La dolce arte di esistere” di Pietro Reggiani (già regista de “L’estate di mio fratello”) con Francesca Golia, Pierpaolo Spollon, Salvatore Esposito, Rolando Ravello.
Il film, girato grazie ad un’operazione di crowdfunding, uscirà al cinema il prossimo 9 aprile, prodotto e distribuito da Adagio Film.
Sinossi
In un mondo in cui si suppone esista l’invisibilità psicosomatica, ovvero in cui le persone con difficoltà di relazione, in certe situazioni, diventano letteralmente invisibili, seguiamo l’incontro tra Roberta (Francesca Golia “La grande bellezza”, “La Bella Addormentata”), che ha bisogno di attenzione, altrimenti scompare, e Massimo (Pierpaolo Spollon “Terraferma”, “Leoni”), che al contrario, ansioso, scompare se sente attenzione su di sé.
Note regia
Mi sembrava, quella dell’invisibilità, una buona metafora di una difficoltà ad affrontare la vita. Mi piaceva aver immaginato due invisibilità – mi era venuta più immediata quella legata all’ansia, all’essere oggetto di attenzione, ma mi suonava bene anche quella opposta, legata al non ricevere alcuna attenzione.
A questo punto si presentava un bivio: l’invisibilità dei protagonisti poteva o meno essere eccezionale. Nel primo caso, i due che per la prima volta nella storia dell’umanità scomparivano sarebbero divenuti celeberrimi, e in un certo senso fatalmente destinati a incontrarsi. Questa versione aveva il pregio di permettere una riflessione esplicita sull’invisibilità: i sociologi, nel film, avrebbero riflettuto su quanto l’apparire di una scomparsa per ansia fosse stata una spia dell’eccessiva pressione sulle giovani generazioni, ritenute beneficiarie di eccezionali opportunità educative e tecnologiche; e quanto l’apparizione di una scomparsa per solitudine e avvilimento non fosse, al contrario, la spia di una eccessiva indulgenza verso i giovani, lasciati liberi di sbagliare al punto da non sentirsi sostenuti nei loro sforzi quotidiani. Non sarebbe stato sottaciuto il verosimile legame che fenomeni di invisibilità apparissero in una società fortemente condizionata dall’immagine, o che queste difficoltà nei rapporti umani fossero ingigantite dal passaggio di una ampia fetta di vita relazionale alla dimensione virtuale del computer; né, infine, che in una società sempre più aperta, perfino liquida, le occasioni di riuscire ma anche di fallire sono sempre più numerose, portando a fenomeni opposti e complementari di ansia e di depressione.
Ma, a fronte di alcune ottime scene per discettare sul fenomeno, la storia intima dei protagonisti e il loro lottare contro l’inesistenza sarebbero stati fortemente condizionati dalla loro celebrità: mentre a me piaceva l’idea che i percorsi fossero più quotidiani, che la parte di ognuno di noi che vorrebbe scomparire o che si sente invisibile trovasse in loro due campioni più a portata di mano. Di qui la decisione di optare per la seconda soluzione: l’invisibilità sarebbe stata, nel mondo del film, una sindrome già conosciuta, nota come invisibilità psicosomatica. E il verificarsi delle scomparse avrebbe suscitato la panoplia delle reazioni che sappiamo dipendere dai caratteri di ognuno, dal disagio al dolore, dall’assuefazione all’esasperazione. E il percorso dei nostri personaggi sarebbe avvenuto in una dimensione di quotidianità, di intimità. Le considerazioni sulla rilevanza sociale del fenomeno in fondo potevano rimanere implicite ed essere affidate allo spettatore o, se vogliamo, alle note di regia.
