più adatto per descrivere qualcosa. Poche parole, dialoghi minimali in perfetto stile orientale, dove l’interiorità, in questo caso inscindibile da una fredda azione, emerge nella densità di ritmi dilatati. Ciò che appare è un’ideale bolla ove un universo di orrore è rinchiuso, ma allo stesso tempo non è difficile pensare che tutto ciò sia facilmente attuale, realizzabile, non diverso, per nulla distante. I soldi a volte aiutano la vita, facilitandola, ma quando ogni cosa ruota attorno ad essi, sogni e speranze diventano sterili, facile esca di ricatto, tramite per la più cupa disperazione. Kim Ki-Duk mette in scena una tragedia, avendone tutti gli elementi necessari, con il suo postmoderno antieroe, così isolato, deviato, carnefice e vittima al tempo stesso della solitudine di un mondo crudele. Ne esce un film che segna e fa male, lancinante come una coltellata. Coi suoi personaggi terribilmente vissuti, negativi, non troppo lontani allo stile del fumetto di Frank Miller, ideologicamente vicini a Sin City. La sensazione che si avverte mentre le immagini ci scorrono sotto gli occhi è essenzialmente di freddo gelido, che ci attraversa la schiena assieme a tutta la desolazione e i paradossi che porta con sé un personaggio come Kang-Do, perfetto nella resa del suo protagonista. Uno strozzino che rende storpia la gente purché l’assicurazione risarcisca il debito contratto, figura travagliata e malinconica, disprezzabile, senza un appiglio, boia solo sulla faccia della terra, anestetizzato dai tormenti che procura, emissario di morte interamente pervaso dai propri demoni. Ma anche il più torbido dei peccatori ha una via di salvezza, una luce che lo guida e lo cambia, in questo caso è data da una figura materna, colpevole di averlo abbandonato da piccolo. Così nelle donne c’è il bene, la famosa pietas citata nel titolo, quell’accoglienza ad ogni costo e sopra ogni cosa che talvolta diviene nemesi, purché si attui un percorso di redenzione estremo. Se c’è qualcosa che spicca è la troppa violenza, volutamente calcata nella reiterazione del dolore fisico ma soprattutto interiore. Si crea così una spirale di aberrazione che non fa altro che innescare una reazione inversa, divenendo a tratti uno spettacolo tragicomico per quanto eccessivo. Il continuo indugiare con l’occhio della macchina da presa su contenuti crudi oltre il limite, rende tutto molto vicino al gore, avvicinando questo lavoro ad un film di genere, seppur sui generis perché filtrato da tante derive concettuali. Un risultato che ha in sé tutti i cliché per farne parlare. Non può Pietà non scioccare, non stupire, non rimanere così impresso da non essere stato appositamente studiato a tavolino: effetto assicurato dato il guadagnato Leone d’Oro.
Voto: * * * *
Chiara Nucera
#IMG#Per un pugno di won
Il giovane Kang-do (Lee Jung-jin) si guadagna da vivere punendo gli artigiani che non saldano i debiti contratti con l’usuraio per cui lavora, rendendoli monchi o storpi, simulando incidenti al fine di riscuotere i soldi dell’assicurazione. La sua è sempre stata una vita randagia e senza amore, tant’è che si procura piacere tramite l’autoerotismo e da mangiare arraffando ciò che trova in giro. Un giorno gli si presenta una donna più grande di lui, Mi-sun (Cho Min-soo) la quale afferma di essere sua madre, che lo abbandonò da piccolo. Il ragazzo, sentendosi finalmente amato, inizia a cambiare ed a provare pietà per le sue vittime, trovando difficoltà nel continuare il proprio lavoro. La donna in realtà è la madre non sua, ma di uno dei malcapitati clienti che si suicidò per la vergogna (nel prologo del film) ed ora è in cerca di vendetta. Fingendo ad un certo punto di essere stata rapita, innescherà una serie di eventi che provocheranno in Kang-Do un tale sconvolgimento interiore da condurlo alla soglia di un folle e definitivo gesto.
Cos’è la morte? Cosa sono i soldi? E, soprattutto, cos’è la pietà? A questi interrogativi cerca di rispondere un Kim Ki-Duk in stato di grazia, meritorio vincitore del Leone d’oro alla 69esima Mostra del Cinema di Venezia e redivivo dopo la crisi creativa che, in seguito all’incidente che fece rischiare la vita all’attrice protagonista sul set di Dream, gli consentì di girare soltanto il non-film diaristico Arirang (che poi, non a caso, è il titolo anche della canzone tradizionale coreana che ha intonato davanti ai riflettori della Mostra quale ringraziamento per l’ambito premio ricevuto) e subito dopo la sua versione “fiction” Amen.
Rigoroso e solenne, il regista, il cui ultimo film distribuito in Italia fu Soffio nel 2007, bada più alla sostanza che alla forma, non curandosi di una macchina da presa che zooma a scatti, in avanti o all’indietro, ma che sa sempre dove collocare, realizzando suggestive sequenze piene di lirismo, come quella finale e premonitrice, in cui si pone a fianco dei cadaveri della (presunta) madre e del di lei figlio, e l’ultimissima, spiazzante, che ritrae in campo lunghissimo, dopo alcuni primi piani preparatori, il sacrificio estremo di Kang-do.
Nei pochi dialoghi, i due protagonisti definiscono il denaro come l’inizio e la fine di tutte le cose, come la vita e la morte, quale ragione d’esistere e di finire. Ed il film di Kim Ki-duk vuole essere appunto una critica alla nostra società dei consumi, identica in oriente come in occidente, in cui tutto ciò che accade di spiacevole, come egli stesso ha dichiarato, ha luogo per i soldi. Non a caso ad essere vessati da strozzini senza scrupoli sono artigiani ed operai quali anche lui è stato, in alternativa alla professione di cineasta, come rievocato in Arirang.
Eccessivo, ma mai didascalico o pleonastico, il regista rasenta spesso il ridicolo involontario, senza però rimanervi invischiato, poiché la sua in realtà è “solo” raffinata ironia, calcolata ed inserita in una rigida sceneggiatura, geometrica e perfetta, che celebra il rito funebre del nostro mondo capitalista votato all’autodistruzione, per il quale si riesce a provare ormai solo un po’ di… pietà.
Voto: * * * *
Paolo Dallimonti