Risolversi all’invisibilità sindrome già conosciuta in effetti rendeva però impegnativo conservare il giusto tono del film: per due scomparse uniche nella storia dell’umanità, infatti, sarebbero abbondati i modelli di commedie in cui nel nostro mondo avviene un fenomeno ‘impossibile’ – basti citare l’ormai classico ‘Zelig’ o, tra i tanti recenti, i film scritti da Kaufman, come ‘Being John Malkovich’ o ‘Eternal Sunshine of the Spotless Mind’. Invece, per una commedia in cui nel nostro mondo un fenomeno ‘impossibile’ è relativamente normale, non avevo esempi precisi. E forse proprio perché un equilibrio del genere non è facile da mantenere: non si poteva soltanto ridere dell’assurdità delle scomparse, perché i due personaggi erano anche due malati. Così, occorreva stare abbastanza distanti da loro per poterne ridere, ma non troppo distanti per non ridurli a macchiette, al cui percorso intimo non avremmo prestato attenzione; al tempo stesso, bisognava stare attenti a non avvicinarsi troppo, oppure avremmo visto soltanto il loro dramma, di cui la scomparsa avrebbe finito con l’essere un mero accessorio accidentale.
Di questa volatilità del tono ero molto consapevole, quando abbiamo girato, nell’estate 2012. E infatti ero molto preoccupato di riuscire a girare tutto quello che era in sceneggiatura, che mi sembrava avesse la giusta misura: temevo che, omettendo qualche parte del film, il percorso dei personaggi potesse avere degli scarti, che in un equilibrio così delicato potevano essere fatali. E quello che era in sceneggiatura non era poco: mi piaceva che il film potesse osservare attraverso la lente dell’invisibilità psicosomatica tante situazioni e tanti personaggi che mi sembrava di poter descrivere, e alla fine c’erano 91 location e 148 personaggi secondari. Forse non è stata una impresa particolare in assoluto, ma per me che non ero mai stato produttore poter girare per nove settimane, e tutta quella roba, con un budget non alto (inferiore ai trecentomila euro) è stata in effetti una piccola impresa.
Avevo anche cercato di impostare una produzione a basso impatto ambientale, seguendo le linee dell’unico protocollo di produzione sostenibile allora esistente, il British Standard BS 8909 (l’italiano Edison Green Movie era ancora in fase di elaborazione); avevo stabilito che ci fosse una figura di riferimento, per quel che riguardava gli aspetti ambientali, e spulciando tra i credits delle cinematografie più sensibili di noi in materia avevo optato (dopo aver scartato un rinascimentale ma poco comprensibile ‘mastro del verde’ o ‘verdemastro’) per chiamarla greening director. I risultati pratici ci sono stati: avevamo un catering senza il micidiale materiale a consumo, i boccioni d’acqua invece delle bottigliette, l’asta del microfono invece dei radiomicrofoni a batterie (e le imprecazioni del direttore della fotografia per riuscire a evitare che le sue luci proiettassero l’ombra dell’asta sui personaggi), l’attacco alla rete invece dei gruppi elettrogeni (questo più facile, perché non avremmo potuto permetterceli in ogni caso); ma abbiamo avuto anche dei cedimenti, sui quali, dato che già insistevo per girare ogni riga di sceneggiatura, alla fine ho rinunciato ad insistere – come quei clamorosi sacchi di indifferenziata degli ultimi giorni di ripresa. Non vi devo dire come sia convinto che la questione ambientale è quella dei nostri tempi, e che i rischi che stiamo correndo come cittadini del mondo sono davvero troppo grandi. Stiamo cercando di fare qualcosa a minor impatto anche durante la distribuzione.
Tornando al montaggio, però, mi sono reso conto che la volatilità dei toni era ancora maggiore di fronte alle immagini, più imprecise delle parole. Avevo montato con una semplice supervisione il mio film precedente, ‘L’estate di mio fratello’, e mi sono intestardito a trovare il giusto tono da solo. Dopo un anno, nell’autunno 2013, era non solo chiaro che da solo non ci sarei riuscito, ma che per giunta Salvatores stava girando un film con una invisibilità legata a fattori emotivi! Piano piano, con l’intervento di una montatrice professionista, Erika Manoni, con l’ampliamento della voce narrante, che era già in sceneggiatura, e con l’arrivo ad interpretarla di una grande, generosa voce del cinema italiano come Carlo Valli, abbiamo raggiunto quello che considero il giusto tono: non così rapidamente da riuscire ad arrivare in sala prima di Salvatores, ma abbastanza per offrire l’invisibilità psicosomatica ai nostri spettatori.